La politica estera di Pechino: la realizzazione del “sogno cinese” e la “convergenza di interessi”

di Diego Angelo Bertozzi

cina bandiera cieloIl testo della relazione tenuta da Diego A. Bertozzi, della nostra redazione, all’assemblea svoltasi alla “Casa Rossa” di Milano il 18 gennaio scorso. 

Prendete questo mio intervento come un contributo introduttivo alla conferenza pubblica di oggi: chi mi seguirà saprà affrontare nello specifico alcune delle tematiche che il sottoscritto si limiterà ad accennare. Ciò che mi interessa presentare in questa occasione è un quadro generale della politica estera della Repubblica popolare cinese alla luce del cambio di leadership, dopo il 18° congresso del Pcc, e del più recente Terzo plenum del Pcc.

Premessa

Sean Mirsky, giovane analista statunitense collaboratore del Carnegie Institute, si domanda come sia possibile per gli Usa vincere una guerra contro la Cina. La sua risposta a proposito è molto semplice: serve un blocco navale. Ma come e con chi attuarlo?

Con una coalizione che metta insieme almeno India, Giappone e Russia. Il blocco ipotizzato prevede due “anelli” a distanza con diverse misure di filtro. Ma più degli aspetti pratici di questo progetto, a noi serve comprendere la visione alla base di questa ipotesi. Ebbene, ecco quel che scrive il giovane studioso:

L’economia cinese si basa fortemente sul commercio marittimo, soprattutto per quanto riguarda le importazioni di petrolio. In linea con la sua reputazione di “officina del mondo”, la Cina dipende dalle materie prime importate per esportare prodotti finiti. Il commercio domina l’economia orientata alle esportazioni della Cina, che comprende il 52,1% del Pil cinese (di cui il 90% è trasportato via mare). La Repubblica popolare è nota per essere il più grande esportatore mondiale di beni merce (1.600 miliardi dollari nel 2010), ma è anche il secondo più grande importatore mondiale di beni merce (1.400 miliardi dollari nel 2010) e il terzo più grande importatore mondiale di risorse naturali (330 miliardi dollari nel 2008). Più sorprendentemente, la sicurezza energetica della Cina è strettamente legata alla sua dipendenza dalle importazioni di petrolio. Nel 2011, la Cina ha acquistato quasi il 60% del suo petrolio all’estero – un sorprendente 5,7 milioni di barili al giorno – e quindi dipendeva dai trasporti marittimi per portare il 90% del petrolio. Il paese è intensamente e insostituibilmente dipendente dal petrolio nel settore industriale e dei trasporti, e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro. Il tallone d’Achille della Cina potrebbe essere proprio l’importazione di petrolio. Nel contesto di una guerra sino-americana, gli Stati Uniti potrebbero cercare di prendere la Cina nella sua più grande forza, cioè il suo orientamento all’esportazioni, il suo modello di crescita economica e trasformarlo in una grande debolezza militare. Per fare ciò, gli Stati Uniti dovrebbero attuare un blocco navale della Cina nel tentativo di soffocare la maggior parte del commercio marittimo della Cina. Sotto le giuste condizioni, gli Stati Uniti potrebbero essere in grado di garantire la vittoria debilitando l’economia cinese abbastanza seriamente da portarla al tavolo delle trattative.”

Questa breve premessa, con tanto di citazione, ci permetterà di comprendere meglio riflessioni e sviluppi della diplomazia della Cina popolare che questo mio intervento si propone di delineare sommariamente.

Vorrei partire dal “Forum sulla diplomazia alla periferia” che il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha tenuto il 24-25 ottobre 2013 per elaborare le strategie diplomatiche nel teatro costituito dalle regioni adiacenti alla Cina. Ebbene, cosa ha prodotto questa ristretta e veloce riunione ai massimi livelli? Una pianificazione sul breve e medio termine degli obiettivi della diplomazia di Pechino. Secondo Xinhua è stata l’occasione per “definire e stabilire gli obiettivi strategici, i principi fondamentali, e la configurazione generale del lavoro diplomatico alla periferia per i prossimi 5-10 anni”. Ma, occorre dire che la visione si spinge molto più in là perché la politica estera e la diplomazia cinesi devono sostenere gli obiettivi fissati dalla dirigenza per il 2021 (costruzione di una società mediamente prospera) e per il 2049 (edificazione di una forte, culturalmente avanzata, prospera, democratica e armoniosa modernità socialista).

Sullo svolgimento della riunione – avvenuta a porte chiuse – e sulle indicazioni prodotte si possono fare alcune ipotesi, forti anche delle prese di posizione della Cina sul palcoscenico internazionale e delle dichiarazioni rilasciate in diverse occasioni da Xi Jinping e Li Keqiang.

Di certo c’è l’obiettivo principale (non certo una novità per chi segue la politica estera cinese): il consolidamento dell’influenza cinese in Asia e il sostegno alla politica di ringiovanimento della nazione cinese. Da qui la necessità dello stabilimento di relazioni diplomatiche amichevoli e globali con le potenze regionali. A questo riguardo dobbiamo certo considerare tutt’altro che casuale il fatto che diversi studiosi cinesi abbiano ultimamente sottolineato come, nei prossimi anni, le relazioni con i Paesi vicini godranno di un’attenzione maggiore rispetto a quella con la grande potenza statunitense. Riassumendo, la priorità individuata è quella della costituzione di un ambiente tranquillo nell’Asia Pacifico per sostenere lo sviluppo economico e sociale cinese.

Veniamo ora agli obiettivi in generale e che possono essere catalogati in due macro-scadenze:

1) Fino al 2021: periodo che viene considerato come “di grande opportunità strategica” per l’approfondimento dei legami economici con l’Asia al fine della risoluzione adeguata di dispute territoriali con i Paesi limitrofi;

2) Fino al 2020-2050: è il periodo di realizzazione del “Sogno cinese”, vale a dire della “potente rinascita del popolo cinese”, la “completa unificazione del Paese” e la “guida e la difesa di una regione Asia-Pacifico dal carattere armonioso”. Quindi – diciamolo chiaramente – si progetta l’unificazione di Taiwan e la leadership cinese in Asia (anche se in una cornice di cooperazione). Non ci può essere dubbio a proposito: la volontà di Pechino è quella di ripristinare la vecchia centralità dell’Impero di Mezzo, polo di attrazione insieme politico, culturale ed economico.

Armonia e rapporti internazionali

Occorre, a questo punto, fermarci un attimo e comprendere meglio il concetto di “relazione di carattere armonioso”. 

Nell’analisi della politica internazionale e della diplomazia della Cina popolare devono essere tenuti in considerazione anche i “valori” tradizionali che hanno sostenuto e accompagnato l’edificazione e lo sviluppo del Celeste Impero. Non per pura passione da eruditi, ma perché a quel “patrimonio” fanno continuo riferimento le generazioni che si alternano al potere. Pensiamo al concetto di “armonia” che altro non significa che un equilibrato e corretto coordinamento tra cose anche diverse. L’universo non è costituito da uniformità, ma da differenze che possono – e devono – trovare la via della coesistenza. Lo diceva Confucio: “il sovrano si propone l’armonia, non l’uniformità“. Ebbene, i “Cinque principi della coesistenza pacifica” (rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, mutua non aggressione, non interferenza negli affari interni, uguaglianza e mutuo vantaggio) che dal 1950 guidano l’azione diplomatica di Pechino, non rappresentano forse una ri-edizione di quel valore? A dare risposta affermativa sono stati Jiang Zemin nel 2000 (“Oltre duemila anni fa Confucio ha portato avanti l’idea che il sovrano non si prefigge l’uniformità. Tutte le civiltà del mondo, i sistemi sociali e le vie di sviluppo dovrebbero comunicare e imparare gli uni dagli altri attraverso la competizione pacifica“), e Wen Jiabao nel 2003 (“Armonia senza uniformità è una grande idea degli antichi pensatori cinesi. Significa armonia senza identità e differenza senza conflitti. L’armonia porta alla convivenza e alla co-prosperità“).

Possiamo dire che questo aspetto della tradizione – ideologica e pratica –  del Celeste Impero si è proficuamente incontrato con la prassi antimperialista del Partito comunista cinese, dando vita alla formulazione dei “Cinque principi”, tuttora cardine della politica estera di Pechino. Una concezione dei rapporti internazionali che meglio risponde ad quadro sistemico sempre più multipolare e allo scemare dell’universalismo (e dell’uniformità) presunto del modello economico e politico Occidentale.

La visione di Xi Jinping

Nell’occasione del forum – ricordiamo, una riunione di partito! – cosa ha detto Xi Jinping, attuale segretario del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare? Prima di tutto è stata ribadita la scelta strategica del “percorso dello sviluppo pacifico”  al fine del “consolidamento del controllo sugli interessi fondamentali del Paese che sono la salvaguardia della sovranità della nazione, la sicurezza e gli interessi del suo sviluppo”. Quella delineata dal leader comunista è una strategia globale e onnicomprensiva che abbraccia questioni economiche, politiche, di sicurezza e culturali, finalizzata alla creazione di una “fitta rete di interessi comuni” di modo che la Cina possa possa essere vista dai Paesi limitrofi come un partner che condivide le opportunità di sviluppo. 

Per meglio comprendere questi concetti conviene lasciare la parola al segretario comunista:

La Cina ha bisogno di costruire un rapporto più amichevole con i Paesi vicini, di essere riconosciuta come più solidale e affine, di aumentare il proprio magnetismo e la propria influenza. La Cina ha bisogno di trattare i paesi circostanti con sincerità in modo da avere più amici e partner. La Cina ha bisogno di svolgere la cooperazione con essi sulla base del reciproco vantaggio, creare una rete più fitta di interessi comuni e portare gli interessi convergenti a livelli superiori. […] 

Dobbiamo cercare di approfondire il modello del reciproco vantaggio e del win-win. Dovremo sviluppare percorsi globali di sviluppo economico, commerciale, per le risorse scientifiche e tecnologiche, finanziarie e altro, fare buon uso dei vantaggi comparati per individuare il punto dell’integrazione strategica, approfondire la cooperazione reciprocamente vantaggiosa con i paesi vicini, e partecipare attivamente alla cooperazione economica regionale. Dobbiamo fare sforzi congiunti con i paesi interessati ad accelerare la connettività delle infrastrutture, per costruire una “Cintura economica della Via della seta” e una “Via della seta marittima”. Dobbiamo lavorare per rafforzare l’aspetto pubblico, la diplomazia pubblica, la cultura e gli scambi popolo-popolo con i Paesi vicini […] promuovere gli scambi culturali e amichevoli nel turismo, nella scienza e nell’istruzione. Far conoscere la storia della Cina, diffondere la conoscenza della politica interna e estera cinese, diffondere la sua voce e la consapevolezza di un comune destino”

Si tratta di una indicazione limitata al solo agone asiatico, vale a dire al rapporto con Paesi vicini in bilico tra desiderio di collaborazione  – e condivisione dello sviluppo economico di Pechino – e timori per la crescita della potenza cinese? Certamente no: queste linee d’azione valgono per l’insieme dei rapporti diplomatici, in linea con i principi fondamentali della politica estera cinese, vale a dire la creazione di un ambiente esterno pacifico e il mantenimento di relazioni pacifiche per permettere lo sviluppo economico.

Per questo motivo è divenuto fondamentale a livello globale il concetto di “reti multidimensionali” che caratterizzeranno la scena internazionale e che potranno alimentare rapporti di consenso e comunità di destino tra diverse potenze. La Cina popolare punta, così, al rafforzamento delle sue reti, con particolare riferimento a quelle che non vedono la partecipazione degli Usa (Brics, Sco, Asean).

Di sviluppo pacifico e convergenza di interessi aveva già parlato nel 2012 Zheng Bijian (meglio conosciuto come il padre dell’espressione “ascesa pacifica”) nel delineare la costruzione di comunità di interesse come strategia della diplomazia cinese in un mondo incamminatosi verso un modello di relazioni multipolare. A suo avviso Pechino ha la necessità di allargare gradualmente la convergenza di interessi e di implementare comunità di interessi con i suoi vicini e le regioni circostanti, così come con tutti i paesi e tutte le regioni. Nel suo suo percorso di crescita la Cina “può e deve formare con vari paesi e regioni delle comunità di interessi in diversi settori e a diversi livelli tali da non potere essere facilmente interrotte”.

La pratica della convergenza di interessi

Una volta delineati i principi dell’azione diplomatica cinese, passo alla parte conclusiva del mio intervento trattando alcuni esempi concreti, non limitandomi alla sola Asia-Pacifico.

– Una nuova via della seta

Nel suo viaggio a fine 2013 in Kazakistan, Xi Jinping ha esposto la volontà di dare vita ad una “Cintura economica della via della seta” che riporti a rinnovato splendore quella antica, attraverso il libero transito di merci, l’abbattimento delle barriere doganali, la piena convertibilità delle valute e la modernizzazione delle infrastrutture logistiche. Certo, in quest’area si riflette un interesse primario – direi vitale – della Cina: quello della sicurezza energetica e del rifornimento di petrolio e di gas. La Cina l’anno scorso è risultata il più grande importatore di petrolio al mondo e si calcola che entro il 2020 sarà dipendente per il 70% dall’importazione di oro nero. Questo fatto spinge Pechino – e le sue aziende statali – a vestire sempre più il ruolo di attore globale, anche in contesti come quello Medio Orientale.

Nell’occasione del viaggio in Kazakistan è stato inaugurato un nuovo gasdotto che permetterà di portare gas anche al sud del Paese, mentre nel 2015 entrerà in azione il gasdotto Beineu-Bozoi con un collegamento al Tukmenistan. Inoltre la cinese China National Petrolium Corporation (statale!) è entrata in possesso di una quota pari all’8,33% del giacimento kazako di Kashagan descritto come il più imponente progetto di sviluppo petrolifero al mondo e la più grande scoperta in questo ambito negli ultimi 35 anni.

Gli investimenti cinesi in ambito infrastrutturale sono stati al centro del viaggio in Uzbekistan dove sono stati firmati accordi per il potenziamento delle linee ferroviarie  che collegano Kirghizistan-Uzbekistan e Cina e un progetto di connessione ferroviaria Uzbekistan-Pakistan-Afghanistan. Anche in questo caso, l’Uzbekistan è grande fornitore di gas alla Cina: una nuova conduttura “D” porterà il gas uzbeko alla Cina attraverso il Kirghizistan stesso. Oggi la Cina è il secondo partner commerciale dell’Uzbekistan e, insieme, il più grande investitore nel settore dei trasporti.

Certo, questi progetti apriranno nuovi mercati per le merci cinesi, ma – e qui c’è a mio avviso l’aspetto strategico fondamentale – potrebbero portare nell’area maggiore stabilità e sviluppo, riducendo anche il pericolo dell’estremismo islamico e di una sua crescente infiltrazione nello Xinjiang cinese.

Una politica di diversificazione che sta avendo successo? Pare proprio di sì se a dirlo è anche una fonte che non può certo essere accusata di essere “soft on China” come il Washington Post. Ebbene, in un interessante reportage del settembre scorso sulla crescente influenza cinese nell’area, si legge: “La Cina resta dipendente dal Medio Oriente per nutrire la sue enormi esigenze di petrolio, ma ora vuole diversificare in modo da avere più vicini a casa i fornitori di gas e petrolio. Queste risorse energetiche arrivano da gasdotti terrestri che sono considerati più sicuri delle rotte marittime più vulnerabili dal Medio Oriente”. Il segreto del successo? Lo si può riassumere in questa frase di un esponente politico kazako: “Abbiamo scoperto che la Cina è partner economico più disponibile e che ha più denaro […]. La Cina è in grado di intervenire e fornire prestiti massicci senza imporre vincoli”.

Con il Pakistan sono state recentemente poste le basi di una grande rete autostradale (e ferroviaria, accompagnata da condutture per il trasporto di petrolio e gas) di 2.000 km che collegherebbe il porto di Gwadar con la Xinjiang: anche in questo caso una via terrestre più sicura e uno sbocco di mercato per le province occidentali della Cina e un’occasione per il loro sviluppo.

Tra gli ideologi di questa “marcia verso Ovest” – in cinese Xijin – c’è l’influente professore Wan Jisi con la sua visione di una Cina che non è l’Oriente, ma rappresenta il “centro”, ovvero il punto di contatto tra Oriente e Occidente, punto di congiunzione tra esperienze diverse delle quali occorre fare sintesi. Lo Xinjiang diventa in questa visione una provincia strategica perché costituisce la porta della Cina verso l’estremo occidente europeo. Così scriveva già nel 2011: 

Oggi, l’Asia orientale è ancora di vitale importanza, ma la Cina dovrebbe iniziare a prestare una maggiore attenzione strategica per l’occidente. Il governo centrale sta conducendo il “Programma di sviluppo occidentale” in molte province e regioni occidentali, in particolare in Tibet e nello Xinjiang, da più di un decennio. Ora è più attivo nell’avviare e partecipare a nuovi progetti di sviluppo in Afghanistan, India, Pakistan, Asia centrale, e in tutta la regione del Mar Caspio, e in tutta la strada verso l’Europa. Questa nuova prospettiva occidentale può rimodellare la visione geostrategica della Cina così come il paesaggio eurasiatico.”

2) Europa orientale

E questa marcia verso Ovest ha ormai raggiunto proprio i confini dell’Europa. Alla fine dello scorso novembre si è tenuta a Bucarest la tavola rotonda (1+16) tra Cina e Paesi dell’Europa centrale e orientale, due aree che vedono in crescita gli investimenti di Pechino (di 18 volte dal 2004 ad oggi per un valore di 800 miliardi di dollari). Anche in questa occasione l’impegno promesso dal primo ministro Li Keqiang è stato rivolto ai settori dell’energia e delle infrastrutture (costruzione di una rete ferroviaria che collegherà Ungheria e Serbia), oltre all’apertura di una linea di credito di 10 milioni di dollari e a prospettive di accordi di swap con le rispettive Banche centrali.

Per lo studioso Minghao Zhao l’Europa orientale costituisce la parte estrema della cintura economica della via della Seta e la porta d’accesso alle “terre interne dell’Europa”. E sottolinea inoltre: “il successo della Cintura economica della via della seta avrà notevoli ripercussioni sulla stabilità delle province occidentali cinesi, tra le quali lo Xinjiang”.

3) Asean

Per quanto riguarda invece il teatro più prossimo, quello asiatico, di particolare interesse è il possibile sviluppo che la diplomazia cinese ha delineato sul finire del 2013: entro il 2020 si prospetta che gli scambi tra gli Stati toccheranno la cifra di 1.000 miliardi, dai circa 400 miliardi del 2012. Gli investimenti cinesi sono aumentati di oltre il 50% e nel 2009 la Cina è diventato il più grande partner commerciale dell’Asean. E anche qui l’attenzione è rivolta alla costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità e collegamenti stradali con l’obiettivo di connettere lo Yunnan alla Cambogia, Laos, Vietnam, Birmania, Indonesia e Laos, con progressiva estensione della convertibilità dello yuan negli scambi commerciali. In campo c’è, inoltre, l’ipotesi di costituzione di una Banca di investimenti per le infrastrutture.

4) Sco

Per quanto riguarda invece la Shanghai Cooperation Organization (fondata nel 2001 da Cina , Russia , Kazakistan , Kirghizistan , Tagikistan e Uzbekistan e che conta tra gli osservatori anche India, Iran e Pakistan), Pechino ha avanzato recentemente una proposta in diversi punti per l’approfondimento della cooperazione. Nello specifico si prevede:

– di elevare la cooperazione in materia di sicurezza contro le attività terroristiche a principale area di cooperazione;

– di agganciare i Paesi della Sco nello sviluppo della nuova via della seta, aumentando la interconnessione stradale e delle vie di comunicazione fino alla costruzione di una nuova porta commerciale che colleghi Chongqing-Xinjiang-Europa. Con Pechino pronto a fornire supporto in materia di finanziamenti e tecnologia;

– di eliminare le barriere doganali;

– di creare una Banca di sviluppo della Sco

Per concludere vale la pena ricordare che in questi anni la Cina popolare ha dato vita a 18 zone di libero scambio con 31 Paesi e aree, e ha firmato accordi di libero scambio con 12 Paesi (tra i quali la Svizzera e Islanda) e all’orizzonte si profila quello con l’Australia e la Corea del sud.