I padrini dell’ortodossia

di Luigi Cavallaro | da www.sinistrainrete.info

john maynard keynes 1Il mantra del pensiero economico dominante recita che il debito pubblico è il male assoluto. Consolatorio, ma non spiega nulla. Rivela semmai la difficoltà delle teorie neoclassiche a venire a capo della crisi del sistema capitalistico. Un percorso di lettura Da Bretton Woods alla libertà di movimento dei capitali. Le tappe più rilevanti che hanno segnato il passaggio dai «gloriosi trenta anni keynesiani» all’attuale crash finanziario.

Nell’attuale dibattito di politica economica, su una cosa si concorda tanto dalla maggioranza quanto dall’opposizione: il debito pubblico è un male assoluto. Da Monti a Grillo, passando per Bersani, Di Pietro e Vendola, non c’è praticamente nessuno che abbia da dissentire. Magari ci si divide su come ridurlo, ma sul fatto che il debito sia di per sé un problema gravissimo perfino la «sinistra d’alternativa» sembra essere d’accordo – quasi che si potesse considerarlo come la misura degli eccessi del nostro consumo ai danni di Madre Terra.

J. M. Keynes scrisse a conclusione della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936) che gli uomini pratici sono spesso schiavi di qualche economista defunto. Probabilmente la sua affermazione andrebbe rivista per tener conto del fatto che anche gli economisti hanno beneficiato dell’innalzamento della vita media prodotto dal welfare state, ma nel suo significato centrale tiene. La communis opinio sul debito pubblico come male assoluto discende infatti dai teoremi che costituiscono l’ossatura della teoria economica neoclassica, i cui postulati – a cominciare da quello della «scarsità» – governano a ben vedere anche quelle visioni asseritamente «alternative» che l’obiettivo della crescita si propongono invece deliberatamente di abbandonare.

Dominanti per default

Cosa dimostrino questi teoremi è presto detto: dati il progresso tecnico e la crescita della popolazione, e almeno fino al raggiungimento dell’equilibrio di crescita stazionaria, il tasso di crescita del reddito del sistema economico dipende da quello del capitale, che a sua volta dipende dal risparmio. Ne derivano ovviamente implicazioni negative circa le possibilità di intervento della politica governativa, perché l’unico scopo di quest’ultima diventa l’accrescimento del tasso di risparmio nazionale. È vero, l’evidenza empirica non è ancora riuscita a sciogliere il dubbio se siano il risparmio e gli investimenti a generare la crescita del reddito o sia invece quest’ultima a rendere parte del reddito disponibile al risparmio e all’investimento. Ma non è meno vero che la perdurante assenza di un paradigma idoneo a contenderle la scena (oltre che la drammatica mancanza di forze organizzate capaci di combattere contro l’assetto di interessi che essa tende a consolidare) rende la teoria neoclassica dominante per default: giusto come Windows, che si avvia immediatamente appena accendiamo il nostro pc.

Naturalmente, una situazione del genere favorisce l’insorgere di pregiudizi. Ad esempio, suggerendo la teoria che l’azione pubblica non può influire positivamente sulla crescita, ci si è interrogati sulla possibilità che possa danneggiarla. E siccome la fantasia degli economisti ortodossi non è certo minore di quella di tanti novelli costruttori di falansteri «dal basso», si sono elaborate al riguardo numerose risposte affermative, per giunta matematicamente molto eleganti.

Una delle più note muove dalla raffigurazione di due diagrammi relativi al mercato del lavoro: nel primo si mostra il settore in cui offrono i propri servizi individui «produttivi» che pagano le imposte, nell’altro il settore degli individui «sfigati» (per usare la pregnante espressione di un fortunato giovanotto, sottosegretario al Lavoro), che vivono di sussidi e trasferimenti pubblici. Questa coppia di diagrammi intende suggerire che vi sono costi da entrambi i lati del sistema di tassazione-trasferimenti: dal lato dei «produttivi» perché l’imposta innalza il costo a carico dei datori di lavoro e/o riduce il compenso dei lavoratori, disincentivando gli uni dall’assumere e gli altri dal produrre di più; dal lato degli «sfigati» perché il sussidio è di norma ancorato al (basso o nullo) reddito che essi percepiscono e dunque li disincentiva dall’offrire i loro servizi e/o dall’acquisire abilità che potrebbero suscitarne la domanda.

Sennonché, per quanto gli economisti ortodossi si siano ingegnati di offrire riscontri empirici circa l’ammontare di quella che, in termini di mancata crescita, sarebbe una «perdita secca», non disponiamo ancora di alcuna evidenza al riguardo: come ha scritto l’economista Peter H. Lindert, siamo ancora nel regno della «immaginazione, sia pur sorretta da capacità teoriche».

La spiegazione unificante

Non dissimile è la situazione per ciò che riguarda i presunti rapporti fra l’intervento pubblico e le crisi economiche. Gli economisti mainstream concedono senz’altro che le crisi hanno un tratto comune costituito dall’eccessiva accumulazione di debiti da parte di tutti gli attori del sistema economico (stato, imprese, lavoratori-consumatori) e ammettono pure che, ciò nonostante, l’indebitamento resta uno strumento fondamentale per il funzionamento stesso del sistema. Recentemente, però, sono giunti a ipotizzare che sia il debito pubblico il vero «problema unificante» delle crisi finanziarie, quanto meno di quelle degli ultimi otto secoli (!). E al netto della loro stupefacente capacità di mantenersi tanto più imperturbabili quanto più gli esiti delle loro «ricerche storiche» contraddicono il più elementare buon senso storiografico (una caratteristica ormai affinata in tre decenni di dominio della cliometria), bisogna riconoscere che anche qui l’evidenza empirica non aiuta, e semmai spinge in direzione opposta.

In effetti, è un dato incontrovertibile che la frequenza delle crisi bancarie e delle crisi valutarie – particolarmente elevata dall’inizio del XIX secolo, soprattutto nei paesi che di volta in volta hanno costituito i centri finanziari mondiali – ha subito un significativo decremento un po’ dovunque dopo la seconda guerra mondiale e fino ai primi anni Settanta del Novecento. E altrettanto incontrovertibile è il fatto che da allora in poi (più precisamente, dalla denuncia statunitense degli accordi di Bretton Woods) la quota dei paesi che hanno registrato difficoltà nel settore bancario ha ripreso ad accrescersi, fino a generalizzarsi con l’ultima crisi finanziaria esplosa nel 2008.

Tra l’uno e l’altro di questi due periodi di tempo se ne colloca un terzo, approssimativamente databile tra il 1945 e il 1975, che i francesi di orientamento progressista solevano chiamare «trenta gloriosi keynesiani» e gli economisti neoclassici preferiscono piuttosto denominare «età della repressione finanziaria». Fu un periodo in cui gli stati, limitando i movimenti di capitali verso l’estero, costringevano di fatto i residenti a depositare il loro denaro nelle banche e queste ultime ad acquistare titoli del debito pubblico, attraverso la gestione delle riserve obbligatorie. Poiché a ciò si accompagnava quasi ovunque un controllo politico sulla banca centrale, che consentiva ai pubblici poteri di intervenire nella determinazione del tasso di sconto, ne veniva che gli stati si indebitavano a tassi molto bassi e, di fatto, «tassavano» il capitale monetario, infliggendogli un rendimento minore di quanto avrebbe potuto spuntare in regime di «libertà finanziaria». La riprova è che, mentre nel periodo in questione i rendimenti dei debiti pubblici risultarono inferiori ai tassi di interesse di mercato, sia prima che dopo è accaduto (e accade) l’esatto contrario.

Ovviamente, nemmeno gli economisti ortodossi hanno potuto fare a meno di rilevare la chiara correlazione esistente tra la maggiore mobilità dei capitali che ha contraddistinto il periodo precedente e successivo al trentennio 1945-75 e l’aumentata incidenza delle crisi bancarie, né hanno potuto esimersi dall’ammettere che la (relativa) calma dei «trenta gloriosi» dipendesse dalla «repressione finanziaria» attuata dallo stato: già nel 1985, del resto, era apparso sul Journal of Development Economics un profetico articolo di Carlos Díaz-Alejandro, eloquentemente intitolato Goodbye Financial Repression, Hello Financial Crash. Ma se è vero che l’evidenza empirica suggerisce che l’aumento dei debiti pubblici è una conseguenza delle crisi e non certo la loro «causa» (basti pensare che nei tre anni successivi ad una crisi l’indebitamento dello stato fa registrare in media un balzo dell’86 per cento), come giustificare l’insistenza sul debito pubblico, al punto da considerarlo – come s’è visto – il «problema unificante» delle crisi?

In termini teorici, la risposta è semplice. Poiché i neoclassici sostengono che l’ammontare del risparmio nazionale è positivamente correlato al tasso d’interesse, quanto più la «repressione finanziaria» riesce a tenere quest’ultimo «artificiosamente» basso tanto più si riduce la crescita (potenziale) del sistema economico. Si tratterebbe insomma di una «perdita secca» del tutto analoga a quella ipotizzata a proposito del sistema di tassazione-trasferimenti, e la crisi finanziaria non farebbe altro che sanzionarla.

Sennonché, proprio come in quel caso, non abbiamo alcuna evidenza che il supposto legame tra risparmio e tasso d’interesse sia qualcosa di diverso da un prodotto dell’immaginazione, sorretta o meno che sia da capacità teoriche. Lo ha riconosciuto perfino l’attuale Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: «il principale risultato neoclassico – che il livello del risparmio dipende, per dato reddito, dall’andamento del tasso d’interesse – non ha trovato conferme di rilievo nelle verifiche di natura empirica, così come anticipato da Keynes». E allora, perché ostinarsi a non riconoscere quel che i dati suggeriscono a chiare lettere, che cioè la crescita del reddito appare positivamente correlata alla «repressione finanziaria», ossia a quella «signoria pubblica sul denaro» che costituisce l’esatto rovescio della costituzione monetaria degli ultimi quarant’anni?

Una risposta semplice ma non banale offrì Harry Dexter White, il negoziatore americano alla conferenza di Bretton Woods: il controllo dei movimenti di capitale varato allora significava «meno libertà per i proprietari di capitali liquidi», ossia «restrizione ai diritti di proprietà di quel cinque o dieci per cento di persone che hanno abbastanza ricchezza o reddito per investirne una parte all’estero». Una restrizione attuata non per capriccio o cattiveria, ma semplicemente perché la possibilità per i pubblici poteri di garantire – attraverso la gestione della domanda effettiva – una crescita del prodotto coerente con le potenzialità del sistema implicava anzitutto che le bilance dei pagamenti non fossero turbate dai movimenti repentini ed erratici che sono tipici degli investimenti finanziari. Diversamente, i cambi fissi si sarebbero trasformati in una camicia di forza per le prospettive di crescita delle nazioni, poiché non appena la bilancia dei pagamenti avesse registrato squilibri provocati da movimenti di capitali alla ricerca del massimo profitto a breve, il mantenimento del tasso di cambio avrebbe richiesto enormi dosi di «rigore fiscale» alla nazione in deficit: un rigore inutile e perfino dannoso, perché – oltre a tradursi in un ingigantimento del debito pubblico – avrebbe compromesso ogni strategia di politica industriale volta alle necessarie trasformazioni della struttura produttiva.

L’enigma del pasto gratis

Bisogna riconoscerlo: vista in quest’ottica, la costituzione economica europea varata a Maastricht e recentemente implementata con il Fiscal Compact sembra piuttosto riecheggiare un accorato e anonimo appello lanciato dalle colonne del New York Times il 1° luglio 1944, mentre prendevano avvio i lavori della conferenza di Bretton Woods: «Ogni nazione dovrà abbandonare l’idea fallace secondo cui avrebbe un vantaggio a vietare ai propri cittadini di esportare oro, capitale o credito». Non possiamo dirne qui. Quel che possiamo aggiungere è che, se è vero che non esiste alcuna correlazione inversa tra la crescita del reddito, da un lato, e la «repressione finanziaria», l’imposizione fiscale e una spesa pubblica non condizionata dall’obiettivo di remunerare a tassi di mercato il denaro preso a prestito, dall’altro, sorge «l’enigma di un pasto potenzialmente gratis», come lo ha definito Lindert: come mai i paesi con spesa sociale elevata registrano livelli altrettanto elevati di produttività del lavoro e per di più i lavoratori che vi abitano riescono a godere di più tempo libero all’anno, vanno in pensione prima e lavorano meno ore pro capite? Bisognerà tornarci.