La Cina nel processo di globalizzazione

chinadi Spartaco A. Puttini

L’articolo è apparso in “Gramsci oggi” rivista online, febbraio 2017

Sotto la guida di Reagan e della Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono a ristrutturare le società dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista [1] che ha plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Su quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal “Washington Consensus”.

Oggi, invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre più crescente tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste un’importanza strategica essenziale nella politica estera statunitense. Più in generale Trump mette in discussione la bontà dei progetti di integrazione regionale a guida Usa, che erano stati promossi al fine di legare al carro statunitense aree strategiche vitali nella sempre più difficile competizione geopolitica con gli antagonisti dell’unipolarismo americano: Russia e Cina. 

Cosa ha spinto Trump, finora, ad assumere posizioni così singolari? In parte, questa postura risponde alla promessa di far rinascere uno stato del benessere che ha caratterizzato il sogno americano, sogno ormai sepolto grazie all’impatto sociale del neoliberismo. E’ questo il significato più profondo dello slogan agitato durante la corsa per la Casa Bianca: “first america great again”. Far tornare grande l’America, significava per lui, ricostruire le basi dello standard di vita statunitense, ormai museo dei ricordi e tornare ad alimentare il mito del self made man di cui lui stesso rappresenta incarnazione evidente. Su questa base ha costruito il suo successo contro chi sosteneva lo status quo di strategie politiche che parte dell’establishment stretto attorno alla Clinton riteneva indiscutibili, al fine di garantire l’egemonia statunitense. Questo non significa che a Washington siano stati abbandonati i sogni di gloria, ma significa che il paese è al suo interno spaccato e che nelle stanze del potere il dibattito sulla strada da intraprendere è serrato.

Forse la strategia di Trump inverte quella precedente: non tenta più di strappare la Cina dalla Russia, come ipotizzato dalla diplomazia del ping-pong di Kissinger in poi, ma di strappare la Russia dalla Cina. Una trappola nella quale la Russia non intende cadere, come ha sottolineato in un discorso alla Duma il ministro degli Esteri russo Lavrov [2]. 

Se in alcune cerchie si parla (propriamente o meno è un’altra questione) di de-globalizzazione, in discussione ci sono le relazioni troppo stringenti e vincolanti che sono state strette nei decenni scorsi tra Usa e Cina, che hanno dato un loro contributo nel promuovere lo spostamento dell’asse economico del mondo dall’Atlantico all’Asia orientale e nel mirino c’è la Cina. Cina che appare oggi paradossalmente come alfiere delle politiche di interdipendenza. Per capirne i motivi bisogna risalire però alle radici della scelta di Deng Xiaoping di attuare la politica di riforme e apertura che sono state alla base del miracolo cinese.

– La scelta di Deng

Nel 1978, al momento dell’avvio della svolta all’insegna di “riforme ed apertura” fortemente voluta dal nuovo leader, Deng Xiaoping, la situazione in cui versava l’economia cinese può essere definita preoccupante. Un punto debole in particolare era costituito dalle infrastrutture. Benché la Cina avesse fatto enormi progressi rispetto alla situazione del 1949, la sua rete di comunicazioni restava ampiamente insufficiente per le proprie necessità, specie in vista dello sviluppo che si voleva realizzare in tempi rapidi. La principale arteria stradale tra Pechino e Tianjin nel 1978 aveva solamente due corsie. In totale il paese contava 800 mila km di strade di cui solo il 30% asfaltate [3]. Il traffico portuale non era sostenuto da un’adeguata meccanizzazione della produzione, anche se negli ultimi tempi aveva compiuto notevoli progressi, aumentando già tra il 1972 e il 1977 del 60% la propria capacità di carico e scarico [4]. Le capacità dell’industria erano del tutto insufficienti a tener dietro agli ordinativi necessari per la realizzazione di una prima meccanizzazione dell’agricoltura [5].

L’aspetto più preoccupante era costituito dalla nuova rivoluzione tecnologica che si affacciava nella Triade dei paesi a capitalismo avanzato. Un treno che la Cina rischiava di perdere. In quel contesto era lo stesso futuro del paese ad essere posto, in prospettiva, in discussione. Sul gruppo dirigente stretto attorno a Deng devono aver pesato come macigni le esperienze storiche della Cina. La chiusura e l’arretratezza dell’era mancese, come prodromo e causa dell’incapacità dell’Impero di mezzo di difendersi dai “barbari” venuti dal mare, all’epoca dell’imperialismo e delle guerre dell’oppio, deve aver rappresentato un monito.

La difesa della sovranità nazionale implicava la necessità di imboccare la via di uno sviluppo accelerato; lo sviluppo stesso, e la legittimità del ruolo di guida del PCC e della rivoluzione cinese, implicava la necessità di uscire dall’egualitarismo della povertà per prendere atto che la “povertà non è socialista”, per dirla con una nota espressione di Deng.

La visione di Deng, di una società che procede verso la prosperità comune e verso l’eliminazione della povertà tollerando disparità di ricchezza per tutta una fase è entrata a pieno titolo nel patrimonio ideologico del partito, opportunamente scortata dai “quattro principi fondamentali”, ispirati dalla necessità di avere come obiettivo il socialismo ed evitare la restaurazione del capitalismo e una controrivoluzione borghese. A questi principi ci si è richiamati per stroncare i moti di piazza Tiānānmén nel 1989. I quattro principi sono: il socialismo, la dittatura del proletariato, il ruolo guida del Pcc, il pensiero di Mao. L’importante VI Plenum dell’XI Comitato Centrale del Partito nel 1981 ha fatto un bilancio dell’esperienza storica del Pcc. Il bilancio su Mao in particolare risulta positivo in modo preponderante, anche se non gli vengono taciuti errori secondari. Il giudizio è ampiamente positivo per l’opera svolta dal grande leader fino al 1957, mentre è critico sul periodo che corre tra il 1957 e il 1966 ed è molto critico per le scelte successive al ’66. Il giudizio su Deng è attualmente di apprezzamento unanime. La sua linea è definita corretta. Nel 1997, nel corso del XV Congresso del Pcc, la teoria di Deng della costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi è stata definita “ideologia guida”.

La prima necessità di Pechino consisteva nell’attrarre investimenti esteri per lanciare attività industriali e tecnologiche. Si è calcolato che nel solo 1978 vennero firmati contratti per un valore di 7,8 mild USD [6], l’apertura da questo punto di vista fu un successo da subito. Ma gli ostacoli da superare per far marciare la modernizzazione furono enormi. Infrastrutture, fabbriche lontane dai centri principali e dalla costa per motivi di sicurezza nazionale, mentalità, scarsità di quadri, etc. La strategia fu quella di utilizzare le Zone Economiche Speciali per attrarre investimenti e ristrutturare le imprese pubbliche per far fruttare l’apertura in termini di pronunciato dinamismo, avanzamento tecnologico e conquista del futuro. Il percorso cinese delle riforme ha inteso attivare il meccanismo della concorrenza e toccare le corde degli incentivi. In gran parte ha funzionato lasciando libero corso alla capacità di iniziativa del laborioso popolo cinese, sorvegliando i processi e intervenendo per correggerli, sulla base del principio che il moto si impara camminando. Così, ad esempio, la Lenovo, che oggi è tra i colossi dell’informatica, è nata grazie all’iniziativa di 11 scienziati nel novembre del 1984, la loro prima sede fu la guardiola dismessa all’ingresso dell’Accademia delle Scienze di Pechino.

Il principio di decentrare le responsabilità e promuovere incentivi serviva a rompere con il clima parassitario e improduttivo che vigeva precedentemente nelle imprese statali e nel rinvigorirle.

Nel maggio del 1979 vennero coinvolte nelle politica di modernizzazione le prime otto grandi imprese pubbliche. Quindi, all’interno della svolta, oltre a favorire l’iniziativa privata e l’investimento straniero (a partire da quello delle comunità cinesi all’estero) vi era anche il rilancio del settore pubblico. Un elemento, insieme a quello del colore politico del potere e dei suoi obiettivi strategici e ideali, che pone il fenomeno cinese in netta rottura con quanto proposto dal neoliberismo e dal Washington Consensus.

L’obiettivo, come già richiamato, era dato dalla necessità di realizzare in tempi rapidi un imponente sviluppo delle forze produttive e di aumentare progressivamente il benessere dell’intera popolazione. 

La III Sessione plenaria del Comitato centrale eletto al XII Congresso del PCC nel 1984 ha fornito un bilancio dell’esperienza cinese e tracciato necessità e motivi delle 4 modernizzazioni (agricoltura, industria, difesa, scienza) volute da Deng. Tornare al documento può aiutare a comprendere motivazioni e spirito della strategia cinese del socialismo di mercato. In particolare può risultare istruttivo il capitolo “La riforma è tesa all’affermazione di una struttura socialista dinamica” [7].

Deve essere notato un aspetto della politica economica cinese che in Occidente non è abbastanza compreso: le diseguaglianze e disparità che in Cina si sono venute a realizzare sull’onda delle riforme, tra gruppi sociali e tra regioni, rispondono a una logica processuale del tutta opposta alla crescita del fenomeno delle diseguaglianze che viviamo in Occidente. Mentre da noi sotto l’impulso di scelte macroeconomiche importate da oltreoceano si assiste a un trasferimento di ricchezza dal basso al vertice della piramide sociale, cioè a un impoverimento della stragrande maggioranza della popolazione e questa politica passa dalla fine delle politiche redistributive, tramite un uso distorto della leva fiscale, tramite lo smantellamento dello stato sociale, tramite la precarietà nei contratti di lavoro, etc… in Cina negli stessi decenni si è assistito a un generale innalzamento della qualità della vita, a una crescita che ha beneficiato tutti, anche se in misura diseguale. E’ grazie alla miracolosa crescita degli ultimi trent’anni che la Cina ha strappato milioni di persone dalla povertà. La Cina è cresciuta proprio perché non ha copiato il modello Usa, se lo avesse fatto sarebbe andata gambe all’aria, come hanno fatto tutte le nazione che hanno inoculato il morbo del neoliberismo.

Il fine della politica di apertura e le linee guida della cooperazione internazionale restano le stesse manifestate da Deng all’Onu nel 1974, quando non era ancora il leader incontrastato del paese:

“Contare sulle proprie forze non significa affatto ripiegarsi su se stessi e rifiutare l’aiuto esterno. Noi riteniamo da sempre che è benefico e necessario per lo sviluppo dell’economia nazionale dei diversi paesi di procedere, sulla base del rispetto della sovranità di ciascuno Stato, della eguaglianza e dei vantaggi reciproci come pure in funzione dei bisogni di ciascuno, a degli scambi economici e tecnici allo scopo di completarsi reciprocamente” [8].

La Cina assume questo orientamento tenendo come propria bussola i principi della coesistenza stabiliti a Bandung nel lontano 1955. Come ha ribadito recentemente il suo presidente Xi jinping durante il meeting di Davos, la Cina ribadisce la sua fiducia nella cooperazione e nell’integrazione internazionale sulla base dei principi di Bandung della difesa della sovranità, del riconoscimento di modelli diversi di sviluppo per diversi paesi, della cooperazione sud-sud basata su mutuo beneficio (win-win). Un’impostazione antitetica a quella dell’egemone statunitense.

La sfida per la Cina resta aperta e complicata, ma i cinesi sono orgogliosi della strada percorsa in questi 30 anni. Oggi, pur tra mille problemi, la Cina è la fabbrica del mondo. Un pilastro del nuovo equilibrio multipolare che cerca di arginare l’egemonismo statunitense e che erode gli spazi del Washington Consensus. A partire dalle relazioni con la Russia e dalla costruzione di legami economici strettissimi con altri paesi in via di sviluppo che disintermediano l’FMI e mettono in crisi la centralità degli scambi del Sud del mondo con la Triade dei paesi capitalistici più avanzati, riducendo la dipendenza delle periferie e semiperiferie dell’economia mondiale dai tradizionali centri di potere del nord del mondo. 

Proprio per questo le relazioni tra Usa e Cina nel prossimo futuro saranno da tenere attentamente sotto controllo; dal loro sviluppo dipenderà buona parte dell’assetto delle relazioni internazionali.

NOTE

1 Per un’interpretazione del processo di globalizzazione mi permetto di rinviare a: S. A. Puttini, Il secolo lungo delle guerre imperialiste; in: “MarxVentuno”, nn.1-2, 2016.
https://www.marx21.it/index.php/internazionale/mondo-multipolare/27631-la-russia-per-migliori-relazioni-con-gli-stati-uniti-ma-senza-farsi-illusioni-e-non-qcontro-la-cinaq .
3 R. Palmieri, L’economia cinese verso gli anni ’80. Sviluppo, socialismo e democrazia; Torino, Einaudi, 1978, p. 26
4 Ibidem, p. 35
5 Ibidem, p. 62
6 Wu Xiaobo, Miracolo cinese; op. cit., p. 16
7 Il testo è riportato in appendice a: S. Ginzberg, Il nuovo corso cinese; Roma, Editori Riuniti, 1985.
8 R. Palmieri, op. cit., p. 222.