Stiglitz – Come si esce dall’euro

oped eurozone382x222 1160x633di Joseph Stiglitz, 26 giugno 2018
da vocidallestero.it

Uno stimolante articolo del Premio Nobel Joseph Stiglitz che sfata, o prova a sfatare, il mito dell’intangibilità dell’euro.

Qual è il modo migliore per uscire dall’euro? La domanda torna sul tavolo dopo la nascita del governo euroscettico in Italia. Sì, è vero che i principali ministri si sono impegnati a mantenere il paese nel blocco europeo della moneta unica, ma questi impegni non devono essere visti come immutabili. Devono essere considerati nel contesto più ampio della posizione contrattuale italiana. Il nuovo governo vuole chiarire che non è lì per far saltare tutto per aria. Preferirebbe restare nell’eurozona, ma vuole anche il cambiamento.

I nuovi leader italiani hanno ragione nel ritenere che l’eurozona abbia assolutamente bisogno di una riforma. L’euro è stato difettoso fin dalla sua origine. Per paesi come l’Italia, l’euro ha tolto due meccanismi fondamentali di aggiustamento: il controllo sui tassi di interesse e il tasso di cambio. E al posto di sostituire questi meccanismi con qualcos’altro, l’euro ha introdotto rigidi parametri sul debito e sul deficit, cioè ulteriori impedimenti alla ripresa economica.

Il risultato per l’intera eurozona è stato quello di una minore crescita, soprattutto per i paesi più deboli. L’euro avrebbe dovuto, nelle intenzioni, portare grande prosperità, e questo avrebbe dovuto rinnovare gli impegni verso l’integrazione europea. In realtà ha fatto proprio l’opposto. Ha aumentato le fratture all’interno dell’Unione europea, soprattutto tra creditori e debitori.

Le spaccature che ne sono risultate hanno reso più difficile risolvere anche gli altri problemi, e in particolare la crisi dell’immigrazione, sulla quale le regole europee impongono un peso eccessivo ai paesi di frontiera che ricevono i migranti, come la Grecia e l’Italia. Oltretutto questi sono due paesi con problemi di debito, già piegati dalle difficoltà economiche. Non sorprende vedere una ribellione.

Le resistenze tedesche

Cosa si debba fare è ben chiaro. Il problema è la riluttanza tedesca nel farlo.

L’eurozona ha riconosciuto già da molto tempo la necessità di un’unione bancaria. Ma Berlino insiste nel posticipare la riforma chiave che servirebbe per questo – quella di una garanzia comune sui depositi – che ridurrebbe le fughe di capitali dai paesi più deboli: la fuga di capitali è un fattore chiave nello spiegare la profondità della recessione nei paesi in crisi.

Le politiche economiche adottate dalla Germania al proprio interno aggravano i problemi dell’eurozona. La sfida economica principale dei paesi in un’unione monetaria è la loro impossibilità di aggiustare il tasso di cambio quando questo è disallineato. In eurozona, il peso dell’aggiustamento viene oggi imposto ai paesi debitori, che già stanno soffrendo di bassa crescita e bassi redditi. Se la Germania adottasse una politica fiscale e dei redditi più espansiva, alcune delle pressioni sui paesi debitori sparirebbero.

Se la Germania non vuole intraprendere i passi fondamentali per migliorare l’unione monetaria, potrebbe adottare la seconda miglior scelta, quella di uscire dall’eurozona. Come ha detto George Soros, la Germania deve guidare la situazione oppure deve uscire. Con la Germania (ed eventualmente altri paesi dell’Europa del nord) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro scenderebbe, facendo aumentare le esportazioni dell’Italia e degli altri paesi dell’Europa del sud. La maggiore fonte di disallineamento scomparirebbe. Al tempo stesso l’aumento del tasso di cambio della Germania darebbe un grosso contributo a correggere uno dei principali fattori destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale tedesco.

Perché uscire

Il problema, ovviamente, è che la Germania si ostina a rifiutare di intraprendere qualsiasi dei due percorsi. Questo lascia i cittadini di paesi come la Grecia e l’Italia con una scelta che non vorrebbero dover prendere, quella tra l’appartenenza all’eurozona e la prosperità economica.

Un timido e inesperto governo greco ha scelto di restare nell’unione monetaria. Il risultato è stato quello della stagnazione. Nel 2015 il PIL greco era già crollato del 25 percento rispetto al picco pre-crisi. Da allora non si è praticamente mosso.

L’Italia ha ora l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di un’uscita dell’Italia dall’euro sarebbero evidenti e notevoli.

Un tasso di cambio più basso permetterebbe all’Italia di esportare di più. I consumatori cambierebbero i prodotti di importazione con prodotti made-in-Italy. I turisti troverebbero il paese più conveniente come destinazione. Tutto questo stimolerebbe la domanda e aumenterebbe il gettito fiscale di cui il governo può disporre. La crescita aumenterebbe, i livelli di disoccupazione dell’Italia (all’11,2 percento, con il 33,1 percento di disoccupazione giovanile) scenderebbero.

Ci sono, certo, anche altre ragioni dietro le difficoltà economiche italiane, e queste sarebbero solo parzialmente risolte da un’uscita dall’euro. Governi come quelli del presidente USA Donald Trump, o dell’ex Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi – che non hanno alcuna comprensione delle vere basi di una crescita sostenibile nel lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile.

Al tempo stesso, però, la crescita fiacca e la disuguaglianza che l’Italia ha avuto come risultato dell’appartenenza all’euro porta quasi inevitabilmente terreno fertile a tali populisti.

Ci sarebbero anche altri benefici politici. Una Italia più prospera potrebbe più facilmente cooperare in aree chiave nelle quali l’Europa ha bisogno di un lavoro coordinato: l’immigrazione, le forze di difesa europee, le sanzioni alla Russia, le politiche commerciali.

Le politiche sul commercio e sull’immigrazione portano benefici all’intero paese, ma ci sono anche quelli che possono perderci, e i vincoli fiscali dell’eurozona hanno reso praticamente impossibile fornire a questi ultimi tutele adeguate. Un’Italia fuori dall’eurozona potrebbe meglio beneficiare delle proprie politiche internazionali, e al tempo stesso ridurre le sofferenze che queste potrebbero portare come effetto collaterale.

Come farlo

La sfida, naturalmente, è quale sia il modo migliore per uscire dall’eurozona minimizzando i costi economici e politici. Un’ampia ristrutturazione del debito, condotta con speciale attenzione alle conseguenze che avrebbe per le istituzioni finanziarie interne, sarebbe essenziale. Senza una tale ristrutturazione, il peso del debito denominato in euro salirebbe, annullando forse una gran parte dei potenziali vantaggi.

Queste ristrutturazioni del debito sono una parte normale delle ampie svalutazioni. Talvolta vengono fatte tranquillamente e silenziosamente, come quando gli USA sono usciti dal gold standard. Talvolta invece sono fatte più apertamente, come nei casi di Islanda e Argentina, tra gli strepiti dei creditori. Tuttavia queste ristrutturazioni del debito vanno viste come un rischio intrinseco nel momento in cui si decide di investire all’estero, e sono una delle ragioni per le quali i titoli “stranieri” di solito fruttano un premio di rischio.

Da un punto di vista economico la cosa più semplice sarebbe che le entità italiane (governo, imprese e singoli individui) ridenominassero semplicemente il debito da euro a nuova lira. Ma a causa delle complessità legali all’interno della UE, e a causa dei vincoli internazionali dell’Italia, potrebbe essere preferibile attuare una super amministrazione controllata, ricorrendo alla ristrutturazione del debito per qualsiasi entità per la quale la nuova moneta presenti seri problemi economici. La legge fallimentare rimane un’area a totale discrezione di ciascuno dei singoli paesi membri della UE.

L’Italia potrebbe perfino decidere di non annunciare la propria uscita dall’euro. Potrebbe semplicemente emettere dei titoli (diciamo equiparabili a titoli del debito pubblico) accettati come mezzo di pagamento per qualsiasi obbligazione denominata in euro. Una diminuzione del valore di questi titoli equivarrebbe a una svalutazione. Questo ripristinerebbe al tempo stesso la possibilità di una politica monetaria in Italia: i cambi di politica della banca centrale influenzerebbero il valore dei titoli.

Urla e proteste

Certo, ci sarebbero urla e proteste da parte di altri paesi dell’eurozona. L’introduzione di una moneta parallela, anche in modo informale, violerebbe quasi sicuramente le regole dell’eurozona e sarebbe certamente contro il suo spirito. Ma in questo modo l’Italia potrebbe lasciare agli altri paesi la scelta di una eventuale espulsione dall’eurozona.

Roma potrebbe approfittare della situazione dato che i litigiosi membri dell’unione monetaria potrebbero anche non intraprendere mai una tale azione forte, azione che confermerebbe palesemente che l’eurozona è compromessa. A quel punto l’Italia avrebbe vinto tutto. Resterebbe dentro l’eurozona e al tempo stesso avrebbe fatto una svalutazione.

E se anche l’Italia dovesse perdere questa scommessa, il peso politico della sua uscita dall’eurozona ricadrebbe chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro, infatti, a dover fare l’ultimo passo.

La Grecia si è arresa e si è lasciata strangolare dalla Banca Centrale Europea. Ma non era costretta a farlo. Atene era già avanti nella creazione dell’infrastruttura (un meccanismo di pagamenti elettronici in una nuova dracma) che avrebbe facilitato la transizione verso l’uscita dall’eurozona.

Gli avanzamenti tecnologici nel corso degli ultimi tre anni hanno reso molto più semplici ed efficaci i sistemi di creazione di moneta elettronica. Se l’Italia decidesse di usare uno di questi, non dovrebbe nemmeno preoccuparsi delle difficoltà legate alla stampa di nuova moneta cartacea.

L’Italia potrebbe anche attenuare alcuni dei problemi dell’uscita se si coordinasse, in una tale mossa, con altri paesi che si trovano nella sua stessa posizione.

L’ampio ed eterogeneo gruppo di paesi che compone ora l’eurozona è ben diverso da ciò che gli economisti definiscono area valutaria ottimale. C’è troppa diversità, troppe differenze, per farla funzionare senza quel miglioramento istituzionale sul quale la Germania ha già messo il veto.

L’eurozona del sud da sola sarebbe molto più simile ad un’area valutaria ottimale. E se può essere difficile coordinare l’uscita di molti paesi in poco tempo, dopo una eventuale ed efficace uscita dell’Italia dall’euro, quasi certamente altri paesi la seguirebbero.

Costi e benefici

A dire il vero non si devono nemmeno sottostimare i costi di un’ampia svalutazione. Qualsiasi grosso cambiamento in una variabile fondamentale dell’economia implica una forte perturbazione.

Il prezzo della valuta è, ovviamente, cruciale in un’economia aperta. Ha degli effetti a catena sui prezzi di tutti gli altri beni e servizi. Alcune, forse molte, aziende andranno in bancarotta. Alcuni, forse molti, individui vedranno diminuire i propri redditi reali.

Ma è altrettanto importante non sottostimare i costi dell’attuale situazione italiana. Se l’Italia fosse cresciuta come il resto dell’eurozona negli ultimi 20 anni, cioè da quando l’euro è stato creato, oggi il suo PIL sarebbe del 18 percento più alto.

Il costo della disoccupazione a lungo termine, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero accrescere la propria professionalità lavorando. E invece se ne restano a casa a non far nulla, e molti nutrono risentimenti verso quelle élite e istituzioni alle quali attribuiscono la propria condizione. Ciò che ne risulta è una mancanza di formazione di nuovo capitale umano, e questo pesa negativamente sulla produttività per gli anni a venire.

In un mondo ideale l’Italia non dovrebbe essere costretta a uscire dall’eurozona. L’Europa potrebbe invece riformare l’unione monetaria e fornire una protezione migliore per quelli che sono negativamente colpiti dalle disposizioni sul commercio e sull’immigrazione.

Ma in assenza di un cambio di direzione della UE nel suo insieme, l’Italia deve ricordarsi che esiste un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi di uscire dall’eurozona tali che i benefici superano molto probabilmente i costi.

Se il nuovo governo italiano sarà in grado di gestire una tale uscita, l’Italia starà meglio. E starà meglio anche il resto d’Europa.