La via “coloniale” per frantumare la Cina

hongkong separatistidi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Ad Hong Kong potrebbe presto comparire sulla scena politica un nuovo partito indipendentista, il secondo in pochi mesi dopo l’Hong Kong National Party, con un nome che la dice lunga su quanto si propone: “Alliance to Resume British Sovereignty over Hong Kong and Independence”. Scopo principale della neonata formazione – come ben si comprende – non è tanto l’indipendenza immediata, quanto il distacco dalla Pechino popolare per tornare – anche se in via temporanea – nella condizione di colonia di Sua Maestà: il giovane leader Billy Chiu Hin-Chung ha infatti precisato: “Noi non riconosciamo la dichiarazione congiunta sino-britannica. Quindi, l’unico risultato logico per Hong Kong è il ritorno transitorio al dominio britannico”. (South China Morning Post, 22 giugno 2016). Sulla libertà e la democrazia – come colonia britannica ad Hong Kong non si votava – sembra prevalere il sentimento anti-cinese.

Non ci troviamo di fronte a posizioni particolarmente originali – nei giorni del movimento degli ombrelli erano apparse bandiere della Hong Kong coloniale – se pensiamo che anche un celebrato e coccolato dall’Occidente oppositore di Pechino quale il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo non ha esitato in un recente passato a riabilitare il colonialismo britannico in Cina come via alla rinascita democratica del gigante asiatico tutto.

In una intervista del 1988, quello che sarebbe divenuto il campione dei diritti umani, celebrato tanto a destra quanto a sinistra, è passato sopra la più che secolare sofferenza del proprio popolo dichiarando che “ci vorrebbero 300 anni di colonialismo” perché “in 100 anni di colonialismo, Hong Kong è diventato quello che vediamo oggi”. Dunque “vista la grandezza della Cina, certamente ci vorrebbero 300 anni perché una colonia sia in grado di trasformarsi come la Hong Kong di oggi”. Non sicuro che una simile cura potesse bastare, aveva aggiunto: “Dubito che 300 anni siano abbastanza”. (Open Magazine, 27 Novembre 1988.)

Certo, ci troviamo di fronte a formazioni minoritarie, ma il loro proliferare non può essere analizzato con superficialità. Le tante esperienze di “rivoluzioni colorate” e di “regime change” dimostrano ampiamente le capacità dell’imperialismo (quello statunitense su tutti) di sfruttare le contraddizioni che si aprono in Paesi ritenuti avversari (o comunque in grado di contrastare una storica egemonia) e di utilizzare sul terreno dello scontro politico e militare minoranze combattive e organizzate. Possiamo scartare del tutto la possibilità di una “Maidan” cinese nel “Porto profumato”? Nel recente passato del leader della nuova forza indipendentista pro colonialismo c’è infatti un assalto con la bandiera della Hong Kong britannica ad una caserma dell’esercito di liberazione popolare con la richiesta di abbandonare subito la regione.