La questione Tibet e i trucchi di Washington

tibet monacidi Maria Morigi

Puntualmente, ad ogni cambio di presidenza USA si ripresentano al pubblico le questioni del “Tibet libero” e delle “minoranze oppresse in Cina”, ingigantite e manipolate dai media occidentali e da organizzazioni per i diritti umani a fine di propaganda anti-cinese. Peraltro, chi scrive di questioni identitarie, repressioni e politica “coloniale” della RPC in Tibet dimostra di possedere non solo scarsissime informazioni di storia e geopolitica, ma anche una preoccupante ignoranza sulle peculiarità del buddhismo tibetano e sulle pratiche religiose che lo hanno caratterizzato nei secoli e sono oggi patrimonio tutelato.


Leader spirituale del buddismo tibetano con sentimenti anti-cinesi, il Dalai Lama è ben noto in Occidente. Diversi ex presidenti degli Stati Uniti, tra cui George W. Bush e Barack Obama, hanno incontrato il Dalai Lama alla Casa Bianca. Ma gli incontri erano di basso profilo per evitare di irritare la Cina e per mostrare una sorta di moderazione sulla questione tibetana. Al contrario il presidente Trump non ha incontrato il Dalai Lama, facendo immaginare uno scenario di rottura con il “governo tibetano in esilio”. Joe Biden dal canto suo promette di incontrare il Dalai Lama: forse un segno di discontinuità rispetto a Trump. 

Nel frattempo le ONG per i diritti umani legate all’ONU continuano ad essere molto attive a gettar fango sulle politiche dell’Autonomia in Tibet, così come sulla questione degli Uiguri e su Hong Kong, senza tenere conto che tali questioni riguardano la sovranità e l’integrità territoriale della Cina. Di fatto gli affari interni della RPC non consentono interferenze straniere, inoltre Il governo cinese è determinato a salvaguardare sovranità nazionale, sicurezza e interessi di sviluppo senza danneggiare ulteriormente la cooperazione globale e le relazioni bilaterali Cina-USA. E Pechino incoraggia coloro che sono amici della Cina a visitare il Tibet per mostrare la vera immagine della regione, oscurata dalla propaganda pessima dei media occidentali, auspicando semplicemente una rinuncia americana a provocazioni aggressive.

Personalmente, senza entrare nel merito dei fatti storici e delle legittime ragioni della rivendicazione cinese di sovranità sul Tibet (c’è già chi ne ha autorevolmente parlato portando atti ufficiali, documenti CIA cui è caduto il vincolo di segretezza, testimonianze sul ruolo e attività degli esuli ecc.) rimango attonita di fronte alla frequenza ripetitiva di opinioni spacciate per fatti e di preconcetti ideologici del tutto fuorvianti (ne porto un esempio in nota), i quali dimostrano quanto sia ignorata dai più la legislazione cinese in materia di minoranze ed organizzazione delle Regioni autonome.

Innanzitutto la legge del 1984 sull’Autonomia regionale (rifacendosi al testo generale del 1949) già definiva l’autonomia come la linea politica adottata dal PCC per la soluzione del problema etnico all’interno della Cina. Nella Legge è stabilito che le minoranze etniche, sotto una leadership unificata, esercitano l’autonomia nelle aree geografiche in cui vivono in comunità dando vita ad organismi di autogoverno. La Legge incarna quindi il pieno rispetto dello Stato nei confronti delle minoranze e il loro diritto a gestire i propri affari interni, nel principio di uguaglianza, unità e prosperità di tutte le etnie. 

Per quanto riguarda il Tibet (dove sono riconosciute dallo Stato più di 40 minoranze etniche che rappresentano il 95% dei 3 milioni di abitanti – stima 2019) è in vigore dal 1° maggio 2019, una legge fondata sul criterio costituzionale che le Regioni Autonome sono parti inalienabili della Cina, che responsabilità comune di tutti i gruppi etnici è salvaguardare l’unità nazionale e prendere posizione contro il separatismo. E siccome nella RPC le leggi sono periodicamente sottoposte a revisione migliorativa, il 28 novembre 2020 alla terza sessione dell’11° Congresso del Popolo del Tibet, il governo del Tibet ha di nuovo legiferato per garantire l’unità etnica. Penpa Lhamo (Istituto di studi contemporanei dell’Accademia delle scienze sociali del Tibet) ha affermato orgogliosamente: Questa è la prima legislazione sull’unità etnica a livello di regione autonoma in tutta la Cina“. La definizione di un’area regionale come modello di unità etnica sembra dunque essere una pratica innovativa adottata nell’ambito di politiche preferenziali. E di fatto il Tibet, oltre ai risultati di benessere economico e sviluppo degli ultimi anni, ha registrato relazioni etniche caratterizzate da uguaglianza e assistenza reciproca. Tutte pratiche da consolidare attraverso normative locali per un governo sociale stabile. Il documento dell’ 11° Congresso chiede di ereditare e sviluppare anche le culture tradizionali come l’opera tibetana e la pittura thangka.

Ed ora vediamo le mosse USA: ad ottobre 2020, gli Stati Uniti hanno nominato un “coordinatore speciale per le questioni tibetane” con l’evidente obiettivo di interferire negli affari interni della Cina; a novembre, Lobsang Sangay, capo del “governo tibetano in esilio”, ha visitato la Casa Bianca; il 21 dicembre 2020 il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il “Tibetan Policy and Support Act”un disegno di legge che mira a rafforzare la presenza degli Stati Uniti nella regione autonoma del Tibet richiedendo alla Cina di consentire l’apertura di un consolato statunitense a Lhasa, capitale regionale. Inoltre i media occidentali ipotizzano e auspicano che la politica statunitense possa influenzare la selezione dei successori del Dalai Lama sottraendola alle “decisioni” di Pechino. 

Sulle due questioni (consolato a Lhasa e successore del Dalai Lama) si può osservare:

1-Washington per molti anni ha proposto di creare un consolato a Lhasa. I consolati per prassi sono stabiliti nelle città in cui cinesi e americani hanno frequenti scambi (come Shanghai e Guangzhou) poiché l’obiettivo di un paese che apre un consolato prevede la fornitura di servizi di visto alla popolazione locale e di protezione consolare ai propri cittadini. Se ne deduce che in confronto ad altre città cinesi, non è affatto necessario costruire un consolato in Tibet. Xin Qiang, vicedirettore del Center for American Studies della Fudan University, afferma che Washington ha secondi fini.

2- La reincarnazione del Dalai Lama non è una decisione che possa discendere dall’autorità politica. Secondo Pechino e in base al principio di autonomia riconosciuta alle minoranze, è una decisione che deve essere presa solo da Tibetani, liberi da interferenze del governo centrale. La successione, fondata sulla tradizione peculiare dei Tulku, ovvero dei maestri reincarnati, segue tradizioni e rituali religiosi e sin dalla dinastia Qing, cioè dal 17° secolo, viene semplicemente accettata e resa ufficiale dal governo centrale cinese. Perciò se la scelta del successore del Dalai Lama rispetta convenzioni e regole tradizionali, ecco che nessuno potrà indignarsi e anche il “governo tibetano in esilio” dovrà rassegnarsi al fatto compiuto.

NOTA e riflessione personale: 

Dall’articolo (Pangea Posted On Aprile 10, 2018) “IN TIBET LA SITUAZIONE È GRAVISSIMA”. Dialogo con CLAUDIO CARDELLI, l’uomo che ha portato il Dalai Lama in Italia: 

il Paese delle Nevi, invaso e occupato dalla Cina dal 1950. Ancora oggi, dopo 59 anni, la situazione in Tibet rimane gravissima. I tibetani, ogni giorno, lottano per conservare la propria identità e la propria dignità contro la repressione e la violenza senza fine del regime coloniale cinese. Le notizie che ci giungono dall’interno del Tibet raccontano storie di distruzione dell’ambiente naturale, di soppressione della lingua e della cultura tibetana, di discriminazione e arresti arbitrari, di torture e condanne a morte senza processi. Mentre la macchina della conquista coloniale avanza senza esitazioni … (fine citazione). 

[Comunque anch’io ero in Tibet nel 2018 in un impegnativo viaggio tra monasteri e stazioni di polizia per richiedere i permessi d’accesso a luoghi “difficili”. Ho visto suggestivi ambienti naturali, paesaggi infiniti e infrastrutture che non offendono il territorio, ho parlato con guide locali, gruppi di minoranza del tutto appagati, persino comunità islamiche, sono riuscita a documentare arredi sacri salvati, biblioteche di sutra, ricostruzioni e altro… e non mi sono proprio accorta di tutto quello che denuncia il signor Claudio Cardelli. Ma forse sono solamente una sprovveduta che si fa abbagliare dall’irresistibile disciplina di caserme- biblioteche- scuole e dalla simpatia di poliziotti e repressi monaci col cellulare!]