Egitto: un appello all’intellighenzia

egitto polizia filospinatodi Marco Alloni

Il presente articolo è uscito, in forma ridotta e come intervista di Sherif El-Sebaie, sul Fatto Quotidiano il 18 giugno 2016. Questa versione raccoglie le riflessioni di Marco Alloni sull’intellighenzia italiana ed egiziana in tutte le sue articolazioni.

È debito indelebile quello che abbiamo tutti con Amedeo Ricucci. La sua massima più famosa, che qui translittero – “Facile fare i gay con il corpo degli altri” – resta fra gli insegnamenti cardinali dell’ultimo decennio. Declinata meno aulicamente, essa si presta a una serie di varianti su cui non possiamo più esimerci dall’interrogarci. Prima variante: “Facile fare gli atei in un Occidente scristianizzato”. Seconda variante: “Facile fare i militanti ‘egiziani’ da Salerno o Voghera”. Terza variante: “Facile attaccare l’Egitto dopo averlo abbandonato”.

Involontariamente Ricucci ha pertanto spianato la strada a quel contro-orientalismo di cui alcuni di noi avvertono più che mai la necessità. Ci ha insegnato – esortandoci a mettere in gioco la pelle prima di esibirci in fatui cicaleggi da “pantofolai dell’orientalismo” – a operare coerentemente con il nostro status esistenziale e a riconoscere che parlare di “guerre mediorientali” da Salerno ha più o meno lo stesso grado di audacia che inveire contro la Salerno-Reggio Calabria da Luxor.

Sia quindi chiaro che questo articolo esclude dal suo raggio di interesse chiunque – prima e dopo il cosiddetto “caso Regeni” – ha pensato bene di lasciare l’Egitto per scagliare i propri strali da salotti defilati. Né può rivolgersi a quanti, per quanto mai recatisi in Medioriente né per un anno o un giorno, ardono oggi del sacro fuoco di chi a un paese profondamente religioso vorrebbe spiegare i fondamenti della laicità. Unici destinatari graditi saranno quanti – da espatriati in Egitto, da italiani o italianizzati “empatici” o da egiziani residenti nella terra faraonica – l’indefettibile massima di Ricucci la mettono in atto, quotidianamente, sulla propria pelle.

A costoro, a quel che rimane dell’intellighenzia militante italica e a quel che di meno retoricamente contestativo alligna presso i militanti egiziani, rivolgo dunque ora una domanda: vi siete mai interrogati se non sia tempo di adottare, nel vostro (anzi, nel nostro) afflato riformatore, un diverso linguaggio, una diversa forma dialettica, allorché reclamate (reclamiamo) un più coerente sforzo di democratizzazione dell’Egitto da parte del governo El-Sisi? Vi siete mai chiesti se, al di là dell’ovvia legittimità di avanzare critiche al suo esecutivo, non sia tempo di ragionare sulle modalità e sull’efficacia di tali critiche?

Lungi da me – da libertario, da democratico, da ateo, da difensore della libertà di espressione e di culto, e non da ultimo da rivoluzionario all’epoca di Mubarak – avallare la tesi fin troppo diffusa – almeno presso le frange meno civicamente responsabili della popolazione egiziana – che El-Sisi rappresenti l’“uomo della provvidenza”, il “salvatore della nazione” o il “paladino del rinnovamento”. Ma altrettanto lungi da me sposare la tesi secondo la quale una contestazione di El-Sisi debba accompagnarsi alla richiesta di una sua deposizione. Come ho scritto a più riprese, chiedere la caduta di El-Sisi è un atto irresponsabile nei confronti dell’Egitto e della sua popolazione, del Medioriente e dei suoi precari equilibri e persino della stessa Europa. Direi anzi che è un atto – a tutti i livelli e per tutti gli attori coinvolti – letteralmente suicidale. Almeno fino a quando – e i tempi non sono ancora maturi – non verrà formandosi una struttura socio-partitica sufficientemente solida per avviare una progressiva ridefinizione degli assetti di potere e in grado di scongiurare il ritorno a una inapplicabile governance di stampo islamista o un’eventuale guerra civile.

Detto questo è del tutto evidente che, se non è strategicamente accorto né intellettualmente sensato promuovere un simile processo virtuoso avanzando aproblematicamente la pretesa che El-Sisi ceda il passo ad altri – a chi, poi? –, è nondimeno necessario che la “democratizzazione” dell’Egitto trovi la propria strada fin da subito. E affinché ciò avvenga è più che mai urgente che l’opposizione – in primo luogo l’opposizione intellettuale egiziana – adotti strumenti di contestazione in grado di stabilire una feconda dialettica con il potere e non il solito, infruttuoso e controproducente muro contro muro.

Fintantoché l’intellighenzia egiziana – giornalisti e categorie sindacali in testa, per non parlare di quella italiota – non prenderà atto che nessuna forma di contestazione “aggressiva” e sterilmente “diffamatoria”, di pura “denuncia” o di pressapochistica “veemenza” porterà ad altro che a repressione e carcere – cioè a una violenza opposta e speculare – nessuna efficace dialettica riuscirà a instaurarsi e nessun risultato politico e sociale concreto sarà perseguito. Affinché la “democratizzazione” proceda – e affinché a promuoverla sia l’intellighenzia (come è ovvio che sia se non vogliamo corteggiare l’utopia che una simile vocazione spetti alla casta militare) – dobbiamo esortare l’intellighenzia stessa a sviluppare gli strumenti adeguati a una contestazione costruttiva.

E quali sono questi strumenti? Essenzialmente due. Il primo: riconoscere che l’Egitto non è nelle condizioni storico-politiche per concedere margini alla dissidenza che rischino di travalicare nell’eversione. Il secondo: prospettare per ogni azione di contestazione dei concreti piani alternativi a quelli adottati dal governo. In una parola: rendersi conto che la critica alla governance El-Sisi, legittima e sacrosanta in ogni consesso che si professi repubblicano, non può e non deve soprassedere sulle modalità della propria azione in nome di princìpi assunti come sacri a prescindere dal loro contesto di applicazione.

Partiamo allora dal primo punto. Che significa riconoscere che l’Egitto non può permettersi di concedere alla dissidenza i margini per diventare eversione? Significa prendere atto che il contesto egiziano non è quello svedese e che El-Sisi non può concedersi passi falsi come potrebbe fare un presidente europeo. Significa avere contezza che – al di qua e al di là della naturale predisposizione repressiva delle forze dell’ordine egiziane, su cui è doveroso vigilare – un sottilissimo confine divide la dissidenza costruttiva dall’eversione distruttiva: un confine che naturalmente è assai arduo indicare astrattamente, ma della cui fragilità il governo egiziano è ben consapevole. Laddove infatti, in un contesto diverso da quello egiziano, una semplice manifestazione di protesta o un semplice sit-in di contestazione o appello sui social network, determinerebbe al più qualche trascurabile dissapore sociale, in Egitto potrebbe tracimare in una sollevazione popolare inarginabile. Ne siano prova la rivoluzione del 2011 – nata dal tam-tam dei social network – e l’oceanica manifestazione che portò alla deposizione di Morsi – 30 milioni di egiziani scesi in piazza dopo una banale raccolta di firme. Queste che vorrei designare come le “ragioni del potere” non possono essere ignorate: non tanto e non già affinché il potere stesso ne tragga indebitamente vantaggio, perseguendo implacabile nella repressione, ma perché sia chiaro cosa debba intendersi per confine fra dissidenza ed eversione in un simile contesto. E quali tragiche conseguenze – in un impossibile conteggio teorico, certamente, ben maggiori di quelle determinate da incarcerazioni più o meno arbitrarie – esse potrebbero produrre.

È pertanto compito precipuo dell’intellighenzia non soprassedere su queste determinazioni e su tali fragilissimi equilibri, e nella propria azione contestativa non perdere di vista il rischio che le proprie sacrosante rivendicazioni di principio debbano tener conto, realisticamente, di princìpi altrettanto sacrosanti: primo fra tutti, la stabilità del paese.

D’altra parte l’Egitto è un paese in guerra. Chi lo governa non si sta occupando di quali politiche adottare per allineare le siepi ma deve far fronte a una molteplicità di pressioni interne ed esterne che attentano quotidianamente alla sua tenuta. E se non di guerra in senso proprio è opportuno parlare riferendosi a un’economia e a uno stato del lavoro sull’orlo del tracollo – complice anche il crollo del turismo indotto da questa o quella forma di boicottaggio – e non una guerra in senso proprio è quella che il governo deve ingaggiare per resistere alle strategie di balcanizzazione che mirano alla frantumazione del Medioriente – come è accaduto per Iraq e Libia –, certamente è una guerra quella che combatte da anni contro il terrorismo islamico tracimato da Levante verso il Sinai e che ha potuto godere, sotto Morsi, di una cruciale spinta propulsiva e organizzativa – ricordiamo, a titolo di esempio, l’appello del deposto raìs a scarcerare dalle prigioni di New York il fondatore del gruppo terroristico gamaa islamiyya Mohammad Abdel Rahman – e ora, con l’ascesa di Isis, di una ramificazione in Medioriente, e persino in Europa, senza precedenti.

Non dunque di un’intellighenzia ai tempi della pace e della stabilità bisogna parlare, ma di un’intellighenzia ai tempi della guerra e della destabilizzazione. Di un’intellighenzia che deve intelligere anche al di là dei propri assiomi e delle proprie petizioni di principio.

Secondo punto: se è vero che il contesto impone linguaggi e forme contestative adeguati alla delicatezza del momento, e se è vero che il rischio eversivo e quindi distruttivo di un intero paese non è solo un’ossessione dittatoriale delle gerarchie al potere, come dovrebbe agire l’intellighenzia per non determinare la solita ricaduta nel “muro contro muro” della protesta veemente e della repressione altrettanto veemente? Come dicevo sopra: prospettando, per ogni propria azione di contestazione, dei concreti piani alternativi a quelli adottati dal governo.

È prassi, sia presso i media occidentali che quelli egiziani, focalizzare con un certo semplicismo la propria azione critica a El-Sisi sulla contestazione in sé. Meno frequente – e certamente più arduo – accompagnarla a quella pars costruens di cui sembrano sempre delegati a occuparsi altri. Anche su questo piano credo sia tempo di valutare in modo nuovo le forme della militanza: finché non si prospettano alternative concrete e praticabili a quelle adottate su questo o quel fronte politico dall’esecutivo El-Sisi, sarebbe forse più opportuno tacere. Un esempio: le due isole cedute all’Arabia Saudita. Manifestazioni, orgoglio nazionale, “non siamo disposti a svendere il nostro paese”. Benissimo: ma intanto l’economia precipita e l’Occidente – Italia in testa – ritira i propri finanziamenti. Qualcuno ha idea di come salvare le casse dello Stato altrimenti? Di questi complessi piani alternativi sarebbe ora che l’intellighenzia e i giornalisti presentassero i lineamenti al governo: poi scendano pure in piazza. Ma buttare il bambino con l’acqua sporca è operazione fin troppo elementare.

Se le mozioni critiche contro El-Sisi obbediscono dunque ad automatismi che rendono la stessa critica – oltreché spesso ridicola e approssimativa, categoriale e aprioristica – del tutto inefficace al raggiungimento di qualunque serio effetto trasformativo, e se il solito e reiterato appello alle “ragioni della democrazia” non può pretendersi incondizionatamente degno di reificazione, e se certamente utile ad appagare astratti afflati democratici e a mettere in pace la propria coscienza è l’indignazione meramente decostruttiva ma mai a produrre condizioni di governo migliori, probabilmente solo una riforma alla radice delle modalità contestative potrà creare le condizioni per un discorso polemico e riformatore di reale efficacia.

Impariamo dunque da Ricucci a metterci anche nei panni degli altri, se necessario nei panni di El-Sisi e di chi questo martoriato paese lo deve tenere in piedi. Quando avremo sviluppato gli strumenti per sostituirlo adeguatamente, sostituiamolo. Fino a quel momento cerchiamo, pur storcendo il naso, di essere collaborativi. Ne va di 100 milioni di abitanti, non solo dei nostri manuali sui diritti umani.