Tre domande su Macron e la partenza di Assad

macron putinIntervista a Bruno Drewski

a cura di Grégoire Lalieu per Investig’action

Traduzione di Lorenzo Battisti per Marx21.it

Mentre il governo Hollande aveva fatto della partenza di Assad una priorità assoluta, Emmanuel Macron ha dichiarato che la destituzione del presidente siriano non è affatto una precondizione. Qualche giorno prima era la Germania che condannava le sanzioni americane contro la Russia. Storico, specialista del mondo slavo e professore all’INALCO, Bruno Drewski è uno degli esperti intervistati nel nostro ultimo libro, Le monde selon Trump?. Ci parla del cambio di rotta di Macron così come delle relazioni in mutamento tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Emmanuel Macron ha dichiarato che “la destituzione di Assad non è affatto una precondizione”. Un cambio di rotta importante per la Francia. Come lo spiega?

Penso che l’evoluzione della situazione in Siria imponga oggi alle autorità francesi di dare prova di realismo. A meno di non impegnarsi in una guerra totale a vantaggio degli stessi terroristi responsabili degli attentati in Francia, non possono più ignorare che l’esercito siriano sta vincendo la guerra.

Anche se Israele e gli Stati Uniti fanno di tutto per ritardare questo scenario. Senza una decisione del Pentagono, l’ipotesi di un impegno militare francese sembra escluso. Il cambio di governo in corso a Parigi fornisce quindi il pretesto necessario per cambiare tono sulla Siria.

La guerra contro la Siria e contro il suo governo sembra andare verso la sconfitta, quindi il governo Macron si prepara a accorrere in soccorso dei vincitori, o per la meno di tenerne conto. Allo stesso tempo cercherà senza dubbio di limitare e di ritardare il più possibile le possibilità di ripristino e di ricostruzione di questo paese “ribelle” all’ordine occidentale. La crisi recente tra le monarchie del Golfo e gli interessi di queste entità nell’economia francese hanno allo stesso modo spinto il governo Macron a dare prova di maggiore prudenza. L’avvenire dirà se questo cambiamento di tono proseguirà in direzione del realismo e di una reale riconciliazione franco-siriana.

Qualche giorno prima, la Germania criticava duramente le nuove sanzioni che Washington vuole imporre alla Russia. Assistiamo alla fine della luna di miele tra Europa e Stati Uniti?

Dall’inizio della crisi ucraina, la Germania è sempre stata divisa. Da una parte una frazione del suo padronato ha un interesse diretto a cooperare lungo l’asse Eurasia-Asia, quindi con Mosca. Dall’altra parte alcuni continuano a seguire la politica degli Stati Uniti, soprattutto a causa della penetrazione molto antica di importanti settori della burocrazia tedesca da parte degli agenti d’influenza d’oltre atlantico. La sinistra tende anch’essa verso una cooperazione con la Russia.

Con la crisi di regime in corso a Washington, i governi europei, in particolare la Germania, si sentono un po’ “orfani”, anche se mantengono dei contatti privilegiati con i circoli neocon (“interventisti liberali” secondo la nuova terminologia “clintoniana”). Questi circoli avevano agito in favore dell’elezione di Hillary Clinton. Mantengono un’influenza chiave nel loro paese.

Infine, da molto tempo, gli strateghi di Washington dubitano del potenziale d’autonomia della Germania e, dietro di essa, dell’Unione Europea. Per questo gli Stati Uniti hanno cercato di stabilire delle relazioni privilegiate con i paesi dell’ “Intermarium”. Termine degli anni 20-30 per definire l’istmo Baltico-Mar Nero. Questo territorio permette di separare la Germania dalla Russia attraverso un asse Polonia-Paesi Baltici-Ucraina. Potrebbe eventualmente essere allargato ad altri piccoli paesi vicini, secondo il vecchio modello del “cordone sanitario” che doveva circondare la Russia e separarla dall’Europa Occidentale.

Quale impatto potrebbero avere sugli Stati Uniti questi eventuali cambiamenti di alleanze? Trump si ritroverà isolato sulla scena internazionale?

Queste evoluzioni tendono evidentemente a indebolire la posizione già difficile di Trump a Washington. Con la crisi di potere in corso negli Stati Uniti, molti dirigenti europei fino ad adesso molto atlantici cominciano a capire che il grande fratello non è più quello che era stato in termini di potenza, di salute economica e di coesione interna. Questo minaccia la sicurezza delle istituzioni e delle élites europee che si sentivano finora protette dal gendarme della Nato. Poiché l’obiettivo di questa alleanza militare non era solamente di proteggersi dall’esterno, ma anche di garantire la stabilità delle istanze dirigenti europee e di rendere sicuri i movimenti di capitali interni.

Tutte queste nuove incertezze hanno in ogni caso sollevato un ondata di panico a Berlino, a Bruxelles, a Parigi e altrove. Abbastanza perché i paesi dell’Europa dell’ovest, dentro all’Ue o in maniera isolata come ha mostrato la Brexit, tendano di nuovo a diventare potenze più autonome? È ancora presto per dirlo. Ma il contesto è quello: la crisi del capitalismo mondializzato, la crisi di regime negli Stati Uniti, crisi dell’Unione Europea, fallimenti politici della Nato fuori dalla propria zona, e disaffezione massiccia dei cittadini verso i  regimi occidentali. Tutto questo potrebbe portare, almeno una parte delle élites dirigenti a prefigurare una ricomposizione della scena politica internazionale. Questo dipenderà in larga misura dalle capacità economiche degli uni o degli altri di spingere il destino in una direzione o nell’altra.

D’altra parte con la perdita del contrappeso comunista e il blocco crescente del sistema politico, mediatico e securitario, tanto a livello nazionale che sovranazionale, i popoli sembrano sempre più disillusi. Questo può portare evidentemente a una passività crescente, ma anche provocare mobilitazioni sempre più forti. Per esempio, poiché non ha raccolto che una piccola percentuale di approvazione da parte degli elettori, Macron ha manifestato una certa prudenza nei passi post elettorali. Questo testimonia senza dubbio un nervosismo in seno al regime attuale. E questo potrebbe spingere Parigi a prendere maggiore autonomia da Washington. Dei fenomeni simili possono prodursi in altri paesi dell’Unione Europea, poiché ovunque lo scontento è percepibile.

Non penso che le élites attuali dei diversi paesi europei siano d’altra parte già pronti a fare un salto nel vuoto. Poiché non sono certo lo spirito visionario, il coraggio politico e lo spirito del rischio che le caratterizzano. Ma dobbiamo ricordare che alla vigilia dello smantellamento del blocco sovietico, erano poche le élites della nomeklatura locale pronte a saltare nell’ignoto. Ciononostante, la disgregazione interna del sistema ha alla fine dato il via a un fenomeno generalizzato di “si salvi chi può” verso l’Ovest. Non si può quindi escludere oggi un ritorno del pendolo verso Est con la crisi generalizzata del sistema economico, sociale e politico. Tanto più che anche ad Est ormai c’è il capitalismo, anche se laggiù è più inquadrato dallo Stato.

È quindi possibile una rifondazione fondamentale dell’architettura internazionale. Non è detto che dia il via a un cambio di regime sociale, economico e politico. Per questo sarà necessaria una vera ricostruzione di movimenti alternativi e rivoluzionari. La discesa verso la disaggregazione del campo nord-atlantico sembra però, nonostante tutto, già partita. I paesi europei hanno tutto l’interesse a tenere in conto il fatto che il mondo è ormai multipolare, che il processo di riavvicinamento eurasiatico è iniziato e che sono le potenze eurasiatiche, in particolare la Russia, che stanno ricostruendo un equilibrio nei paesi del mondo arabo-musulmano saccheggiati dall’avventurismo degli Stati Uniti, di Israele e della Nato.

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