Le vene aperte dell’America Latina

Cuba murales donnedi Giusi Greta Di Cristina*

Riceviamo dalla compagna Giusi Greta di Cristina e volentieri pubblichiamo

“La divisione internazionale del lavoro consiste nel fatto che alcuni Paesi si specializzino nel vincere ed altri nel perdere. La nostra regione del mondo, che oggi chiamiamo America Latina, è stata precoce in questo: si è specializzata nel perdere dai remoti tempi in cui gli europei del Rinascimento si sono scagliati attraverso il mare e hanno affondato i denti sulla sua gola. Sono passati i secoli e l’America Latina ha perfezionato le sue funzioni. Non è il regno delle meraviglie dove la realtà vinceva la favola e l’immaginazione veniva umiliata dai trofei della conquista, i giacimenti di oro e la montagna d’argento. Ma la regione continua a fare da schiava. Continua a esistere al servizio delle necessità straniere, come fonte e riserva di petrolio e ferro, il rame e la carne, i frutti e il caffè, le materie prime e gli alimenti con destinazione ai paesi ricchi che guadagnano, consumandoli, molto più di quel che l’America Latina guadagna producendoli.”.

Così comincia “Le vene aperte dell’America Latina“, capolavoro di Edoardo Galeano del 1971. Queste parole rivelano la chiave di volta per l’acquisizione di una corretta impostazione di analisi dei processi latinoamericani.

Le vene dell’America Latina sono state aperte, scorticate, dalla fame senza fine dei conquistatori di ieri e di oggi, dalla smania di conquista territoriale e di risorse prima degli europei poi dei nordamericani., dalla volontà degli uni e degli altri di trasformare una regione immensa a immensa distesa di manodopera a bassissimo costo, di mercato autoreferenziale, di popoli da piegare ai propri desideri politici ed economici.

Per tutto questo, ieri e oggi, l’approccio alle vicende che vede protagonista il subcontinente americano non può non vedere coinvolti tanti elementi, diversi ma congruenti, opposti ma divergenti, che spiegano la natura degli eventi in sé e divengono terreno di analisi politiche, economiche e sociali orientate alla comprensione delle dinamiche mondiali.

Nessuna altra regione del mondo, infatti, può mostrare tutte le ferite tutte insieme e può offrirsi, da questo punto di vista, valida cartina da tornasole di tutti i tentativi rivoluzionari e controrivoluzionari, almeno a partire dagli anni ’60 del Novecento.

Ma, bisogna premunirsi di alcune conoscenze basilari quando si parla di America Latina, bisogna attrezzarsi di strumenti di conoscenza liberati da un europeismo che talvolta acceca, e che sicuramente imbriglia dentro analisi quando non fuorvianti sicuramente monche o manichee.

Cos’è l’America Latina per gli studiosi, per gli analisti europei?

Per molto tempo, il continente latinoamericano è stato visto, studiato e analizzato in maniera decisamente raffazzonata e solo in virtù dei riflessi dei processi politico-economici che la vedevano subalterna all’Europa prima e agli Stati Uniti poi.

Ecco: la superficialità di questa analisi, persistente nonostante il passare dei tempi, ha per decenni contrassegnato la visione miope rispetto ai fenomeni sudamericani, negando qualsiasi comparazione allineata o non allineata all’occidentalismo dominante.

È così che, per fare un esempio, verrà trattata la Rivoluzione Messicana di Emiliano Zapata e Pancho Villa, come epopea da film e non come rivolta dei contadini rivoluzionari contro il sistema. E, a partire da essa, tutti i sommovimenti politici della regione sudamericana, verranno sempre trattati con lo stesso superficiale atteggiamento, decisamente poco scientifico e scevro d’ogni capacità critica, ma totalmente asservita alla liturgia nordamericana che si è impegnata strenuamente a trasformare ogni movimento indipendentista o rivoluzionario in una frangia da soffocare, o attraverso l’intervento diretto o attraverso leggi e decisioni spesso unilaterali.

Il primo, a tal proposito, è l’Emendamento Platt del 1901, adottato proprio in seguito della Rivoluzione Nazionale Cubana, solo cinque anni dopo la scomparsa del padre di Nuestra América, José Martí, col quale gli Stati Uniti pretendono il diritto d’intervento nel territorio di Cuba e limitava la possibilità dell’isola di stringere alleanze e contrarre debiti con altri Paesi.

Tale emendamento, inserito nella Costituzione in cambio dell’indipendenza, di fatto trasformò Cuba in un protettorato e seguiva perfettamente il diktat della Dottrina Monroe, quello per intenderci de “l’America agli americani”, che già dal 1823 sancì la non ingerenza dei popoli europei negli affari americani e che verrà in seguito rafforzata.

All’Emendamento Platt seguiranno, in ordine cronologico: la Dottrina del Manifest Destiny che prevedeva l’esportazione di democrazia, la creazione del CEPAL, l’Atto di Chapultepec, il TIAR, l’OSA, la Dottrina Mann coi quali gli Stati Uniti strinsero alleanze in America Latina che, in cambio di ingenti somme di danaro, avrebbero garantito l’ascesa di governi confacenti ai nordamericani e, soprattutto, non comunisti.

Quella dell’anticomunismo fu la cifra insieme più virulenta e persistente dell’ingerenza di Washington, messa in atto in difesa della loro politica e degli elementi ad essa intrinseci, ovvero il liberismo senza regole e lo sfruttamento. Per portarla a compimento strinsero alleanze strategiche e appoggiarono governi, dai più moderati liberali degli inizi del Novecento, ai caudillos populisti a cavallo tra le due guerre, ai militari, i quali, in una sorta di intermittenza, domineranno la scena politica latinoamericana. Nulla è parso distogliere gli Stati Uniti dall’ambizione di bloccare ogni possibile offensiva comunista, reale o immaginaria, che potesse divenire una seria minaccia al loro equilibrio e una vittoria dell’URSS.

“Il più pericoloso fra tutti gli scenari”: così il presidente Kennedy considerò l’amicizia tra URSS e Cuba e, in seguito a questo, permise l’invasione della Baia dei Porci e decise l’embargo contro l’isola di Castro e Guevara.

Un pericoloso scenario che durante la grande ondata rivoluzionaria degli anni Sessanta preoccupò talmente tanto gli Stati Uniti da portarli ad organizzare veri e propri campi di addestramento per gli eserciti latinoamericani disposti a far decadere i legittimi governi eletti democraticamente ma in odor di comunismo, come quello brasiliano di Goularti o quello di Allende, o mandar fior di quattrini a sostegno delle dittature militari vicine al governo di Washington che avrebbero destinato i loro Paesi a un’intensa campagna economica liberista, come nel caso del golpe di Videla in Argentina. Questi solo alcuni esempi, perché l’intero subcontinente fu pervaso da una violentissima recrudescenza controrivoluzionaria, fra le pagine più nere che il mondo ricordi, e della quale tutti i governi alleati agli Stati Uniti furono direttamente o indirettamente complici.

Solo il Nicaragua del Frente Sandinista rappresentò un’isola di resistenza antimperialista dinanzi allo sfacelo delle libertà dei popoli di quegli anni.

E d’altronde, fu il solo Carter a dare un freno a quest’ingerenza nel subcontinente e a cominciare a voler fare i conti con la questione dei diritti umani, in quegli anni continuamente dimenticati in nome della “dottrina della sicurezza nazionale”, in cui nazionalismo e liberismo economico costituirono un solido e conveniente sposalizio.

Non è difficile immaginare che la politica a venire, quella dei Reagan, della Thatcher, dello scioglimento dell’URSS, si traducesse nella riduzione dell’America Latina come “giardino di casa”, “lo zerbino di casa” sarebbe più consono dire però, data la percentuale di problemi legati all’inflazione, alla povertà dilagante, alla disuguaglianza fra le classi sociali, ai fenomeni come quello del narcotraffico, che rendevano i popoli di Nuestra América ancora più fragili e momentaneamente incapaci di reagire in maniera rivoluzionaria alla fine delle dittature.

Ma ecco che proprio allora qualcosa accada. Qualcosa di straordinario se si considerano le premesse di partenza in cui gli eventi si trovarono a divenire. E succede che i popoli si ribellano, che reagiscono al nazionalismo e alla violenza dei dittatori, al capitalismo senza freni dei nordamericani e iniziano, nuovamente, a riprendere in mano i loro destini.

Risalgono a questo periodo due grandissime esperienze ed espressione di rivolte: il FMLN, Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional in El Salvador e la guerriglia zapatista in Chiapas. Questi e in generale di tutti i movimenti, i sindacati, i partiti di matrice socialista e comunista riprendono un filo rosso mai reciso, ma solo temporaneamente fermato dalla brutalità dei militari. Essi non avranno vita facile, in particolar modo a causa delle gravi deficienze economiche dovute alla dipendenza dei capitali esteri, che porterà anni dopo un grande Paese come l’Argentina a crollare sotto il colpo dell’inflazione ma vedrà pure un altro grande Paese come il Venezuela riprendersi con diritto i suoi possedimenti, decidere del suo territorio e della sua politica, decidere del suo petrolio tagliando di netto i rapporti col suo vicino del nord e preferendogli altri mercati, innescando grazie a Hugo Chávez Fría quel che sarà chiamato “El Socialismo del Siglo XXI”.

La Repubblica Bolivariana del Venezuela e Cuba rappresenteranno per tutti i popoli del Sud America il nuovo mondo non solo possibile ma realizzabile: seguiranno l’esempio l’Ecuador di Rafael Correa, la Bolivia di Evo Morales, l’Uruguay di Pepe Mujica, il Salvador di Salvador Sánchez Cerén, il Nicaragua di Daniel Ortega. E proprio per quello che rappresenteranno dentro e fuori l’America Latina i tentativi di assassinio dei due leader e i tentativi di golpe messi in atto in collaborazione con la CIA saranno ripetuti.

Altre esperienze, come quella del Brasile di Lula e poi di Dilma, del Cile della Bachelet, non propriamente comuniste, hanno comunque aperto la strada e compartecipato alla costruzione di scenari economico-politici in cui l’America Latina è la sola fautrice del suo destino: al progetto statunitense dell’ALCA hanno risposto con l’ALBA, col Mercosur e col progetto del Sucre.

Questi esperimenti politici e sociali hanno inoltre rappresentato per milioni di donne e uomini nel mondo la certezza di una via contemporanea alternativa al dominio statunitense, che – con la fine della Guerra Fredda – era rimasto l’indisturbato protagonista delle decisioni del mondo, creando un polarismo unico ed autoreferenziale a targa iperliberista.

L’America Latina che noi abbiamo conosciuto in questi ultimi anni, quella che ci ha dato speranze e forze per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo socialista, ha subìto però recentemente gravi sconfitte. Il golpe in Honduras contro Manuel Zelaya, la morte prematura del comandante Chávez, la vittoria alle elezioni in Argentina dell’ultraliberista Macri, il golpe parlamentare di cui è stata vittima Dilma Rousseff e le gravi accuse contro Lula in Brasile, l’altro golpe parlamentare in El Salvador, gli attacchi continui al governo socialista in Cile e gli ultimissimi tentativi di porre fine al processo di Pace in Colombia con le FARC sono la punta dell’iceberg di un pericoloso tentativo di destabilizzazione di un continente che è riuscito, insieme, a fare a meno degli Stati Uniti, a pagare i suoi debiti con l’estero, a farsi promotore di politiche sociali dentro e fuori il Continente, di stringere alleanze politiche ed economiche non in sintonia con Washington.

La morte del nostro amato comandante eterno, Fidel Castro Ruz, accentua la delicatezza del momento e la necessità dell’unità e dell’aiuto reciproco di tutte le forze sinceramente anticapitaliste e antiliberiste, comuniste e socialiste, che vedono ancora il centro del mondo nell’esperienza di ogni essere umano piuttosto che nella quantità di denaro percepita da banche e multinazionali.

Perseveranza, abnegazione, fiducia nella lotta comune, ricerca del benessere condiviso: questi gli imperativi di sempre e di oggi, dinanzi ai quali nessuno di noi può permettersi un solo passo indietro.

Il miglior modo di onorare l’insegnamento dei Padri di Nuestra América non può che essere l’inseguimento di quegli ideali, nella piena convinzione di essere nel giusto e di poter stabilire una netta, chiara, indispensabile linea divisoria non confondibile tra noi e chi vorrebbe il mondo “globalizzato”, dove però libere sono le merci, le armi, le droghe, la prostituzione ma mai i diritti, la libertà, la salvaguardia di tutti gli esseri umani figli di questo Pianeta.

Ai nostri prestigiosi intervenuti toccherà il compito di narrare alcune tra le pagine di Storia più belle, eroiche, imponenti – se per imponente si considera il coraggio degli uomini e delle donne del mondo – che abbiamo avuto il privilegio di conoscere. A tutti noi l’augurio di poter intraprendere quel cammino meraviglioso che i grandi hanno segnato. Io mi sono limitata a fare qualche esempio: tanti nomi e vicende ho trascurato, ma non per importanza, ma solo perché ha talmente tanto da insegnare l’America Latina che impossibile era riuscire a inserire tutti in questo breve e imperfetto discorso, e per questo chiedo perdono a voi e a chi non ho citato.

Lasciatemi terminare, così come ho cominciato, prendendo ancora una volta in prestito le parole di Edoardo Galeano, un altro grande che ci ha lasciato troppo presto. Sono tratte dall’opera “Specchi” e sono dedicate al nostro Fidel.

Però alcune cose i suoi nemici non le dicono: non si scopriva il petto per offrirlo alle pallottole degli invasori, per posare per i libri di storia. Ha affrontato gli uragani come un loro pari, uragano contro uragano, è sopravvissuto a 637 attentati alla sua vita, la sua energia contagiosa è stata decisiva per creare una nazione da una colonia e non è stato per la maledizione di Lucifero o per un miracolo di Dio che il nuovo paese è riuscito sopravvivere a 10 presidenti degli Stati Uniti, con i loro tovaglioli stesi in grembo, pronti a mangiarla con coltello e forchetta.

E i suoi nemici non dicono mai che Cuba è un paese raro che non compete per la Coppa del Mondo di Zerbino.

E non dicono che la rivoluzione, punita per il crimine di dignità, è quello che è riuscita a essere e non quello che desiderava diventare.

Né dicono che il muro che separa il desiderio dalla realtà è diventato anche più alto e più largo grazie al blocco imperiale, che ha soffocato la democrazia di stile cubano, ha militarizzato la società, e ha dato alla burocrazia, sempre pronta a offrire un problema per ogni soluzione, l’alibi di cui aveva bisogno per giustificarsi e perpetuarsi.

E non dicono che malgrado tutto il dolore, malgrado le aggressioni esterne e il dispotismo interno, l’isola afflitta e ostinata ha generato la società meno ingiusta in America Latina.

E i suoi nemici non dicono che questa impresa è stata il risultato del sacrificio del suo popolo, e anche della volontà ostinata e del senso dell’onore fuori moda del cavaliere che ha sempre combattuto dalla parte dei perdenti, come il suo famoso collega sui campi della Castiglia.

*Intervento presentato nel corso dell’iniziativa organizzata il 10 dicembre dal Partito Comunista Italiano sul recente passato e l’attualità dell’America Latina.