Etica e i valori dell’urbanistica

di Luca Servodio | da http://pdciavellino.blogspot.it

paesaggioLa città contemporanea mostra in maniera crescente la decadenza dello spazio pubblico, in termini d’isolamento sociale e degrado fisico, soprattutto nelle aree periferiche delle grandi e medie aree metropolitane. La crescita dell’individualismo nella vita quotidiana, ha contribuito a sfibrare i legami collettivi e a ridurre le occasioni di scambio sociale. Questa lettura, consente di affermare che gli uomini, fugano dalla realtà e vanno a nascondersi nei nuovi spazi della città commerciale (centri commerciali, aree di divertimento, ecc), come luoghi più sicuri. 

La vecchia centralità urbana, che si costruiva lungo le strade, le piazze, nei parchi è stata sostituita dai processi economici, ha introdotto una nuova visione di città e di luoghi di aggregazione, legata a investimenti delle multinazionali e alla logica del consumismo.

Pone, quindi, un interrogativo a livelli politico e anche al mondo urbanistico: questa nuova visone o centralità è un’occasione di sviluppo? La risposta, dal mio modesto punto di vista, è no. Questa centralità, accresce la disuguaglianza di accesso, l’esclusione sociale e produce nei luoghi della democrazia reale e dell’incontro (piazze, giardini) la desertificazione e la crescita dell’insicurezza.

Nell’esaminare il termine tedesco “bauen”, Heidegger M. (filosofo) risale all’originario “buan”, che vuol dire “abitare”. La remota parola “bauen”, cui si ricollega il “bin”, risponde: “ich bin, du bist”; vuol dire: io abito, tu abiti (Cft. M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Milano Mursia 1976, pag. 96).

Come spiega il Prof. Arch. Paolo Portoghesi: <<dentro la mescolanza etimologica della parola “bauen”, Heidegger scopre, insieme al significato di elevare e produrre, quello di coltivare, e afferma che “il costruire come abitare, si posiziona nel costruire che coltiva, e coltiva ciò che cresce; e nel costruire che edifica costruzioni”. Tra il costruire che coltiva e il costruire che edifica c’è quindi una stretta parentela perché, in entrambi i casi, la terra è convertita. Agricoltura e architettura sono due momenti dell’abitare che trovano nel paesaggio la loro connessione, momenti collettivi di un processo d’umanizzazione in cui si pratica “l’aver cura”. L’agricoltura ha la conferma dai suoi frutti che la terra produce, l’operare dell’architetto, la conferma avviene dall’armonia che si realizza tra il sorgere e l’aver cura, tra il sorgere e il crescere, dove il sorgere è anche, come Heidegger spiega in Origine dell’opera d’arte, un rivelare, un “rendere visibile, l’invisibile>>.

Da quando l’uomo ha smesso di abitare la natura e ha cominciato a modificarla, sforzandosi di piegarla e modellarla a propria immagine e somiglianza, l’essere umano, al tempo stesso creatore e distruttore, sogna luoghi che gli sfuggono di mano, costruisce nel presente senza mai riuscire a cogliere pienamente la prospettiva del futuro.

La città è diventata banco di prova per la sostenibilità: solo se sarà possibile costruire città sostenibili, daremo speranza a quella metà della popolazione mondiale che è diventata urbana, legando d’assedio i nuclei storici con il disordinato di nuove costruzioni, che nelle aree povere del pianeta divengono invivibili con nuovi agglomerati di fango e lamiere.

Oggi è possibile costruire abitazioni, quartieri e intere città che guardano all’ambiente non come a uno spazio effimero cui sostituirsi, ma come luogo che esige rispetto e nel quale è necessario integrarsi.

Pensare all’ambiente e agli individui che lo abitano come a un insieme armonico e integrato, non dovrà più essere un’utopia, e nemmeno una moda, una tendenza, lo sguardo illuminato di pochi.

Nel corso degli ultimi anni molte cause hanno contribuito a cambiare il nostro ambiente-territorio, originato da molteplici fattori: urbanizzazione incontrollata, aumento delle emissioni provenienti dai flussi di traffico e dalla produzione industriale, l’utilizzo di pesticidi nella produzione ortofrutticola.

Il tema affrontato nella dodicesima conferenza della SIU (Società Italiana Urbanisti) è stato: “Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio”, provando a esplorare quali sono le potenzialità che la nozione paesaggio è in grado di dare all’urbanistica, quindi, cosa si ricava a parlare di paesaggio, quando si lavora con la città e con il territorio. Numerose ricerche e ambiti d’interesse che camminano su campi disciplinari lontani, la città e il territorio da una parte e il giardino dall’altra, si trovano oggi assimilati a condividere le stesse trazioni progettuali, tali da fondare modelli comuni.

L’urbanistica e i piani oggi, oltre ad interessarsi della visione paesaggistica, non più solo dal punto di vista della pianificazione delle aree protette e dei beni paesaggistici tutelati, tentano di realizzare elementi collettivi per garantire qualità di vita, attraverso spazi aperti e tipi abitativi che rispettano i nodi della sostenibilità e della riproduzione delle risorse e delle fasi ecologiche.

La capacità di produrre “qualità paesaggistica” non si supera solo attraverso la redazione del progetto degli spazi aperti, ma anche nel governare tutto il processo fino all’attuazione.

Il territorio edificato e il luogo degli spazi aperti, verdi, rurali, sono sullo stesso piano d’interesse, perché ogni volta che la città si espande, realizzando nuovi quartieri, si tratta d’occupazione e trasformazione della campagna messa a coltura, che ha una storia, un’identità, un paesaggio e delle potenzialità che nella maggioranza dei casi sono ignorate, rendendo molto difficile la “ridefinizione” dei confini tra città e campagna, con tutte le questioni che ciò comporta.

Gli esiti disastrosi dell’urbanistica negoziata pongono anche la questione etica della responsabilità, quanto la capacità di assumere scelte dettate non dalla pura necessità casuale, ma dalla preoccupazione e dalla cura delle conseguenze sull’oggi e sulle generazioni future.

L’intervento di pianificazione pubblica del territorio intreccia la sua azione con ciò che è equo, onesto, legale, desiderabile, in un indicato tempo e luogo per una determinata collettività.

Ogni atto di pianificazione, infatti, ha o deve avere come base, un criterio etico, ossia una scelta di valore pertinente al modo in cui rendere attuabili certe opere sul territorio.

Il nerbo principale delle città rimane il rapporto col proprio territorio, con le sue caratteristiche geografiche, morfologiche e agricole. Il legame città-territorio è stato indivisibile fino alla prima rivoluzione industriale.

Ogni città, svolgeva una relazione col proprio territorio ricavando cibo e materie prime, restituendo in cambio prodotti finiti e servizi.

L’inizio della crescita industriale, ha modificato la vita delle città, mietendo il legame col proprio ambiente territoriale, rapportandosi solo con le altre città.

Tale relazione ha prodotto, il vuoto delle zone industriali, delle periferie, delle autostrade e dell’agricoltura intensiva.

Quest’analisi consente di avere un approccio rispetto al problema. Per verificare la sostenibilità di un sistema urbano, il primo passo è di esaminare il sistema urbano non escludendo il riferimento alla parte urbanizzata, ma tornare anche al nesso indivisibile col territorio.

Appurare, quindi, la sostenibilità di un sistema territoriale più vasto e più complesso, di cui quello urbanizzato è solo una parte.

Lo sviluppo sostenibile si basa su aspetti economici, sociali e ambientali, e su obiettivi di etica intergenerazionale, legati all’assunzione di responsabilità della società attuale nei confronti delle generazioni future, verso le quali s’impegnano.

Sviluppo non racchiude per forza crescita economica, ma cambiamento e miglioramento delle capacità di appagare i bisogni umani, materiali e immateriali.

Ai limiti geografici si contrappongono quelli “morali” che finora non hanno rivolto particolare attenzione verso quegli organismi non umani e verso la natura, ora cominciano ad aprirsi e cedere posto a una chiara assunzione di responsabilità etica nei confronti del mondo vivente.

L’architetto Luigi Snozzi, affrontando il tema dell’etica in architettura, ha detto: “quando un architetto costruisce una casa su un prato, il primo atto che fa è quello di distruggere i primi 30 – 40 cm di terra, l’humus, per posare le fondazioni. Questa porzione di terra è la più feconda della crosta terrestre, da essa l’uomo ricava gran parte dei suoi alimenti. Il problema non sta quindi nel fatto della sua distruzione, ma nel fatto di prendere coscienza di questo atto: qui sta il problema etico. Quindi se un architetto non è in grado di supplire al bene annientato con un bene altrettanto importante, come l’architettura, è meglio che deponga la matita. L’etica, quindi, interviene in ogni decisione di progetto, in quanto in ogni progetto l’architetto è costretto a rapportarsi con il luogo d’intervento, sia esso città, campagna o natura”.