Cina e Vaticano, un dialogo possibile

Red Chinariceviamo e volentieri pubblichiamo

di Maria Morigi

La Repubblica Popolare Cinese è oggi uno Stato laico che tutela varie religioni portatrici di tradizioni radicate nel proprio passato remoto, ma che ammette anche – con regole costituzionali precise – religioni di origine straniera. Così come riconosce ufficialmente e tutela con legislazione specifica le varie minoranze etniche (56 Minzu). Il diritto cinese tuttavia si limita a normare l’aspetto religioso solamente in relazione all’integrità dello Stato, il quale riconosce le religioni straniere del cristianesimo (cattolico e protestante) e dell’ islam. L’ebraismo non ha mai richiesto il riconoscimento dello Stato.

Dal 1951 si erano interrotti i rapporti diplomatici tra Pechino e la Santa Sede e perdurava una polemica che ha talvolta raggiunto toni apocalittici, per denunce e falsità date in pasto alla stampa, così da convincere gli occidentali che in Cina fosse in atto una persecuzione ai danni dei cristiani. 

Chiariamo anche che in Cina ci sono in realtà due realtà cristiane-cattoliche ben distinte:

1. Associazione patriottica cattolica cinese, riconosciuta dal Governo, che non ammette il primato del Papa. Risale a quando vennero consacrati i primi vescovi senza l’approvazione del Papa, (aprile 1958 ad Hankou), dopo l’elezione del vescovo, Bernardino Dong Guangqing candidato da Pechino.

2. Chiesa in comunione con Roma, che per la legge cinese “sovverte il potere dello Stato”, quindi opera in clandestinità, poiché la legge  vieta l’attività religiosa al di fuori dell’Associazione patriottica.  

Ora sembra che le cose stiano cambiando: già il 22 settembre 2018 è stato firmato da entrambe le parti un Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi , inoltre venerdì 14 febbraio 2020 a margine della Conferenza internazionale sulla sicurezza svoltasi a Monaco, è avvenuto un incontro tra mons. Paul R. Gallagher, Segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, e Wang Yi, Ministro degli Affari Esteri della RPC. Incontro in cui si è ribadita la fondamentale importanza -per i cattolici, per il popolo cinese e per la pace nel mondo- dell’Accordo Provvisorio del 2018 quale “pratica innovativa che ha dato positivi risultati” nella fiducia reciproca e nell’intenzione di continuare sulla via del dialogo e delle concessioni reciproche. 

In realtà i motivi del lungo dissenso tra Pechino e Santa Sede possono essere ridotti ad un solo elemento: lo Stato cinese non tollera interferenze nelle questioni religiose e non può ammettere che un capo religioso straniero, in questo caso il Papa di Roma, con l’ordinazione di sacerdoti e vescovi, detti le regole della convivenza tra cittadini cinesi o gestisca istituti di istruzione e cultura. 

Ma per orientarsi nel panorama dei difficili rapporti tra Stato (RPC) e Vaticano, bisogna tenere presenti alcune nozioni e fatti fondamentali. 

Diversamente che in Occidente, dove storicamente siamo abituati a più fonti di autorità (ad esempio: Impero, Papato, autonomie cittadine ecc.), la fonte dell’ autorità in Cina è sempre stata unica e risiede nello Stato, sia esso il Celeste Impero o la Repubblica Popolare

La Costituzione della RPC (testo 14 marzo 2004) nel Capitolo II (Diritti fondamentali e doveri dei cittadini), Articolo 36 dice: “I cittadini della Repubblica Popolare Cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere, né discriminare i cittadini che credono o non credono in una religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini o interferire con il sistema di istruzione dello Stato. Gli enti religiosi e gli affari religiosi, non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera”.

Oggi il cristianesimo in Cina è religione minoritaria (2.4% ovvero circa 33milioni di fedeli). Si divide tra: cattolicesimo (3milioni di fedeli, cioè 0,2 %, ancora più minoritario) conosciuto come “Scuola del Signore dei Cieli” (Tianzhujiao), e protestantesimo, ovvero “Scuola di Cristo” (Jidujiao), nato dall’azione missionaria favorita e protetta dal colonialismo europeo nei secoli XVIII e XIX, che costituisce la grande maggioranza dei cristiani cinesi (30 milioni di fedeli 2,2 %). Ambedue le scuole, per avere tutela e riconoscimento, devono sottostare alle regole sulle pratiche religiose decise dalla Costituzione cinese. Si noti che la maggior parte dei cristiani è rappresentata dalle Chiese Protestanti che aderiscono all’Associazione Patriottica, nominata sopra, e sono libere di praticare il culto cristiano con sottomissione alle leggi della RPC. Si può anche osservare che il numero degli edifici delle chiese cristiane è ben superiore a quello consentito dalle regole percentuali per ogni religione presente in territorio cinese.

E comunque è bene ricordare che, almeno fino alla nascita della Repubblica di Cina nel 1912, le varie confessioni religiose si gestivano autonomamente e si configuravano come associazioni riconosciute. La svolta nella politica religiosa è infatti da individuare nella riforma “occidentalizzante” del 1898 voluta dall’Imperatore Guangxu, decimo imperatore della dinastia Qing, quando lo Stato decretò (in piena e pesantissima interferenza coloniale) la confisca di gran parte dei templi di ogni confessione religiosa per trasformarli in scuole. Il proposito “modernizzante” continuò negli anni 1903-1905. Va ricordato anche che dal 1898 al 1910 un gruppo di riformisti confuciani tentò di elaborare una Religione Nazionale (Guojiào) su fondamenti confuciani arricchiti di pensiero cristiano. 

Nel 1912 la Repubblica approvò una lista di cinque religioni riconosciute, le cosiddette ‘religioni mondiali’: buddhismo, taoismo, cattolicesimo, protestantesimo, islam. Si auspicava che lo Stato cinese potesse così entrare nella modernità e che le religioni potessero organizzarsi in associazioni nazionali al fine di negoziare le proprie libertà nei rapporti con il potere statale. Non è stato un cammino facile, poiché negli anni 1927-1932, 1958-1961 e 1964-1978 si susseguirono ondate di epurazioni per sradicare superstizioni e sette che mettevano in discussione l’autorità statale. 

Si tenga anche conto che durante la Repubblica Sovietica di Cina, il partito comunista aveva stabilito nella propria Costituzione (1931): “… il governo sovietico della Cina garantisce la vera libertà religiosa ai lavoratori, ai contadini e alla popolazione che lavora duramente”. E al punto 13: “Sulla base del principio della separazione della Chiesa e dello Stato, lo Stato Sovietico non accorderà nessuna protezione o aiuto finanziario ad alcuna religione. Tutti i cittadini sovietici godono della libertà di propaganda antireligiosa. L’esistenza delle istituzioni religiose appartenenti agli imperialisti non è tollerata se non alla condizione che esse si sottomettano completamente alle leggi sovietiche”. Metodo, questo di regolamentare la libertà religiosa, recepito e sostanzialmente ripreso da ogni Costituzione successiva.

Dopo il 1949, espulsi i colonialisti che avevano protetto molte figure previlegiate di un clero corrotto e molti missionari, si cercò di annullare l’influenza di quella aggressione culturale da parte dell’Occidente che aveva piegato la Cina facendola diventare quasi una colonia. 

Dalla fondazione della RPC, l’ordinamento costituzionale non ha conosciuto cambiamenti significativi, ma, per il riflesso che ha avuto nelle politiche religiose, si può descrivere approssimativamente in due fasi: quella di Mao Zedong e quella di Deng Xiaoping. L’epoca che va dal 1949 al 1976 ha visto una rigida limitazione della libertà religiosa: le religioni straniere furono colpite e le attività religiose subirono censure. Dal 1979 Deng Xiaoping, veterano della Lunga Marcia e successore di Mao alla guida del Paese, propose invece un “Socialismo dalle caratteristiche cinesi”. Con la formula “Riforme e apertura”, quelle garanzie costituzionali di tutela alle religioni, che già esistevano sulla Carta, furono pienamente recuperate. Deng infatti riteneva più importante la crescita delle forze produttive insieme alla necessità di creare un ambiente ‘armonico’, perciò l’atteggiamento governativo verso le religioni si fece meno intransigente: le principali religioni furono salvaguardate e accettate. 

Nel 1982 il partito approvò il documento n° 19 (tuttora in vigore), atto fondante della politica religiosa in Cina. In esso si afferma che le religioni sono destinate a scomparire, ma non devono essere combattute, bensì tutelate in quanto possono sostenere la guida del partito comunista e la modernizzazione del Paese. La libertà di credere rimane una concessione all’individuo da parte dello Stato, che garantisce ruolo sociale alla religione a patto che essa non interferisca con la sfera politica. 

Attualmente si deve prendere atto che la religione in Cina non è più considerata il retaggio feudale dei tempi della Rivoluzione Culturale, bensì Patrimonio Culturale Immateriale, condiviso e riconosciuto. Lo Stato ammette, confermando la posizione presa all’indomani della proclamazione della Repubblica Popolare, cinque religioni (taoismo, buddhismo, protestantesimo, cristianesimo e islam), gestite attraverso istituzioni governative centralizzate. Ed è questo che il Vaticano non sembrava voler accettare, almeno fino all’apertura del recente dialogo da ambedue le parti.