Cina e Santa Sede… e Hong Kong

papapiazzadispagna-640x426di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

La decisione del Pontefice di non incontrare il Dalai Lama va accolta positivamente, come segnale di uno smarcamento parziale dalla onnipresente campagna anti-cinese e come conferma del progressivo mutamento degli equilibri internazionali e della centralità politica ed economica dell’Asia orientale. Tra Pechino e il Vaticano è in atto un processo di riavvicinamento dopo la rottura consumatasi con la vittoria comunista nella guerra civile e la fuga di molti missionari cattolici a Taiwan al seguito dei nazionalisti del Kuomintang, ma saranno molte le contraddizioni da affrontare per raggiungere una “normalità” nei rapporti, diverse le tensioni che possono riemergere improvvisamente, come hanno dimostrato le proteste di Occupy Central a Hong Kong.

Le gerarchie cattoliche non ufficiali (il cardinale J. Zen, nominato da Giovanni Paolo II) hanno appoggiato la cosiddetta “Umbrella revolution”, vale a dire la messa in discussione della centralità del Partito comunista, gruppi di preghiera hanno partecipato direttamente alle occupazioni e alle manifestazioni e diverse chiese hanno agito da appoggio logistico oltre che “spirituale”. Joseph Chan, professore di scienze politiche all’Università cinese di Hong Kong e sostenitore delle proteste, ha persino parlato di assoluta inconciliabilità tra fedeli cattolici e governo comunista: “I cristiani, per definizione, non si fidano dei comunisti. I comunisti sopprimono cristiani ovunque si trovino”.

Un “appeasement” tra Cina popolare e Vaticano, in vista di un futuro reciproco riconoscimento, deve per forza affrontare questioni spinose e su queste giungere ad un accordo: ad una maggiore libertà di movimento per la Chiesa cattolica dovrà corrispondere la fine delle connivenza con movimenti di radicale opposizione o eversivi, in un quadro nel quale trovano ancora largo consenso nell’opinione pubblica internazionale i temi dell’esportazione della democrazia e dell’interventismo umanitario.Un’intesa a “metà strada” fatta di “sforzi congiunti” come ha dichiarato Qin Gang, portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica popolare cinese.

Da superare c’è il peso di una storia che ha visto l’intervento delle cannoniere occidentali in Cina – dalle guerre dell’oppio in avanti – proprio a difesa della libertà di movimento dei missionari cattolici, la stretta alleanza tra trono e altare nella riduzione dell’ex Celeste impero a “ipocolonia” (Sun Yat-sen) di un cartello di potenze imperialiste. All’indomani della seconda guerra dell’oppio (1858) che aveva portato alla piena libertà di movimento per i missionari, Rutherford Alcock, plenipotenziario britannico per la Cina, avvertiva quest’ultimi che “la causa del cristianesimo ci avrebbe guadagnato se non avesse goduto dell’appoggio di governi stranieri, e che se gli stessi missionari avessero usato una maggiore pazienza e moderazione nello svolgere la loro attività i cinesi non avrebbero guardato a loro come a strumenti politici ed agenti di una propaganda rivoluzionaria, ma come a insegnanti di religione”. Al pari di una delle tante potenze impegnate nel “break up of China”, il Vaticano, in pieno svolgimento della rivolta dei Boxer (1899-1901), spinse un governo imperiale cinese sempre più in difficoltà a emanare un decreto che riconosceva pari dignità e stessi diritti dei funzionari cinesi a vescovi e sacerdoti. Sempre negli stessi anni il Kaiser tedesco Guglielmo II, dopo l’uccisione di due missionari nello Shandong, fece seguito ad una solenne promessa al “partito cattolico” tedesco inviando questa lettera a von Bulow: “migliaia di cristiani respireranno più liberamente quando sapranno che le navi da guerra dell’imperatore di Germania sono vicine […] centinaia di migliaia di cinesi tremeranno quando si sentiranno sul collo il pugno di ferro della Germania”.