Il Partito Comunista Cinese verso il congresso tra innovazioni e continuità nel processo di riforma

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

pcc bandiera pugniSe pensiamo allo spazio dedicato alla Cina nella campagna presidenziale negli Stati Uniti, possiamo a ragione ritenere che il prossimo congresso del Partito comunista cinese – in programma dall’8 novembre prossimo – sarà l’evento politico più importante dell’anno. Se fino ai primi anni di questo secolo la sua eco era sostanzialmente limitata – eccezione fatta per addetti ai lavori e sinologi – ai confini dell’ex Celeste Impero, d’ora in poi le decisioni prese tra le mura di Zhongnanhai avranno forti ripercussioni sul panorama internazionale. Non dobbiamo, infatti, scordare che a riunirsi è il più grande partito comunista al mondo – forte di oltre 80 milioni di selezionatissimi iscritti – che ha portato la Cina, in soli settanta anni, da Paese umiliato e sull’orlo della morte per inedia a seconda potenza economica e politica del mondo.

Fatta questa breve premessa, proviamo ad analizzare una delle prospettive in campo che riguardano proprio il futuro sviluppo del partito sorto a Shanghai nel lontano luglio del 1921, andando oltre la dicotomia, fin troppo semplicistica e tutta occidentale, che vorrebbe tracciare una netta divisione tra riformisti e conservatori, quasi che a Pechino ci si trovasse di fronte ad un bipolarismo in salsa gialla.

A far discutere è la possibile trasformazione del Partito di Mao e Deng da “partito rivoluzionario” a partito compiutamente “di governo”. Ipotesi, questa, lanciata da Xi Jinping – con ogni probabilità il futuro segretario del partito e Presidente della Repubblica – nel settembre del 2008 durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico della Scuola centrale del Partito, istituzione all’avanguardia per quanto riguarda l’attenzione riservata al mondo culturale e scientifico internazionale. La sviluppo in partito di governo si inserirebbe – nel suo pensiero – nella prospettiva di garantire la sua capacità di governo nel lungo periodo. L’imperativo – per le dinastie imperiali si parlava di “mandato celeste” – di fronte alle contraddizioni partorite dal rapido sviluppo economico cinese è, quindi, quello di evitare la fine ingloriosa delle dinastie – anche di quelle più celebrate – condannate alla rovina da gigantesche rivolte popolari (unite, nel caso dei Qing, all’aggressione straniera).

In discussione, sebbene sia assai condivisa la necessità di proseguire sulla via della liberalizzazione politica e della costruzione di un moderno stato di diritto, non c’è il ruolo di guida del Partito comunista e la sua autorità. La prospettiva più plausibile, a nostro modesto parere, è quella di un approfondimento della collaborazione multipartitica – quindi delle diverse classi sociali rappresentate – con gli altri partiti e movimenti patriottici, nella riedizione di un nuovo Fronte unito.

Diversi studiosi e accademici cinesi si sono confrontati, sulla stampa ufficiale, su questa possibile evoluzione. Per Xu Yaotong, professore alla Scuola nazionale di amministrazione, il partito comunista deve rinunciare ad essere il rappresentate di una sola parte della popolazione così da privilegiare l’impegno per il mantenimento di un equilibrato ordine sociale. Fangbin Gong, professore all’Università dell’Esercito di liberazione popolare, ha tratteggiato la traiettoria di un partito che ha il compito di governare cercando equilibrio e compromesso, abbandonando ogni logica estrema di lotta di classe per “soddisfare gli interessi di tutti gli strati e i gruppi sociali”. Gong si spinge fino a vedere nella leadership di Xi Jinping il terzo passo storico nello sviluppo ideologico del PCC – una aggiunta alla “teoria del nucleo” che identifica una dirigenza collettiva nella storia del partito – dopo quelli compiuti da Mao e Deng: una nuova prospettiva politica libera dalla mentalità rivoluzionaria e dai suoi eccessi.

Un documento prodotto recentemente dal Politburo del PCC, oltre a proporre una serie di riforme interne da discutere nel Comitato centrale in vista del congresso e di una revisione della Costituzione, fa esplicito riferimento al “socialismo con caratteri cinesi di Deng Xiaoping”, citando Hu Jintao e il marxismo, ma ignorando il consueto riferimento al pensiero di Mao Zedong. Nel comunicato diffuso dall’agenzia Xinhua si legge, infatti, l’invito rivolto ai membri del partito ad “essere guidati dalla teoria di Deng Xiaoping e dai pensieri importanti delle Tre Rappresentanze” e a portare avanti la prospettiva dello sviluppo scientifico (1). Pochi giorni prima, tuttavia, a segnalare la presenza di una dialettica interna, circa trecento intellettuali ed ex esponenti del partito – identificabili come appartenenti alla cosiddetta “Nuova Sinistra” – hanno firmato una lettera aperta nella quale si chiede all’Assemblea Nazionale del Popolo di non sospendere Bo Xilai, ex leader di Chongqing e astro nascente del cosiddetto neo-maoismo, in modo da non avallare “attacchi personali tra fazioni”.

Per quanto questi propositi possano aprire futuri scenari, questi sì “rivoluzionari”, occorre sottolineare come siano tutt’altro che novità, inserendosi pienamente nelle linee di sviluppo tracciate da Jiang Zemin e Hu Jintao. Proprio il primo nel luglio del 2001, in occasione dell’ottantesimo anniversario della fondazione del PCC, aveva ufficializzato la “Teoria della tre rappresentanze” in base alla quale, di fronte alla prorompente comparsa di nuove forze sociali, il partito avrebbe dovuto “rappresentare le forze d’avanguardia della produzione, la cultura più avanzata e i più ampi interessi delle masse, incoraggiando la partecipazione popolare a partire da tutti i livelli della società per trasformare la Cina in un moderno paese socialista” (2). Constatato che in Cina non vi era in sostanza una classe borghese antagonista, il Partito si presentava ora come forza nazionale capace di rappresentare tutte le forze sociali del Paese. Lasciata alle spalle la centralità della lotta di classe, il suo ruolo di avanguardia sarebbe stato determinato dagli obiettivi di lotta e dai suoi valori più che dalla provenienza sociale dei suoi membri. È qui che possiamo trovare le radici dell’assunzione da parte del PCC del ruolo di compiuto partito di governo.

Questo concetto è stato ribadito anche dal discorso di Hu Jintao del luglio del 2011 in occasione del novantesimo anniversario del partito, rendendo chiaro come quest’ultimo fosse ormai avanguardia dell’intero Paese e si trovasse impegnato nella costruzione, di fronte alle evidenti contraddizioni e problematiche sociali, di una società coesa e armoniosa (3). Lo stesso Xi Jinping, nell’attuale veste di vice-presidente della Repubblica, aveva sottolineato, in un discorso alla Scuola del partito della fine del 2009, che il Pcc “per restare avanguardia della classe operaia di tutto il popolo” ha il dovere di essere sempre “il rappresentante dell’esigenza di sviluppo delle forze produttive più avanzate” (4).

Difficile che il prossimo congresso possa sancire nell’immediato grandi rotture ma agirà nel solco di un progetto già chiaro: la sfida principale del PCC, come partito di governo, è quella della garanzia della coesione sociale – la “società armoniosa” e dello “sviluppo scientifico” delineata dall’attuale dirigenza – nell’ambito dello sviluppo economico e politico del socialismo cinese. Probabilmente – containment e provocazioni Usa permettendo – vedremo una Cina più impegnata a risolvere spinosi problemi sociali che a proiettare con decisione la sua forza all’esterno.

NOTE

1 “China Focus: CPC to amend Party Constitution at 18th National Congress”, Xinhua, 22 ottobre 2012

2 Il discorso, tradotto in lingua inglese, è ancora visibile sul sito China Daily

3 Discorso tradotto in inglese e pubblicato su China Daily

4 Discorso pubblicato in italiano da Limes, n.1/2010.