La sinistra e l’economia: da Sraffa e Keynes alla riforma del MES

cesaratto sergiodi Alba Vastano

da blog-lavoroesalute.org

Intervista a Sergio Cesaratto a cura di Alba Vastano.

“Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. Ѐ una strategia folle”
(Sergio Cesaratto)

Un mese e la riforma del MES, il fondo salva Stati, verrà attuata. Vorremmo così non fosse, ma ci sono tutti i presupposti che lasciano pensare ad un amarissimo dono di Natale che l’Europa sta per propinarci. Per comprendere i meccanismi della riforma e le conseguenze che piomberanno come una mannaia sull’economia italiana, già compromessa da un enorme debito, ne parliamo con Sergio Cesaratto, fra i più noti economisti critici internazionali. Tanto umile ed empatico nel privato, quanto serio e rigoroso nella professione. A lui, all’economista eterodosso, appellativo con cui ama definirsi, alla sua militanza universitaria, al suo sentirsi uomo di sinistra, pur criticandone le inadempienze, rivolgo le domande seguenti in questa lunga intervista. Concludendo con quelle più ‘mordaci’, sapendo che chi risponde, lo fa mantenendo la modestia e l’allure elegante del valente professionista. Grazie professor Cesaratto.

Professor Cesaratto, entriamo subito nel vivo, ovvero l’attuale questione del MES , il fondo salva Stati. Anzitutto, per i profani in materia di economia, può spiegare cos’è il MES e come funziona questo meccanismo applicato all’economia europea?

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche fondo salva-Stati, fu creato nel 2011. Interviene a finanziare uno Stato quando per quest’ultimo non ha più senso finanziarsi sui mercati a causa di tassi di interesse troppo alti. Semplificando, quando i sottoscrittori del debito pubblico non rinnovano i prestiti, non trovando altri acquirenti a tassi ragionevoli, il Paese non può restituire i prestiti in scadenza ed è in default. Il MES interverrebbe prestando quattrini al Paese, probabilmente in combinazione con la BCE che a sua volta comprerebbe titoli di Stato sotto il cappello dell’OMT (Outright Monetary Transactions), il programma annunciato da Draghi nel luglio 2012 nel famoso discorso in cui disse che la BCE avrebbe fatto tutto quanto necessario (“whatever it takes”) per preservare l’euro. L’aiuto di Draghi era subordinato a prestiti MES, e questi ultimi a un “memorandum of understanding”, un impegno del Paese a perseguire politiche di aggiustamento fiscale (leggi: austerità). Il MES ha un capitale fornito dai Paesi dell’eurozona (80 miliardi), e in caso di prestiti si può finanziare emettendo titoli.

La riforma del Mes dovrebbe avvenire entro fine anno. Nel sistema economico italiano sale la preoccupazione per questa riforma. Se, come prevedibile, verrà attuata,come prima risposta le banche italiane smetterebbero di acquistare titoli nazionali?

Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (ABI) Patuelli ha detto di sì.

Per quale ragione?

Nel nuovo-MES si allude alla “ristrutturazione del debito” nel caso lo staff del MES non reputi il debito di quel Paese sostenibile. Ristrutturazione significa che i detentori dei titoli di Stato potrebbero vederne allungate le scadenze, o abbassato il rendimento, o infine addirittura vedere tagliato parte del loro credito (haircut).

Se si arrivasse a questo, quali saranno le conseguenze più pesanti sull’economia nazionale?

Tutti ricordano cosa accadde quando Merkel e Sarkozy, nell’autunno 2010 annunciarono che da quel momento i prestatori agli Stati in default avrebbero subito perdite – tanto nel maggio le banche tedesche e francesi che avevano prestato quattrini alla Grecia erano state già messe in sicurezza (anche coi nostri soldi) quindi al riparo da un haircut. Secondo molti osservatori, fu proprio questo annuncio a innescare la crisi di sfiducia verso i titoli italiani e spagnoli, ciò che ci costrinse all’emissioni di titoli a tassi esorbitanti, che ancora paghiamo. Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. E’ una strategia folle.

Ma qual è il giudizio politico?

Da tempo la Germania vuole sottrarre il giudizio sul rispetto delle regole fiscali alla giurisdizione della Commissione, essendo quest’ultima troppo sensibile agli equilibri politici (per esempio, non giudicando troppo severamente governi italiani considerati “amici”). Al MES verrebbero attribuito poteri molto forti. Sotto mentite spoglie è il Fondo monetario europeo desiderato da tempo dalla Germania. Insomma l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi a sostenerli attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerli nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo quanto tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania ed Olanda, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.

I filo-europeisti governativi hanno però negato che nel nuovo Trattato si parli di “ristrutturazione del debito”.

In una sorta di preambolo al Trattato si dice: “(12B) in circostanze eccezionali una forma adeguata e proporzionata di coinvolgimento dei privati, in linea con le pratiche del Fondo Monetario Internazionale, verrà presa in considerazione nei casi in cui il sostegno alla stabilità [del debito] è concesso accompagnato da condizionalità nella forma di programmi di aggiustamento macroeconomico”). Per coinvolgimento del settore privato (Private sector involvement) si intende ristrutturazione del debito. Quest’ultimo non è automatico, questo va riconosciuto, ma è fra le opzioni possibili. Nell’articolato poi il punto non viene ripreso, ma nell’Annesso III dove si specificano le condizioni di accesso agli aiuti si menziona la clausola della sostenibilità del debito (senza entrare nei dettagli).

Pierre Moscovici, al termine del suo mandato come responsabile dell’economia in Ue, manda due messaggi importanti all’Italia. Se la riforma si blocca salta il sostegno alle banche. La frontiera è l’euro e il sovranismo deve arretrare. Che ne pensa?

Il nuovo-MES contempla la possibilità per questa agenzia europea di fungere da garanzia di ultima istanza nel caso di ristrutturazione delle banche europee. Ma ad essere nei guai sono soprattutto le banche tedesche, e il messaggio è a Berlino che dovrebbe essere indirizzato. C’è in verità una seconda discussione in corso e che riguarda l’assicurazione europea sui depositi bancari sotto i 100 mila euro. Questi sono oggi assicurati a livello nazionale, ma una vera sicurezza può solo provenire da una assicurazione europea (come negli Stati Uniti). L’Italia sta bloccando un accordo in questa direzione in quanto la Germania la subordina a un’altra misura destabilizzante per il nostro debito pubblico, ovvero che le banche italiane si liberino di buona parte dei 400 miliardi di titoli di Stato che hanno in pancia. Anche in questo caso l’Europa proibisce e non costruisce, come si è espresso il governatore Visco a proposito del MES. Circa euro e sovranismo, beh forse il quesito lo dovrei porre io a lei! Sarebbe bene che la sinistra si chiarisse le idee sull’Europa decidendo se davvero la considera la nuova frontiera dell’internazionalismo, oppure se intende privilegiare i problemi delle nostre masse popolari. Per gente come Moscovici l’Europa è la frontiera del liberismo, e la rivendicazione di spazi nazionali ne è la negazione. La sinistra italiana da che parte sta?

Philip Lane, economista Bce, afferma “ l’economia cresce meno velocemente di quanto sperassimo”. Assicurando però che nell’Eurozona non sono previste recessioni Lei come vede e prevede la situazione odierna e per il 2020?

La fase di rallentamento dell’economia mondiale sta già aggravando le nostre prospettive, e l’Europa a guida tedesca non sta facendo nulla per prepararsi. Con la fine del mandato di Draghi non c’è più la certezza di una guida adeguata alla BCE – Christine Lagarde ha dichiarato una continuità, ma chissà! La Germania prosegue sul cammino del rigore fiscale per sé e per gli altri. Una politica industriale europea non c’è (se non accordi franco-tedeschi che lasciano da parte gli altri). Se a questo aggiungiamo il disastro della nostra classe politica, inclusa l’assenza di una sinistra all’altezza dei problemi del nostro paese, le prospettive sono preoccupanti.

In questa ottica le scelte dei governi dovranno puntare alla flessibilità sul deficit o maggiormente a riforme strutturali?

Riforme strutturali significa più laissez-faire. Non siamo più ai tempi del PCI quando aveva un altro significato. Flessibilità fiscale significa poco per l’Italia (a parte gli “zero virgola”) in quanto la leva fiscale dovrebbe essere impiegata in primo luogo dai Paesi che hanno spazio per espandere la spesa pubblica, Germania in primis – che ha conti in ordine non tanto per proprie virtù, ma per le disgrazie altrui per cui gli investitori si sono buttati sui titoli di Stato tedeschi sicché Berlino paga da anni tassi negativi. Un’espansione fiscale in un Paese solo è impossibile, non tanto per i parametri di Maastricht, ma soprattutto perché i mercati ci farebbero a pezzi. In ambito europeo, se Germania che espandesse, se la BCE che continuasse nella politica di acquisto dei titoli pubblici e, soprattutto, se si adottassero forme di europeizzazione del debito, uno spazio fiscale si aprirebbe anche per noi. Se, se , se…

Professore, un’ultima domanda sulla riforma del Mes. Per quali motivi si dovrebbero accettare ipotetici strumenti di sostegno che in realtà sembrano penalizzare ancor di più le economie degli Stati. Lo Stato spende per gli interessi del debito il doppio di quanto spende per investimenti pubblici. Il Mes non sembra essere un meccanismo che facilita  il rientro del debito, ma al contrario questi strumenti di assistenza finanziaria potrebbero facilitare invece una nuova crisi del debito.

L’abbiamo detto: l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerci nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo come tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.

Nel caso di un’effettiva ristrutturazione del debito, questo colpirebbe le banche, in particolare quelle italiane che sono forti detentrici di nostri titoli di Stato. Cosa accadrebbe nel caso di una ristrutturazione del debito italiano? Interverrebbe lo stesso nuovo-MES dotato ora di potere diretto di prestare quattrini alle banche? Ma che pasticcio è?

Il debito pubblico italiano sarebbe perfettamente sostenibile con bassi tassi di interesse e una politica fiscale europea che sostenesse la crescita. Come ha proposto il prof. Paolo Savona, il MES dovrebbe essere utilizzato per “europeizzare” una parte del debito pubblico dei paesi europei. Il MES lo potrebbe fare emettendo titoli a tassi bassissimi (dato che ha una garanzia europea) e finanziando così l’acquisto di titoli di Stato Europei. I titoli emessi dal MES costituirebbero quel safe asset, quel titolo europeo ritenuto sicuro, molto gradito agli investitori internazionali e alle banche europee. Invece di riformare la propria assurda costituzione economica, l’Europa ne accentua invece i tratti più oppressivi. Il governo italiano farebbe bene a non firmare per il nuovo-MES, chiedendo un periodo di riflessione su tutto l’impianto economico dell’Eurozona. A proposito: chi lo spiega alle “sardine”?

Passiamo alla sua ultima opera, di cui è disponibile da pochi giorni la seconda edizione. Parliamo di “Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)” (Diarkos). Perché leggerlo?

La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un ottimo riscontro (e la nuova edizione è già in ristampa mentre le edizioni in spagnolo ed inglese sono in preparazione, quest’ultima col colosso Springer) perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino a quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha colpito di più i lettori.

Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro il concetto di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane del prodotto sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori. Questo semplice concetto ci dà la chiave per ricostruire il funzionamento delle diverse “formazioni economiche” pre-capitalistiche, dall’economia neolitica alle civiltà antiche e successivamente al feudalesimo. A seconda delle diverse condizioni geografiche e storico-istituzionali diverse sono infatti state le modalità con cui le classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale. Non è un caso che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi archeologici delle civiltà antiche e nell’antropologia.

La teoria economica marginalista ha invece al suo centro l’idea che il laissez faire conduca a una distribuzione del reddito fra i “fattori produttivi” (come lavoro, capitale e terra) in cui ciascuno ottiene una fetta di torta commisurata all’apporto di quel fattore alla produzione sociale. A ciascuno il suo, insomma. Il punto è che, come Sraffa dimostra, nella dimostrazione analitica di tali conclusioni essa compie gravi errori che ne inficiano i risultati. In aggiunta, Keynes dimostra come non sia vero come preteso da questa teoria che tutto ciò che si produce è venduto, ma che il capitalismo soffre di carenza di domanda aggregata. Tale carenza è da porsi in relazione proprio con la diseguale distribuzione del reddito che caratterizza anche il capitalismo. Chi ha i denti non ha il pane… come si usa dire.

L’economia è alla portata di tutti, con un po’ di sforzo. Purtroppo anche a sinistra prevale la pigrizia mentale. Altri temi che si prestano a più facili passioni prevalgono nel sentire comune. Basti guardare al fenomeno delle “sardine” dove prevale il generico, o addirittura si fa di quella europea la propria bandiera. Dunque si sventola uno dei simboli del liberismo. Oppure si guardi a Pancho Pardi, il nonno delle “sardine”, che in una trasmissione Rai a cui partecipavo ha detto che lui di economia non capisce nulla. Ma allora come ha fatto a fare politica? Questi sono i nostri leader e leaderini? Beh, le “Sei lezioni” sono state scritte anche per voi, soprattutto per voi. Ma c’è da mettere assieme Vangelo e Gramsci: serve la buona volontà.

Lei sostiene, nella prefazione del saggio, che la crisi europea e le motivazioni, che descrive ampliamente, hanno stimolato l’interesse di molti giovani che si sono avvicinati alle teorie economiche per capirne le ragioni. Sostiene anche che c’è stata una riscoperta di massa del pensiero di Keynes, di cui lei sembra essere grande fautore. E’ così?

Sì, moltissima gente, giovani in particolare, si sono avvicinati all’economia per capire ciò che stava accadendo. Ma le “Sei lezioni” hanno aperto la mente anche a tanti giovani che studiano economia in università dove il pluralismo delle idee è scomparso. Dopo i capitoli più “teorici” dedicati, rispettivamente, ai classici e Marx, ai marginalisti e a Keynes, il libro scivola verso i problemi della politica economica per arrivare a spiegare la crisi europea e, soprattutto, i misteri della politica monetaria (nella nuova edizione ho aggiornato l’esposizione e corretto qualche errore). Prevale naturalmente un pessimismo circa la riformabilità dell’Europa. Un pessimismo motivato, naturalmente, e con il quale non mi risulta che la sinistra abbia fatto i conti sino in fondo. (A mitigare il pessimismo, il libro cerca di essere anche divertente, e anche questo è stato apprezzato).

Lei vede quindi il pensiero e le teorie keynesiane più utili e applicabili di quelle marxiste, ad esempio riguardo la legge basata sul valore/lavoro che lei considera sbagliata?

Assolutamente no. Nel libro più che Keynes è centrale la teoria del sovrappiù che Marx riprende dagli economisti classici. La teoria del valore-lavoro è una particolare formulazione della teoria del sovrappiù che Ricardo e poi Marx adottarono per affrontare alcuni problemi analitici ben spiegati nel libro. Purtroppo entrambi si avvidero che tale soluzione non funzionava. Marx si indirizzò lungo un percorso che poi Sraffa, in grande misura autonomamente, portò a compimento. La teoria di Keynes è complementare a quella del sovrappiù. Essa va però liberata dai retaggi marginalisti, e anche qui l’opera di Sraffa-Garegnani ci è essenziale. Nella nuova edizione ne parlo con un po’ più di dettaglio.

In quanto a Keynes, è un personaggio che non è mai stato troppo popolare in Italia, tanto meno a sinistra. Il PCI non è mai stato né Keynesiano, né Sraffiano. Ma sul PCI e l’economia credo abbia detto già tutto Leonardo Paggi (I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi 1986, scritto con M. D’Angelillo). Lo considero una bibbia. Anche da una seria riflessione sugli errori economici del PCI si dovrebbe ripartire (errori che sono poi errori politici di fondo).

Concluderei con una domanda che le può risultare provocatoria, ma utile a capire una definita posizione che ha preso il suo collega Bagnai, addirittura nelle fila della Lega. Posizione che più sovranista non si può. Lei scrive che “la sinistra se l’è lasciato sfuggire”. A cosa è dovuto questo suo ‘j’accuse’ verso la sinistra radicale che già è in sofferenza di suo. Non le sembra un tantino ingenerosa questa sua affermazione?

La sinistra radicale è in crisi precisamente perché si lascia sfuggire economisti dello spessore di Alberto Bagnai. Non sembra che, peraltro, presti grande ascolto a voci ben ferme a sinistra come Antonella Stirati, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché o Sergio Cesaratto, si parva licet. Naturalmente la crisi della sinistra ha radici profondissime che io vedo nel fallimento del socialismo reale e nel conseguente scatenamento del capitalismo globale. Quest’ultimo ha comportato sia il decentramento del capitale in zone periferiche, ma anche l’incremento dei flussi migratori. Questi fenomeni hanno comportato un enorme allargamento dell’esercito industriale di riserva a livello globale che ha annichilito la forza contrattuale del movimento operaio. La socialdemocrazia, a sua volta, non ha saputo o voluto opporsi. Ripartire è drammaticamente difficile. Serve uno sforzo intellettuale formidabile. Non ne vedo segni, o ne vedo di opposti, come nel manifesto delle “sardine”. Ma tutti noi, economisti di sinistra, saremmo felicissimi di aprire un dialogo con questo movimento. Dalla mia esperienza universitaria ho però l’impressione che con i giovani cosmopoliti ed europeisti non ci sia grande dialogo, molto più facile aprirlo con giovani più semplici, che magari non han fatto mai politica e non sono andati in Erasmus, ma che scoprono un mondo ascoltando le mie lezioni o studiando le “Sei lezioni” (e mi ringraziano). Le “sardine” appaiono come una aspirante élite, come quest’ultima disturbata dal populismo, dalla rabbia del popolo vero a cui guardano con disprezzo e che lasciano così alla destra. Se non è così, la mia mail è pubblica.

Si può dedurre che ‘ci’ diventerà sovranista anche lei?

Cosa intende dire? Che essere per il proprio Paese è un valore di destra?

Fonte: Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.

Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia internazionale presso l’Università di Siena. E’ uno dei più noti economisti “eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica, pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù, Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. Ѐ uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul tema della crisi dell’eurozona.