Opportunità e problemi nella cooperazione lungo la via della seta in tempi di guerra commerciale

cina via della setaIntervento di Diego Angelo Bertozzi al V Forum Europeo. La via cinese e le prospettive mondiali

Premessa

Entrata nel suo quinto anno di sviluppo la Belt and Road Initiative – con investimenti complessivi in 64 Paesi che hanno superato i 20 miliardi di dollari nel 2017 – si trova di fronte alla sfida rappresentata dalla guerra commerciale che Washington ha dichiarato a Pechino, e alle prime misure di aggiustamento e adeguamento in risposta alle preoccupazioni, in merito ad esposizioni debitorie, di alcuni Paesi da tempo coinvolti nel progetto lanciato nel 2013.

Raccolte nell’espressione “Trappola del debito”, queste preoccupazioni – che ad oggi non mettono in discussione la partecipazione alla Bri dei governi interessati – sono spesso ingigantite e utilizzate per denunciare la pericolosità dell’iniziativa cinese e ridurla a mera copertura propagandistica di un reale progetto che mira all’espansione dell’influenza politica e ad un incremento delle capacità di proiezione militare di Pechino. In un quadro che si fa complesso e con significativi ostacoli – ma anche con indubbi successi – il rapporto tra la Cina popolare e l’Unione Europa (ed in senso lato con l’intero Vecchio Continente) resta fondamentale per il futuro della Belt and Road e, con questa, per la costruzione di una “comunità del futuro condiviso” che la regge idealmente. Va infatti ricordato come l’inclusione dell’Europa nella Belt and Road Initiative è la logica conseguenza della tradizionale visione dell’Europa come partner naturale in quanto culla di una grande civiltà, vasto mercato, potenza economica, e un potenziale polo autonomo in un progressivo equilibrio multipolare. Se da una parte l’unilateralismo dell’amministrazione Trump ha oggettivamente avvicinato l’Unione Europea alla Cina su dossier caldi come apertura dei mercati, denuncia del protezionismo, riscaldamento globale e difesa dell’accordo sul nucleare in Iran, dall’altra permangono e si fanno più consistenti i timori di Bruxelles, e delle principali capitali europee, sulla crescente presenza cinese nel Vecchio Continente, tanto nella periferia Ue quanto nel suo stesso cuore.

Numeri e politica

Se prendiamo come riferimento la prima metà del 2018, sono proprio i collegamenti Cina-Europa a testimoniare della serietà dell’iniziativa cinese lungo tutta la massa euroasiatica: secondo i dati diffusi dalla Commissione nazionale per la riforma e lo sviluppo, le rotte ferroviarie tra Cina ed Europa sono state percorse poco meno di 4.000 volte nel 2017, segnando un incremento del 116% rispetto all’anno precedente, toccando 36 città in 13 Paesi. Si tratta di collegamenti, lungo un percorso di 12mila km, che da Yiwu, nella Cina orientale, raggiungono destinazioni europee come Duisburg, Madrid, Londra, oppure da Chengdu fino a Rotterdam. Qualche difficoltà resta con l’Italia, mentre un nodo ferroviario è ormai attivo anche con la Finlandia. A partire dal 2014 sempre più Paesi europei hanno deciso di collaborare o di avviare progetti sotto l’ombrello della Bri, a partire da Ungheria e Serbia firmatarie di un Memorandum d’intesa sulle infrastrutture di trasporto. L’anno successivo altri paesi europei hanno firmato simili memorandum con la Cina: Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia (membri Ue) e Albania, Montenegro e Serbia, a cui sono seguiti Lettonia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e infine Grecia. Complessivamente, tra il 2014 e il 2017, 20 Stati membri dell’UE e altri 11 paesi europei hanno firmato protocolli d’intesa in ambito BRI. Ultimamente diversi esponenti dell’attuale governo italiano hanno espresso la volontà di firmare entro l’anno un memorandum d’intesa così da essere il primo Paese del G7 a compiere un tale passo.

Si tratta di un periodo di tempo relativamente breve, ma progetti e processi di acquisizione lungo le rotte europee (terrestri e marittime) della Nuova via della seta sono ormai numerosi e coinvolgono ferrovie, strade, porti e infrastrutture energetiche. Aziende statali cinesi come Cosco e China Merchants hanno ottenuto il controllo totale o parziale su vari terminal container europei che insieme costituiscono il 10% della capacità portuale totale dell’Europa (Pireo, Valencia, Bilbao, Zeebrugge, Anversa, Rotterdam Euromax, Kaipëda, Marsiglia e Savona-Vado Ligure) e sono interessate ad investire a Kirkenes (Norvegia), Anaklia, Poti e Batumi (Georgia), Zara e Rijeka (Croazia), a Lysekil (Svezia) a Costanza (Romania) e a Danzica (Polonia).

La Nuova via della seta ha ad oggi ridotto sensibilmente le distanze geografiche tra Cina ed Unione europea e, in quanto quadro principale nel quale Pechino costruisce le proprie relazioni (preferibilmente bilaterali), facilitato il dialogo politico tra le due realtà. Prendiamo ad esempio il vertice Pechino-Berlino della scorsa primavera nel quale, pur nel permanere di significative distanze su alcune questioni (Tibet, diritti umani, ecc..), è stata ribadita la comune opposizione (stiamo parlando dei due principali esportatori del pianeta) alla politica protezionista della presidenza Trump e sono giunte importanti aperture da parte cinese in risposta alle preoccupazioni emerse, ultimamente con maggiore vigore, in sede Ue: la tedesca BASF investirà 10 miliardi di dollari per la costruzione nel Guangdong del suo terzo maggiore impianto mondiale e – per la prima volta per un’azienda chimica in Cina – sarà posseduto al 100% dal colosso tedesco; BMW sarà la prima casa automobilistica straniera alla quale verrà concesso di avere quote superiori al 50% in una joint-venture con una cinese. La dichiarazione congiunta, firmata al termine del successivo vertice Cina-Ue ha ribadito con maggiore enfasi rispetto ai precedenti la volontà di rafforzare la cooperazione per promuovere una “economia mondiale aperta, migliorare la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti” e opporsi “al protezionismo e all’unilateralismo” per sostenere una globalizzazione “più aperta, equilibrata, inclusiva e vantaggiosa per tutti”. Si tratta di un chiaro messaggio spedito a Washington la cui politica commerciale fa sentire importanti conseguenze: nella prima metà del 2018 gli investimenti esteri cinesi hanno decisamente virato verso l’Europa, scendendo drasticamente negli Stati Uniti (22 miliardi di dollari rispetto ai soli 2,5 miliardi).

Le sfide

La posizione condivisa su alcuni dossier internazionali, su tutti la critica alla politica commerciale degli Stati Uniti non cancellano tuttavia i problemi nei rapporti tra Cina ed Unione Europea. A questo proposito risulta opportuno fare un veloce riferimento ad quadro globale fatto di crescenti preoccupazioni, critiche e contromosse nei confronti della Belt and Road. Prendendo spunto da alcuni casi particolari (Sri Lanka, Malesia e Pakistan) – che stanno spingendo Pechino ad una maggiore flessibilità e a più accorte metodologie di azione – si è fatta sempre più spazio, anche in sede europea, la denuncia della Bri come strategia per esercitare, attraverso l’indebitamento, il controllo su diversi Paesi ed espandere la propria influenza. Nel documento che delinea la strategia di sicurezza dell’amministrazione Usa la Cina è indicata (come la Russia) come “potenza sfidante” e “revisionista” che punta a plasmare il mondo imponendo valori antitetici a quelli di Washington, minacciando la sovranità dei piccoli Paesi e promuovendo, grazie ai suoi investimenti, un modello politico ed economico incentrato sul ruolo direttivo dello Stato in economia; nella sostanza – si legge – “ gli investimenti infrastrutturali e le strategie commerciali della Cina rafforzano le sue aspirazioni geopolitiche”. Se qui sono solo intuibili, i riferimenti alla Bri sono espliciti (ma ci limitiamo a questo cenno) nel più recente rapporto del Dipartimento della difesa al Congresso sugli sviluppi delle capacità militari cinesi. Mentre le provocazioni militari proseguono nelle surriscaldate acque del Mar cinese meridionale, e si cerca di rivitalizzare collaborazioni militari come il Dialogo Quadrilaterale di sicurezza, gli Stati Uniti stanno approntando piani infrastrutturali alternativi e rafforzando agenzia governative ad hoc. Qui dobbiamo ricordare che l’Unione europea è composta da Paesi membri della Nato (21 su 27) che, pur con qualche distinguo, condividono le manovre militari Usa in difesa della libertà di navigazione nel Mar cinese meridionale. Un condizionamento ben visibile in quella che è ufficialmente riconosciuta come la risposta Ue alla Belt and Road (Collegare l’Europa e l’Asia. Elementi costitutivi per una strategia dell’Ue): in esso non c’è alcun accenno alla Bri, la Cina è menzionata un paio di volte, mentre di fatto assente è la Russia – quindi l’Unione economica euroasiatica – indispensabile partner per ogni credibile progetto di collegamento euroasiatico, mentre si mira a coinvolgere i Paesi che la circondano.

Non è tutto. A preoccupare da tempo Bruxelles (più di tutte Berlino ma non solo) sull’avanzata cinese nell’Europa orientale, ai confini dell’Unione Europea, sui passi compiuti in una manciata di anni da Pechino da quando nel 2012 è stata lanciata la piattaforma cosiddetta del “16+1” che ospita annualmente il dialogo tra la Cina e 16 Paesi dell’Europa orientale e centrale (Cee), alcuni dei quali membri proprio dell’Unione Europea (e anche della Nato); piattaforma che ormai è ufficialmente incardinata nel progetto Bri e che per Pechino ha un alto valore strategico. Le cifre emerse parlano di un investimento complessivo cinese pari a 9 miliardi di dollari (ancora poca cosa comunque rispetto ai 65 provenienti dalla Ue) nel settore industriale Cee (produzione di macchinari, prodotti chimici, telecomunicazioni e nuove energie), di un interscambio commerciale che a fine 2016 ha raggiunto i 58,6 miliardi di dollari (con un incremento annuo del 4,3%), quasi raddoppiato rispetto ai 32 miliardi del 2009. Gli scambi commerciali si concentrano per l’80% su cinque Paesi principali, tutti membri dell’Unione Europea, quali Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania e Slovacchia. Le iniziative cinesi, sia commerciali che politiche, in Europa – soprattutto in quella orientale – sono fonte di preoccupazione per le istituzioni Ue e per diversi Paesi. E non solo per questioni tecniche e commerciali. Preoccupazioni che – vale sempre la pena ricordarlo – non nascondono politiche miopi e autolesioniste che hanno certo facilitato Pechino nella sua strategia di penetrazione europea. Si pensi al caso della Grecia, costretta alla corposa vendita di asset pubblici – e tra questi il porto del Pireo – in cambio del prestito concordato con la Troika. Dal punto di vista politico il timore è che la presenza di Pechino, delle sue risorse economiche, si trasformi anche in influenza politica in alcuni dossier caldi che coinvolgono l’Unione Europea (diritti umani, rivendicazioni sul mar cinese meridionale). Un vero e proprio allarme contro il nuovo “pericolo giallo”, è quello contenuto dal recente rapporto congiunto (“Authoritarian advance: Responding to China’s growing political influence in Europe”) del Mercator Institute for China Studies e del Global Public Policy Institute. Entrambi basati in Germania, denunciano crescente e pericolosa influenza cinese in ogni ambito dell’Europa, dalle élite politiche ed economiche alla società civile e al mondo accademico, passando per media ed opinione pubblica. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, il ministro degli esteri esteri tedesco Sigmar Gabriel ha liquidato la BRI come “un tentativo di stabilire un sistema completo per modellare il mondo secondo gli interessi della Cina. Questo ha cessato da tempo di essere solo una questione di economia. La Cina sta sviluppando un’alternativa sistemica completa al modello occidentale che, a differenza del nostro, non è fondata sulla libertà, la democrazia e i diritti umani individuali”.

A questo si aggiunge la volontà, soprattutto di Berlino (e con essa Parigi e Roma) di procedere all’introduzione di un regolamento di controllo europeo sugli investimenti cinesi. Il progetto presentato dalla Commissione europea nel settembre 2017 – una sorta di “scudo protettivo” – allarga il novero dei settori industriali nei quali i governi nazionali possono bloccare operazioni d’acquisto da parte di Pechino. Nella sostanza il meccanismo delineato non prevede alcuna procedura vincolante, ma l’attivazione di un procedimento di consultazione tra Stati e con la Commissione europea in caso di investimenti che mettano a rischio sicurezza o influiscano su programmi o progetti europei.

Brevi conclusioni

Come abbiamo detto, l’attuale quadro politico internazionale sembra spingere Pechino e Bruxelles verso una maggiore collaborazione, con la prima disponibile ad accogliere gli inviti europei ad una maggiore apertura del proprio mercato (ma non vanno dimenticate anche recenti e dure prese di posizione contro un atteggiamento egemonico di Berlino propensa a vedere la fascia centrale ed orientale come una sorta di cortile di casa). Dall’altro lato i rapporti bilaterali che la Cina ha stretto con diversi Paesi europei membri della Ue ha, in un certo senso, facilitato una sorta di “democratizzazione” di quest’ultima aprendo a posizioni meno monolitiche su delicate questioni internazionali e fungendo da sostegno alternativo allo sviluppo per alcuni Paesi periferici, ai margini o limitati da una rigida politica di austerità.