Dove va la Cina?

Intervenire sulla Cina di oggi non è facile, secondo me, per due ragioni: la prima, che si tratta di una formazione sociale le cui dimensioni fondamentali sono luogo tutte quante di enormi e rapidissime trasformazioni; la seconda, che immediatamente si avverte, di fronte alla Cina, come nessuno degli strumentari teorici messi a disposizione da questa o quella tradizione marxista sia adeguato all’analisi.

Capovolgendo quell’elementare criterio della definizione delle categorie dell’analisi che vuole che prima si espongano i dati che si ritengono salienti e li si passi al vaglio degli strumentari esistenti, perciò ricalcando le controverse orme del Marx dell’Introduzione del 1857, espongo dapprima, sommariamente, alcune proposte a questo riguardo. La prima, dunque, è che la Cina falsifichi la concezione marxiana della transizione come fase relativamente breve, caratterizzata essenzialmente dall’esproprio delle proprietà dei capitalisti e dal loro passaggio alla gestione collettiva dei lavoratori, infine orientata univocamente al comunismo. La transizione si è invece posta in Cina, e sin dall’inizio, in concreto, sopraffacendo gli stessi sforzi di Mao, come processo di lunghissima lena, caratterizzato da una pluralità di modi di produzione, infine potenzialmente orientato in più direzioni generali. La seconda proposta è che la Cina falsifichi la concezione prima engelsiana, poi bolscevica, poi di Stalin come di Trotskij, del carattere socialista, in una formazione sociale post-rivoluzionaria, di un processo di accumulazione regolato, attraverso la dominanza della proprietà di stato e il piano, dal livello della politica anziché dalle grandi imprese capitalistiche e dal mercato. In altri termini, il processo di accumulazione è sì in Cina regolato dal livello della politica, però l’economia cinese viene pure gradatamente integrandosi ad un processo mondiale di accumulazione che è regolato dalle grandi imprese capitalistiche, e attraverso il mercato lo stato cinese inoltre non è controllato dai lavoratori ma dal gruppo dirigente ristretto del partito comunista, infine questo gruppo dirigente, palesemente del tutto autoreferenziale, persegue obiettivi di sviluppo dell’economia cinese che in parte confliggono, quanto meno nell’immediato, con le aspettative e le condizioni di vita di una parte rilevante degli operai e delle masse contadine, e che comunque stanno notevolmente allargando le differenze nella popolazione cinese di reddito, di condizioni di vita e di possibilità di influire sul potere statale e sulle pubbliche amministrazioni.
La terza proposta è che pertanto la Cina sia sì attualmente attraversata da una pluralità di propensioni per quanto attiene alla sua natura generale di classe, quindi tanto dalla propensione all’allargamento della componente capitalistica della sua economia che da quella alla conservazione del massimo di proprietà statale, che da quella ad un recupero di potere politico ed economico da parte dei lavoratori, e però che essa stia soprattutto tendendo a mantenersi, almeno per i decenni necessari ai suoi obiettivi di sviluppo, così com’è attualmente, una formazione caratterizzata da una pluralità di modi di produzione, da una propensione generale indeterminata, e al tempo stesso dall’essere fortemente centralizzata e regolata dallo stato: intanto perché tutto questo economicamente funziona assai bene, in secondo luogo perché risponde positivamente all’intenzione del gruppo dirigente ristretto del partito di conservazione del proprio potere, in terzo luogo perché corrisponde a tutta la tradizione ideologica della Cina, profondamente sedimentata in gran parte della sua popolazione, da un lato organicista e dall’altro orientata da Confucio in avanti alla delega totale del potere ad una casta intellettuale altamente selezionata. Si parla molto in Occidente, per esempio, dell’espansione in Cina della presenza di joint-ventures tra stato e imprese multinazionali, e vi si usa un tale dato come argomento a supporto della tesi di una restaurazione capitalistica. E però ho pure ben visto in Cina, l’anno scorso, joint-ventures importanti che, una volta scaduto il contratto tra lo stato e l’impresa multinazionale che le aveva costituite, erano passate in toto alla proprietà dello stato.
E la quarta proposta, in ultimo, è che la Cina rifalsifichi – dopo lo stesso “socialismo reale” europeo – la concezione marxiana dello sviluppo storico come percorso univoco, tutto quanto determinato dalle contraddizioni e dalle lotte di classe nella sfera economica, quindi del passaggio post-rivoluzionario obbligato dal capitalismo al comunismo, e invece riproponga lo sviluppo storico come percorso che può dare luogo a più modi generali della società e, in essi, a più mix, relativamente stabili, quanto meno per un non breve periodo, di modi di produzione.

D’altro canto, a questo proposito specifico, va pure fatto presente come la concezione marxiana di uno sviluppo capitalistico all’insegna di una più o meno rapida generalizzazione del modo di produzione capitalistico all’intera economia mondiale sia stata essa pure falsificata.
Lo sviluppo capitalistico è invece passato anche per la sussunzione sotto il processo di accumulazione capitalistico di una quantità di modi di produzione preesistenti, e ha quindi prodotto formazioni tutte quante sì a dominanza capitalistica, però nelle combinazioni più diverse di modi di produzione. Inoltre in questo dopoguerra esso ha pure teso a sussumersi modi di produzione post-capitalistici, cioè caratterizzati dalla regolazione politica del processo di accumulazione. E perciò che le formazioni sociali post-capitalistiche siano esse pure complesse, in questo senso, non dovrebbe stupirci. Inoltre occorre finalmente prendere atto, sulla scia di una lezione veramente fondamentale di Marx, di come il socialismo sia in primo luogo il dominio reale, sia diretto che per via politica, dei lavoratori sull’economia, quindi come il passaggio della proprietà economica allo stato post-rivoluzionario non ne sia che una precondizione, non la forma compiuta; e di come, se a questo passaggio di proprietà non si accompagna questo dominio dei lavoratori ma quello di un ceto politico separato, allora si abbia, ipso facto, un modo di produzione che non è né capitalista, in quanto non affida l’accumulazione al mercato, né socialista, in quanto de facto e sui modo ripropone rapporti di alienazione – di sfruttamento – dei lavoratori.

E passiamo più direttamente alla Cina. Il primo dato saliente della Cina di oggi che voglio sottolineare è come essa si stia ponendo l’obiettivo nazionale del proprio sviluppo economico, cioè del superamento qui di un ritardo immenso rispetto all’Occidente e al Giappone, dovuto tanto ad una diversa storia che, nell’ultimo secolo e mezzo, alle aggressioni militari e alle dominazioni imperialiste. Mi pare poi indubbio che qui la Cina stia avanzando assai velocemente, e stia saltando, inoltre, interi stadi dello sviluppo industriale, cioè stia passando direttamente alle sue forme più avanzate e più propulsive; è infine indubbio che in tutto questo il potere statale abbia l’appoggio della virtuale totalità della popolazione. Ciò che tuttavia è oggetto in Cina di scontro, nel partito e nello stato come in ciò che vi esiste – e sta crescendo – di società civile, per esempio nelle riviste politiche e nelle università, è se lo sviluppo economico debba necessariamente passare per il rinvio ai suoi risultati di periodo della soluzione di una serie di enormi questioni sociali. È vero, cioè, che le zone a più intenso sviluppo economico si stanno allargando a parti crescenti del territorio cinese, che una parte prevalente della popolazione beneficia, tanto o poco, dello sviluppo, e che lo stato fa uno sforzo enorme, e assolutamente in controtendenza rispetto a quanto accade in tutto il resto del mondo, anche se non riesce a essere sufficiente, sul terreno della produzione, diretta o indiretta, di lavoro per una gigantesca sovrapopolazione contadina. Tuttavia è proprio necessario allo sviluppo che le ristrutturazioni industriali nelle zone di tradizionale industrializzazione siano così pesanti nei confronti di una parte cospicua dei loro lavoratori, o che l’embrione che si sta sperimentando di “stato sociale” debba seguire il modello assicurativo degli Stati Uniti, cioè lasciar fuori nell’immediato la maggioranza dei cinesi, o che le scuole migliori si debbano pagare, o che si consentano, in aree di piccola impresa privata, forme di sfruttamento ottocentesche dei lavoratori, oppure, da parte di molte amministrazioni locali, forme vessatorie di prelievo fiscale a danno di contadini già poverissimi? Ed è proprio necessario allo sviluppo che la Cina allarghi le differenze di condizione nella sua popolazione senza che da parte del potere politico venga posto un qualche limite o intrapreso un qualche correttivo? Cuba per esempio, paese ben più povero, e con gli Stati Uniti al piano di sopra, pur avendo in parte “liberalizzato” la sua economia, con notevoli benefici in sede di sviluppo, impedisce che la piccola impresa privata possa fare quello che vuole e inoltre si sforza di accrescere il supporto economico diretto dello stato ai bisogni del complesso della popolazione.
Il secondo dato che sottolineo è come la Cina abbia cominciato, con l’incidente nei cieli di Hainan, a rendersi conto di essere nel mirino degli Stati Uniti di Bush, di una politica cioè sempre più esplicitamente tesa ad una stabile dominazione planetaria da parte di questo paese – ad un impero capitalistico planetario facente capo agli Stati Uniti. Infatti non sono per nulla sufficienti all’“impero” la moderazione in campo internazionale della Cina e la sua integrazione progressiva, ora rafforzata dall’entrata nell’OMC, al processo mondiale di accumulazione capitalistica, nel quale le imprese multinazionali e la finanza privata degli Stati Uniti fanno la parte del leone, e del quale gli Stati Uniti sono gli attenti custodi e i principali governanti: ciò che l’“impero” chiede, come sempre nella storia degli imperi, è la sottomissione economica e politica, non una qualche forma di partnership.

Verso il Congresso del Pcc

Gli esiti fondamentali del congresso del partito comunista, in corso, e che si concluderà a novembre prossimo, sono quindi assai difficili da ipotizzare. Ma in ogni caso saranno assai interessanti.
Una breve sommaria conclusione. Il problema di quanto la Cina sia o non sia socialista è dunque davvero arduo. Se per socialismo si intende – e io sono di quest’avviso – un modo della società totalmente democratizzato, dove pertanto la popolazione, e in essa segnatamente i lavoratori, dominino ogni dimensione sociale, l’economia perciò come la politica, allora in Cina di socialismo oggi ce n’è poco (benché ci sia nelle grandi imprese di stato una partecipazione dei lavoratori alla gestione, e pure assegnando al socialismo, se si vuole, la produzione di lavoro per la sovrapopolazione contadina), e la Cina può solo essere rappresentata come formazione post-capitalistica dove la transizione è aperta a ogni possibile svolgimento generale e dove inoltre la possibilità di uno svolgimento socialista confligge con il carattere autoreferenziale del livello politico.
Se invece per socialismo si intendono – ma io non sarei per niente d’accordo – sic et simpliciter la dominanza in una formazione post-rivoluzionaria della proprietà di stato e la regolazione fondamentalmente statale del processo di accumulazione, attraverso questa proprietà e il piano, allora la Cina rimane un paese fondamentalmente socialista, almeno per ora.
Il problema per noi della Cina non è però solo questo. La Cina infatti è bene che esista, anche se sarebbe meglio che fosse diversa da quello che è. Voglio anche qui tentare di essere massimamente chiaro. Non ritengo che la contraddizione che oppone Cina e Stati Uniti sia della qualità di classe che oppone Cuba e Stati Uniti – per il fatto stesso dell’integrazione progressiva dell’economia cinese al processo mondiale di accumulazione capitalistica – e neppure che sia della qualità, essa pure di classe, benché in altra forma, che opponeva Unione Sovietica e Stati Uniti. Si tratta tuttavia, oltre che di un paese con un’economia ormai potente e che comprende quasi un quarto della popolazione mondiale, di un paese che, per il carattere nazionale dei suoi obiettivi e per il fatto di essere condizionato solo parzialmente dai processi politici ed economici che percorrono il pianeta, è oggi potenzialmente l’unico contrappeso alla tendenza degli Stati Uniti a costituirsi in impero planetario; mentre assegnare oggi alla Russia o all’Unione Europea una tale potenzialità è a mio avviso del tutto illusorio, per ragioni non del tutto identiche, tuttavia in ambo i casi dotate di una forza preponderante, inerenti tanto alla natura di classe delle due formazioni che alla qualità assolutamente precaria dei ceti di governo che, pour cause, all’assenza di una qualsiasi strategia autonoma di periodo.

2 Ottobre 2002

Ristrutturazione o privatizzazione?
La Cina diventa ufficialmente il 143° membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). (…) Nei settori cosiddetti “strategici” (comunicazioni, energia, trasporti…) la politica ufficiale di fatto non è la privatizzazione, bensì la “ristrutturazione”, processo meramente tecnico che mira ad esaltare la redditività delle aziende pubbliche cimentandole al gioco del mercato : ovvero, concorrenza senza effettivo passaggio di proprietà.
Questa riforma comporta anzitutto il consolidamento di aree industriali, spesso frammentate, intorno a gruppi in grado di praticare economie di scala, e, poi, un massiccio ricorso ai mercati finanziari.
Il primo provvedimento implica che le dimensioni di ogni industria vengano drasticamente ridisegnate. Così, nel settore minerario, il progetto è quello di fondere le 340.000 piccole miniere, scarsamente redditizie e controllate dagli enti del potere locale, in “uno o due gruppi” di grandi dimensioni e “cinque o sei” di dimensioni medie. Nell’aviazione civile, l’obiettivo è di riunire le dieci compagnie principali in tre aziende giganti di aerotrasporti (Air China, China Eastern e China Southern). Nel settore automobilistico, analoghe operazioni di fusione nell’ambito delle 10.000 aziende del settore dovranno dare vita a tre potenti gruppi (First Automotive Works, Dongfeng e Shanghai Automotive Industry), in grado di far fronte alla riduzione dei diritti doganali sulle importazioni.
Nel settore petrolifero, il mercato è ormai dominato da tre aziende “gioiello” (PetroChina, Sinopec e CNOOC), a seguito di un sistematico processo di controllo delle 60.000 stazioni di servizio indipendenti, prima operanti (uniformando ad esempio il prezzo del carburante in ogni stazione). L’obiettivo è chiaramente quello di bloccare il mercato prima che arrivino le multinazionali estere. Stessa strategia per le telecomunicazioni: conglomerati di aziende a livello nazionale, con il capitale straniero messo ai margini, solo che qui si partiva da una situazione di monopolio e non di frammentazione.
Nel corso del solo anno 2000, la Cina avrà realizzato così un totale di 470 fusioni ed acquisizioni per un ammontare di 45 miliardi di dollari, che rappresentano circa il 12% delle operazioni del genere effettuate in Asia. Queste ristrutturazioni colpiscono seriamente l’occupazione. Per esempio, il gigante del petrolio, Sinopec, ridurrà in cinque anni un quinto degli organici (100.000 su 500.000), e la rivale PetroChina ne taglierà un decimo (50.000 su 500.000). Complessivamente, tra il 1995 ed il 1999, in Cina si sono perduti 20 milioni di posti di lavoro nell’industria (i cui organici sono passati da 110 a 90 milioni).
Ciò non viene peraltro ritenuto sufficiente dai sostenitori di una riforma accelerata, i quali temono, in particolare, che fusioni ed acquisizioni siano interventi puramente cosmetici, di ridisegno degli ambiti industriali, lasciando intatte le debolezze strutturali della vecchia economia (indebitamento, capacità produttive superiori al fabbisogno e relativi sprechi, cattiva gestione, organici eccessivi). Di fatto, malgrado le direttive centrali, la legge sui fallimenti viene poco applicata sul campo dalle autorità locali, preoccupate soprattutto di salvaguardare la stabilità sociale. O si traduce in parte in un espediente contabile che consente alle aziende statali di vantare un fantastico incremento (del 140%!) dei profitti tra il 1999 ed il 2000.
Cionondimeno, queste modifiche di facciata consentono alle aziende-gioiello di fare bella figura agli occhi degli investitori, giacchè la loro ossessione – ed è il secondo punto della riforma – è appunto quella di indurre le Borse a finanziare la costosa modernizzazione delle proprie attrezzature industriali. Nel 2000, si sono prelevati 19,1 miliardi di dollari sulle piazze cinesi di Shanghai e Shenzen, e18,6 miliardi di dollari sulle piazze estere, specie Hongkong e New York, di gran lunga le più ambite. Le aziende statali cinesi, Unicom, China Mobile, Sinopec, PetroChina, col potente sostegno delle grandi banche d’investimenti internazionali (Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merrill Lynch, UBS Warburg…), hanno cominciato a immettere sul mercato estero una (modesta) quota del proprio capitale.Presto dovrebbe essere il turno di China Telecom e della Banca di Cina.
Anche qui, tuttavia, il percorso della riforma è arduo. Queste aziende statali, come è evidente nel settore petrolifero, cercheranno presso gli investitori finanziamenti ed assistenza tecnica, ma un loro allineamento alla cultura del “governo d’impresa” non è affatto scontato. Per esempio, dietro la luccicante vetrina di PetroChina, vi è la casa-madre China National Petroleum Corporation (CNPC), archetipo del vecchio sistema, che assorbirà parte dei profitti. Gli azionisti di minoranza stranieri non ne saranno pienamente informati, e sono comunque privi di ogni potere. Il Consiglio di amministrazione è ancora un concetto muovo in Cina. E questo è il limite dei grandi rimaneggiamenti che hanno preceduto l’ingresso della Cina nel WTO (certamente un “limite”, se visto dal punto di vista di un commentatore che ha in testo il capitalismo come modello di riferimento ! – nota de l’ernesto).
Frédéric Bobin
Le Monde, 18.9.2001, traduzione a cura di F. Visentin

Un’esperienza originale di solidarietà sociale
Il quartiere di Wanghyuehu , nella periferia di Changsha, capoluogo della provincia dell’Hunan, nella Cina centrale, ha un nome assai poetico: “il lago da cui si contempla la luna”, ma la realtà è assai meno idilliaca: invece di laghi e lune, si vedono soprattutto blocchi di piccoli edifici fatiscenti, vialetti dissestati, rampe di scale polverose. Wanghyuehu è un quartiere urbano con 36.000 abitanti, come tanti altri, minato dalla disoccupazione æ sono state chiuse parecchie fabbriche di Stato æ e dalla crisi sociale. Particolarmente vulnerabili sono gli anziani.
Ma da nove mesi, Wanghyuehu è diventato un laboratorio, ove si conduce un’inedita esperienza di “banca della virtù”, il cui modello comincia a diffondersi in tutto il Paese. Il principio è semplice: si tratta di istituire un baratto di servizi. I residenti vengono incoraggiati a prestare assistenza a terzi, in cambio del futuro godimento di un analogo servizio.
Depositi e prelievi
Questi flussii di servizi vengono registrati su un libretto personale (donde il concetto di “banca”), con una colonna di “depositi” che prende atto dell’assistenza prestata, ed una colonna di “prelievi” che tien conto dell’assistenza ricevuta. Il saldo, negativo o positivo, si calcola a fine anno. Vi sono regole assai rigorose: non si possono “depositare” né “prelevare” servizi di ogni tipo ; tra le possibilità di “deposito” vi sono doni materiali, assistenza tecnica (riparazioni) o personale (forme di custodia), lavori di interesse generale (cura degli spazi pubblici); i “prelievi” possono consistere in assistenza ad anziani, malati o a persone altrimenti “in difficoltà”, oppure in attività didattiche e formative per ragazzi o disoccupati. Gli studenti, che per la loro età devono soprattutto fornire servizi, sono invitati ad astenersi dai “prelievi”. I loro crediti verranno esposti in una lettera di referenze, utile per il punteggio d’accesso ai corsi universitari.
Questa “banca della virtù” non è un’iniziativa autonoma di volontariato, ma è promossa dal comitato di quartiere, organismo istituzionale attraverso il quale il governo esercita il controllo sociale in ogni parte della Cina urbana. La sede della “banca” di Wanghyuehu fa bella mostra dei mezzi di cui dispone: ampio salone, computers dell’ultimissima generazione, pareti tappezzate di posters e tabelloni.
Una dei responsabili della “banca”, He Zonhye, apre un armadio stipato di libretti, ed esemplifica nel dettaglio: “Questo è il libretto di Jian Kaihua, agente di polizia in pensione, settantacinquenne. Ha accompagnato all’ospedale una persona che viveva sola (2 ore), ha fatte le pulizie nell’alloggio di una persona anziana (1 ora), ha organizzato attività educative per bambini (2 ore), ha effettuato lavori di manutenzione in una casa (_ ora): questi i depositi. Poi gli sono state prelevate 5 ore perché dei volontari lo hanno aiutato quando un suo cugino, colpito da scompenso cardiaco, ha dovuto essere trasportato in ospedale”. Purtuttavia, Jian Kaihua rimane ampiamente in credito.
La genesi di questa “banca della virtù” risale al 1998, allorché il comitato di quartiere mise in piedi un’associazione di volontari per l’assistenza ad anziani e malati. A pochi mesi dalla sua costituzione, si arrivò a 5.000 iscritti. Ma, come dice He Zongye, “poi gli organici sono crollati. Anche l’altruismo ha i suoi limiti. Allora si è pensato di riconoscere il contributo di ognuno, con un tesserino personale. Qualcuno ha suggerito di adottare la formula della ‘banca’, con depositi e prelievi”. E la banca è sorta nell’ottobre del 2001. Oggi conta 3.240 associati.
L’esperimento, sostenuto da una campagna mediatica ,è stato adottato in parecchie altre città. Il governo incoraggia il movimento, che si accorda con le sue campagne sulla salvaguardia di una “civiltà spirituale” e di un “codice di morale pubblica”, volte a combattere forme di crescente egoismo sociale ed a incoraggiare un contesto di solidarietà per i settori sociali danneggiati dalle ristrutturazioni economiche (disoccupati, pensionati). Un’istituzione di questo genere permette di attenuare il trauma della scomparsa della cosiddetta “scodella di riso in ferro”, ossia lo “Stato assistenziale” minimo dell’epoca di Mao, fino a che non si strutturi un nuovo sistema di sicurezza sociale, oggi ancora embrionale (…).
Fr.Bo.
Le Monde, 27.7.2002, trad.Fe.Vi.