La Cina e il rifiuto dell’egemonia

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

 

cina folla_bandiereNell’ottobre di quest’anno il governo della Repubblica popolare cinese ha reso pubblico il Libro Bianco “La Cina e il suo sviluppo pacifico” [1] con il quale viene ribadito che l’ascesa della potenza cinese sul piano internazionale ha carattere pacifico e che lo sviluppo economico ha come obiettivi l’uscita completa dal sottosviluppo – anche in questo documento viene specificato che “per un lungo periodo storico, la Cina resterà ancora un paese in via di sviluppo” – e la garanzia di benessere crescente per una popolazione di 1 miliardo e trecento milioni di persone. Un ambiente internazionale caratterizzato da cooperazione multilaterale e relazioni pacifiche è ritenuto, come lo era al momento della politica di riforma avviata negli anni ’80, fondamentale per la prosecuzione dello sviluppo economico e per la crescente prosperità del popolo cinese.

 

Questo mentre a Washington, complice l’ormai avviata campagna elettorale per le presidenziali del 2012, si alza la voce contro la minaccia economica e militare cinese nel momento stesso in cui vengono messe al voto nuove forniture militari a Taiwan [2] e si pone all’ordine del giorno l’avvio di una guerra commerciale. La potenza statunitense che dal 1950, anno dello scoppio della guerra di Corea, minaccia le coste cinesi con le portaerei della VII Flotta grida scandalizzata al pericolo quando la Cina vara la sua prima portaerei (la Vyrag, acquistata dall’Ucraina).

 

Nei giorni scorsi il professor Aaron Friedberg, già uomo vicino al vicepresidente Dick Cheney e ora consigliere del candidato repubblicano alla presidenza Mitt Romney, ha accusato i cinesi di “essere manipolatori della valuta” e di “rubare proprietà intellettuale, brevetti e know how americani” e ha espresso chiaramente che “bisogna capire che siamo nel bel mezzo di una rivalità geopolitica seria e in una competizione militare cinese” e che “dobbiamo capire a fondo questa rivalità se non vogliamo essere sopraffatti”. La politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina, rivale militare e al contempo partner commerciale, è quella di “contrastarla sia sul piano diplomatico sia su quello commerciale” perché in breve tempo il gigante asiatico “sarà in grado di minacciare seriamente non soltanto la posizione americana nella regione, ma anche la sicurezza stessa dei paesi vicini”. Inoltre alla Cina deve essere fatto ben presente che “non può separare Europa, Stati Uniti e le democrazie asiatiche, deve sentire lo stesso messaggio da tutte le democrazie del mondo” [3] . Insomma, in funzione anticinese gli Usa devono chiamare ad una sorta di crociata generalizzata. Una minaccia che ricorda la missione di civiltà compiuta nel 1901 dalle potenze imperialiste coalizzate per schiacciare la rivolta dei Boxer e imporre la più tremenda delle umiliazioni.

 

A confermare la centralità del Pacifico nella strategia Usa è anche il capo del Pentagono Leon Panetta. Durante il suo primo tour in Estremo Oriente ha dichiarato che Pechino sta “rapidamente modernizzando le sue forze armate con una preoccupante carenza di trasparenza” e per questo “gli Usa non ridurranno la presenza nella regione” [4]. Presenza che ad oggi è costituita da 85 mila uomini, di cui 47 mila in Giappone e 20 mila in Corea del Sud.

 

Prima di passare all’analisi del documento dobbiamo specificare cosa tradizionalmente intende la dirigenza comunista cinese per egemonia. Per Deng Xiaoping il perseguimento dell’egemonia è il tratto distintivo di una superpotenza. E una superpotenza è “un paese imperialista che, ovunque, fa subire agli altri paesi le sue aggressioni, i suoi interventi, il suo controllo, le sue imprese di sovversione e di saccheggio”. Dunque un paese egemone porta avanti un dominio basato esclusivamente sulla forza e si mostra irresponsabile nei confronti dell’interesse collettivo. Ebbene se teniamo per buona questa definizione, allora potremmo facilmente indicare quale paese – con i suoi vassalli regionali – porta avanti da tempo un generale piano di sovversione il cui ultimo tassello, in ordine di tempo, è stato l’aggressione alla Libia e il rovesciamento del governo di Gheddafi. Sempre Deng Xiaoping, agli inizi della politica di riforma e apertura, aveva esplicitato a chiare lettere il rifiuto cinese ad ogni pretesa egemonica: “Molti amici chiedono che la Cina sia leader del Terzo Mondo. Ma noi diciamo che la Cina non può essere leader, altrimenti si farà dei nemici. Coloro che praticano l’egemonismo sono screditati. Agire da leader del Terzo Mondo ci procurerà una cattiva reputazione. Questa non è falsa modestia, ma una considerazione di ordine schiettamente politico” [5].

 

Nel Libro Bianco si legge che la Cina “non cerca di praticare né l’egemonia regionale, né di stabilire delle sfere di influenza, né di spodestare i paesi” e che il suo sviluppo pacifico “ha rotto il modello tradizionale della crescita in potenza adottato nella storia moderna da alcuni grandi paesi che diventando potenti hanno preteso l’egemonia […] hanno stabilito un sistema coloniale, si sono disputati le sfere di influenza e hanno messo in pratica una politica di espansione basata sulle armi”.

 

Il documento è in piena continuità con i Cinque principi della coesistenza pacifica che sono il lasciato della Conferenza di Bandung (1955) che diede il battesimo al movimento del Paesi non allineati e segnò, al contempo, il rientro sulla scena internazionale della Cina comunista: rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza degli affari interni, parità e reciproco vantaggio negli scambi commerciali.

 

Il principio del pieno diritto di ogni paese di essere unico arbitro del proprio destino, esplicitato allora da Zhou Enlai, apriva alla possibilità di un fronte comune tra differenti regimi sociali contro il colonialismo e l’egemonia.

 

La difesa del sistema sociale e della via di sviluppo cinese contro ogni intervento esterno è collegata ad una precisa scelta di una politica estera di non interferenza negli affari interni. Siamo di fronte, quindi, ad una netta presa di distanza dell’esportazione della democrazia che, con l’aggressione alla Libia, ha compiuto un ulteriore salto di qualità configurando un nuovo modello di intervento della Nato aspramente criticato da Pechino [6]. Riaffermata la fedeltà ai Cinque principi della coesistenza pacifica, la Cina “rifiuta di gestire le relazioni con gli altri paesi sulla base dei regimi sociali o dei fattori ideologici. Essa rispetta il diritto degli altri popoli alla scelta del loro sistema sociale e della loro via di sviluppo, non interviene negli affari interni degli altri paesi, si oppone a che un grande paese maltratti un piccolo paese e che un paese forte maltratti uno debole, e lotta contro l’egemonismo e la politica del più forte”.

 

Di fronte alla minaccia delle forze secessioniste e terroriste, la Cina rivendica come necessaria, quanto comprensibilmente legittima, la promozione di una politica di modernizzazione della difesa nazionale. Politica che ha fini esclusivamente interni e che vuole spezzare la trappola della guerra fredda con la sua corsa al riarmo che tanto costò all’Unione Sovietica: “La modernizzazione dell’esercito cinese ha come scopo essenziale la difesa della sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale della nazione, e di proteggere gli interessi dello sviluppo del paese. Le spese della difesa nazionale cinese, ragionevoli e moderate, corrispondono ai bisogni della difesa della sicurezza nazionale. La Cina non può ne vuole lanciarsi in una corsa agli armamenti con qualsiasi altro paese, e rifiuta di costituire una minaccia militare per qualsiasi altra nazione. Essa persiste nell’applicazione del principio consistente nel “non versare sangue se non quello del suo corpo in difesa”, e si impegna a regolare in maniera pacifica i conflitti sociali e i problemi di una attualità in ebollizione”.

 

Come affermato nel Libro Bianco del Ministero della Difesa cinese del 2006, la strategia cinese post 1964 si pone come obiettivo quello di creare un adeguato potere di dissuasione in grado di scoraggiare qualsiasi aggressione [7]. Nonostante il sensibile incremento delle spese militari – un aumento del 320% dal 1998 al 2008 – il budget militare di Pechino, secondo alcune ricerche, sarà di quasi 92 miliardi di dollari per la fine del 2011. Un netto distacco, quindi, rispetto al budget di 663 miliardi di dollari del 2008 degli Stati Uniti [8]. Pare superfluo ricordare che la Cina non ha basi militari all’estero, non ha truppe di occupazione in nessun paese straniero e, soprattutto, non ha partecipato in alcun modo alle recenti e meno recenti aggressioni militari.

 

Il Libro Bianco ribadisce, invece, la scelta del multilateralismo, della cooperazione internazionale e della risoluzione pacifica delle controversie. Linee guida che possiamo verificare con la netta contrarietà di Pechino a qualsiasi ipotesi di aggressione economica e militare nei confronti della Siria di Assad, anche attraverso l’esercizio del diritto di veto in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

 

L’impegno cinese nei confronti dei paesi in via di sviluppo e di quelli ancora intrappolati nella povertà è rivendicato alla luce dei fatti: “La Cina ha dato concretezza all’OMD (Obiettivo del millennio per lo sviluppo dell’Onu): è il solo paese al mondo ad aver realizzato anzitempo dimezzato la popolazione povera. Ha aiutato i paesi stranieri in base alle sue capacità. Alla fine del 2009, la Cina ha fornito un aiuto totale di 256, 3 miliardi di yuan a 161 paesi e ad una trentina di organizzazioni internazionali e regionali; ha annullato i 380 debiti dei 50 paesi poveri più indebitati e meno avanzati, ha formato 120mila tecnici nei paesi in via di sviluppo, e ha inviato 21mila membri di equipe mediche e quasi 10mila insegnanti all’estero. La Cina ha promosso attivamente l’aumento delle esportazioni dei paesi meno avanzati verso la Cina e ha promesso una tariffa doganale a zero al 95% dei prodotti di tutti i paesi meno avanzati che trattengono con essa relazioni diplomatiche”. Oltre a questo c’è da ricordare che Pechino è il membro permanente del Consiglio di Sicurezza a vantare il numero maggiore di persone impegnate nelle operazioni di mantenimento della pace (21mila nelle 30 operazioni di mantenimento della pace lanciate dall’Onu).

 

NOTE

 

1 Il Libro Bianco è consultabile nella traduzione in inglese sul sito del governo della Repubblica popolare cinese all’indirizzo http://www.gov.cn/english/.

2 Si veda Diego A. Bertozzi, Taiwan: la provincia “ribelle” e il confronto cino-americano, www.marx21.it .

3 Amy Rosenthal, Due parole con l’uomo che sussurra a Romney la strategia con la Cina, Il Foglio, 20 ottobre 2011.

4 Maurizio Molinari, Washington sfida la Cina, “Il pacifico è una priorità”, La Stampa, 25 ottobre 2011.

5 Deng Xiaoping, La politica estera della Cina, 21 agosto 1982. Consultabile su http://lanostralotta.org/?p=26.

6 Si veda, a titolo di esempio, La Siria non è una nuova Libia, www.marx21.it (traduzione dell’articolo di Wang Jinglie, ricercatore dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali apparso sul Quotidiano del Popolo online, 21 ottobre 2011).

7 Per una esaustiva risposta alle accuse di imperialismo rivolte alla Repubblica popolare cinese si veda R. Sidoli e M. Leoni, Il ruggito del Dragone, Editrice Aurora, Milano 2011, pp. 97-128.

8 B. Courmont, Cina, la grande seduttrice. Saggio sulla strategia cinese di conquista del Mondo, Fuoco Edizioni, Rende 2011, pag. 144.