Varsavia vuole diventare hub del gas per l’Europa dell’Est

pipeline canadadi Demostenes Floros, Analista geopolitico ed economico | da aboutenergy.com

English version

Ai blocchi di partenza il Baltic Pipe, la condotta che approvvigionerà la Polonia con il gas estratto in Norvegia, rompendo la dipendenza energetica dalla Russia. Varsavia deve però valutare le conseguenze geopolitiche di una scelta non del tutto conveniente dal punto di vista economico. Analisi mensile della geopolitica del petrolio e del gas naturale

A ottobre 2019, il mercato europeo del gas naturale è stato caratterizzato da due eventi particolarmente significativi.

Il 25 ottobre, l’Agenzia danese per l’Energia, Energistyrelsen, ha dato semaforo verde all’attraversamento del proprio territorio da parte del gasdotto Baltic Pipe, la condotta che approvvigionerà la Polonia con il gas estratto in Norvegia. Si stima che la Baltic pipe avrà una capacità di trasporto pari a circa 10 Gm3 di gas annui.

Il 30 ottobre, la medesima Agenzia ha concesso al gasdotto Nord Stream II il passaggio attraverso le proprie acque territoriali, esattamente come aveva fatto nel 2011 per il Nord Stream I. Entrambe le condotte possono trasportare fino a 55 Gm3 di gas all’anno.

Da un punto di vista politico, la tempistica di queste decisioni evidenzia il tentativo di de-escalation attualmente in corso tra la Federazione Russa, l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America dopo le forti tensioni scoppiate a partire dal 2014, sulla scia del colpo di Stato in Ucraina.

L’auspicio è che si possa giungere al superamento delle sanzioni.

Baltic Pipe: le ambizioni di Varsavia in fuga da Mosca

Da un punto di vista energetico invece, la Baltic Pipe potrebbe permettere alla Polonia di affrancarsi in maniera significativa dai circa 10 Gm3 di gas naturale annui che attualmente acquista dalla Federazione Russa, impegnando il paese per 8,78 Gm3 all’anno quando la Baltic Pipe diverrà operativa. La realizzazione del gasdotto avverrebbe entro l’ottobre 2022, proprio in coincidenza della scadenza del contratto che lega la compagnia di Stato polacca PGNiG con la russa Gazprom. Piotr Naimski, funzionario governativo polacco responsabile delle infrastrutture energetiche strategiche del Paese, ha detto: “Non stiamo diversificando le nostre forniture per continuare con la Russia. È una questione di sicurezza e il Baltic Pipe non fa parte dei negoziati con Gazprom. […]. Se volessimo prolungare il contratto Gazprom avremmo bisogno di iniziare i colloqui a dicembre 2019, ma a quel punto avremo la certezza che la condotta baltica sarà costruita quindi, siamo in una situazione confortevole. Allo stesso tempo, la Polonia è pronta per qualsiasi tipo di rischio sul versante dell’offerta nel periodo di transizione”.

Senza dubbio, gli Stati Uniti d’America hanno accolto positivamente, se non addirittura favorito, il probabile disimpegno di Varsavia da Mosca. Detto ciò, la dirigenza polacca, così come l’Unione europea, deve essere consapevole anche dei possibili rischi derivanti da tale scelta.

In primo luogo, tenuto conto che il paniere energetico 2018 della Polonia è stato coperto per il 16% dal gas naturale, di cui il 66% – pari a 13 Gm3 – è stato fornito dalla Federazione Russa, è verosimile ritenere che le forniture gasiere norvegesi saranno più costose rispetto a quelle russe.

In secondo luogo, Varsavia non nasconde la volontà di diventare hub gasiero dell’Europa dell’Est grazie alla rivendita – via tubo, o LNG (di per sé ancora più costoso) – di parte del gas importato dalla Baltic Pipe, ai paesi confinanti, Ucraina in primis. Che cosa accadrebbe se uno solo tra quest’ultimi decidesse di non acquistare più il gas norvegese? La Polonia si accollerebbe l’onere di prelevarlo o comunque di pagarlo? Varsavia è consapevole che il prolungamento del Turkish Stream – che bypasserà il territorio ucraino da sud – potrebbe direttamente coinvolgere l’Ungheria?

In terzo luogo, attraverso una serie di gasdotti sottomarini, la Norvegia rifornisce la Germania, il Regno Unito, la Francia e il Belgio. Tenuto conto che il paese sta attualmente estraendo pressoché al massimo delle proprie capacità, nel caso in cui la Baltic Pipe fosse effettivamente costruita, la Norvegia dovrà necessariamente ridurre gli approvvigionamenti ai paesi dell’Europa Nord occidentale in favore della Polonia. Dato l’ammontare inatteso del crollo dell’output di Groningen in Olanda, il rischio che tale ipotesi diventi realtà appare tutt’altro che inverosimile.

L’auspicio è che la Polonia valuti con estrema attenzione l’insieme delle conseguenze geopolitiche derivanti da una scelta economicamente meno conveniente, ma legittima da un punto di vista della diversificazione energetica.

Nord Stream II: Russia raddoppia con la rotta Baltica

Dopo lunghe negoziazioni dovute alla netta contrarietà degli USA alla realizzazione del Nord Stream II, il gasdotto che collegherà la Federazione Russa alla Germania attraversando i fondali del Mar Baltico, la Danimarca ha concesso alla Gazprom il transito delle proprie acque territoriali. Ciò permetterà alla Russia di raddoppiare la propria capacità di esportazione off-shore (in mare aperto) attraverso la rotta Baltica, portandola dagli attuali 55 Gm3 di gas naturale annui a 110 Gm3 all’anno.

Se la Danimarca non avesse concesso il permesso, la Gazprom avrebbe comunque ultimato il progetto, posando il gasdotto sui fondali delle acque internazionali. Ciò avrebbe comportato un allungamento del percorso di 35 km circa (e con esso, un incremento dei relativi costi). Per questo motivo, è fuori luogo ritenere che il semaforo verde concordato a Gazprom sia la ripicca danese allo screzio avuto con il Presidente USA, Donald Trump, in merito alla precedente richiesta – poi, negata – di acquisto della Groenlandia da parte degli Stati Uniti.

Giunto in territorio tedesco, EUGAL è il prolungamento on-shore (sulla terra ferma) del Nord Stream II fino al confine con la Repubblica Ceca. EUGAL è attualmente in costruzione. Sempre in territorio tedesco, OPAL è il principale prolungamento on-shore del gasdotto Nord Stream I, mentre NEL è il ramo che si estende verso l’Olanda.

Perché la Corte Europea ha limitato l’accesso russo all’OPAL

Al momento, OPAL non può essere utilizzato al massimo delle proprie capacità di trasporto, bensì al 50%, in virtù della decisione presa dalla Corte Europea di Giustizia a settembre 2019 su ricorso della compagnia di Stato polacca, PGNiG. Tale risoluzione ha un chiaro portato politico antirusso, ma non solo. Infatti, secondo Petr Wozniak, la diminuzione dell’utilizzo della capacità di trasporto di OPAL ha permesso alla Polonia di ricevere il gas – attraverso l’Ucraina – che inizialmente era invece destinato alla Germania. Se invece OPAL fosse stato utilizzato al 100%, come avveniva dal 2016 per decisione della Commissione Europea, il sud-est del paese sarebbe rimasto senza gas con gravi conseguenze per la popolazione ha precisato il capo della compagnia energetica nazionale polacca. Di converso, la scelta della Polonia è andata a detrimento della sicurezza energetica della Germania.

A ottobre 2019, durante il Russian Energy Week di San Pietroburgo, Vladimir Putin ha affermato che “noi firmeremo un contratto di transito con l’Ucraina nel rispetto della legislazione europea. Se l’Ucraina non riuscisse [ad adeguarsi alla legislazione dell’UE in campo energetico] – uno scenario plausibile nella misura in cui ci sono procedure politiche che i partner ucraini devono tutt’ora risolvere – siamo pronti ad estendere il contratto esistente per un po’ di tempo, ad esempio, per un anno”.

Questa importante dichiarazione avanzata dal presidente della Federazione Russa, apre a due considerazioni.

In primo luogo, il neo presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyj, ha di fronte a sé la possibilità di raccogliere il ramoscello d’ulivo portogli dall’omologo russo, piuttosto che ascoltare le sirene polacche del Baltic Pipe.

In secondo luogo, la costruzione del Baltic Pipe è nell’interesse dell’UE, così come lo è l’utilizzo al 100% dei gasdotti OPAL ed EUGAL. Se così non fosse, il rischio concreto è che i conflitti in seno agli Stati Membri dell’Unione si inaspriscano ancora di più, invece di diminuire.

Dopo la cancellazione del progetto South Stream – di cui l’Italia ha pagato il prezzo più alto, sia in termini geopolitici, sia economici – non se ne sente francamente il bisogno.

Ultimi dati e stime sull’oil & gas

Conformemente alle cifre fornite dall’Oil Market Report pubblicato dall’International Energy Agency (IEA) l’11 ottobre 2019, la domanda globale di petrolio è cresciuta a luglio e agosto, rispettivamente di 800.000 b/g e 1.400.000 b/g nei confronti degli stessi periodi dell’anno precedente.

A settembre, dopo gli attacchi agli impianti sauditi, la domanda globale è diminuita di 1.500.000 b/g per complessivi 99.300.000 b/g. La IEA ha ulteriormente ridotto le previsioni di crescita della domanda 2019 e 2020 di 100.000 b/g, rispettivamente a 1.000.000 e 1.200.000 b/g. Le scorte commerciali dell’OCSE sono invece cresciute di 20.800.000 barili ad agosto 2019 (mese su mese), per un totale di 2.974.000.000 barili, 43.100.000 barili al di sopra della media degli ultimi 5 anni.

Secondo le statistiche stilate dal Drilling Productivity Report divulgato dall’Energy Information Administration (EIA) il 15 ottobre 2019, la produzione di greggio non convenzionale USA è prevista aumentare di 58.000 b/g, per complessivi 8.971.000 b/g, a novembre 2019.

L’output di greggio statunitense, dopo il precedente picco di 9.627.000 b/g raggiunto ad aprile 2015, è decresciuto fino al minimo di 8.428.000 b/g toccato il 1° luglio 2016. Dopodiché, esso ha ripreso ad aumentare fino a record stimato di 12.600.000 b/g toccato il 4 ottobre 2019 e mantenuto per l’intero mese (stime settimanali).

Secondo le statistiche divulgate da Baker Hughes l’8 novembre 2019, le 817 trivelle attualmente attive negli Stati Uniti, di cui 684 (83,7%) sono petrolifere e 130 (15,9%), più 3 mista (0,4%), risultano essere 39 in meno rispetto a quelle rilevate il 11 ottobre 2019, il minimo dal 16 settembre 2017.

Secondo Reuters, Goldman Sachs ha tagliato le stime di crescita 2020 dello shale USA. Inoltre, la banca di investimento prevede che l’incremento del tight oil USA nell’anno in corso sarà di 700.000 b/g e non più di 1.000.000 b/g come precedentemente stimato.

Ad agosto 2019, le importazioni di greggio da parte degli USA sono aumentate di 9.000 b/g a 6.944.000 b/d. Quest’ultime erano state 6.935.000 b/g a luglio, 7.141.000 b/g a giugno, 7.158.000 b/g a maggio, 7.025.000 b/g ad aprile, 6.759.000 b/g a marzo 2019, 6.652.000 b/g 2019 a febbraio 2019 e 7.520.000 b/g gennaio 2019. Nel corso del 2019, la media dell’import di greggio statunitense è stata di 7.017.000 b/g, in diminuzione rispetto ai 7.757.000 b/g nel 2018 e ai 7.969.000 b/g nel 2017.

Secondo i dati forniti dall’Energy Information Administration il 2 ottobre, l’export di greggio USA è incrementato di 1.000.000 b/g nella prima metà del 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018, raggiungendo una media di 2.900.000 b/g. A giugno 2019, l’export di greggio degli Stati Uniti ha raggiunto la media mensilerecord di 3.200.000 b/g.

Il trend petrolifero e valutario

A ottobre 2019, il prezzo del barile è rimasto sostanzialmente costante. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto gli scambi a 59,5 $/b e gli ha chiusi a 60,21 $/b, mentre il greggio West Texas Intermediate ha aperto a 54,30 $/b per poi chiudere a 54,07$/b. Nel momento in cui scriviamo, (14 novembre), il Brent viene scambiato a 62,40 $/b, mentre il WTI a 56,89 $/b.

Il 3 ottobre, entrambi i benchmark (qualità di riferimento) hanno toccata il minimo mensile, venendo rispettivamente scambiati a 56,53 $/b e a 51,37 $/b a causa dell’incremento delle scorte USA di 3.100.000 barili per complessivi 422.000.000 barili registrato dalla U.S. Energy Information Administration.

Secondo il rapporto pubblicato da Global Platts il 14 ottobre, per la prima volta dall’aprile 2019, la Cina ha importato 10.080.000 b/g a settembre (+ 11% anno su anno). Nel corso dei primi 9 mesi del 2019, la media dell’import cinese è stata di 9.910.000 barili (+ 9,7% anno su anno). In aggiunta, le indiscrezioni sulla possibilità che l’OPEC+ possa rafforzare i tagli nel corso del prossimo incontro di dicembre 2019 al fine di controbilanciare la debole crescita della domanda, hanno sostenuto una leggera ripresa dei prezzi, verificatasi nella seconda metà del mese.

Il 22 ottobre, Le Yucheng, vice Ministro agli Affari Esteri di Cina, ha affermato che “sino a quando [Cina e USA] si rispetteranno, tutti i problemi potranno essere risolti. Nessun paese può prosperare senza lavorare insieme alle altre nazioni. Il mondo desidera che Cina e Stati Uniti mettano fine alla loro guerra commerciale […], piuttosto che intraprendere una nuova Guerra Fredda”.

In attesa che tale stallo geopolitico si sblocchi, il 25 ottobre 2019, le scorte commerciali USA hanno raggiunto i 438.853.000 barili.