“La Cina e la “teoria del magnete”

Spediamo ai compagni di Marx21.it i capitoli 7 e 8 del nostro nuovo libro, “Ipotesi Hong Kong o Armageddon?” che si può scaricare per intero dal sito www.robertosidoli.net. Crediamo che i due capitoli in questione possano essere utili ai comunisti italiani per una migliore comprensione dell’attuale politica estera della Cina (prevalentemente) socialista.

Buona lettura
Roberto Sidoli, Massimo Leoni, Daniele Burgio

China flagsCapitolo settimo
“La Cina e la “teoria del magnete”
– parte prima –

La politica estera della principale potenza economica a livello mondiale, sempre tenendo conto del criterio della parità del potere d’acquisto, si articola su quattro livelli diversi, seppur interconnessi tra loro da analisi, progettualità e pratica politica comune: la Cina (prevalentemente) socialista all’inizio del 2012 ha cristallizzato da lungo tempo, almeno a partire dal 2001/2003, una strategia di lungo termine per i prossimi decenni che ha per oggetto le relazioni interstatali su scala mondiale, ovviamente legata dialetticamente con l’orientamento e la dinamica generale di sviluppo del gigantesco paese asiatico.

Si tratta di una strategia innanzitutto di matrice pacifica, non-egemonica e cooperativa, determinata sia da sincere spinte ideali che da concomitanti e paralleli interessi geopolitici; ma che allo stesso tempo risulta assai ambiziosa e lungimirante, perché tende alla progressiva e pacifica costruzione sia di un nuovo ordine planetario che a facilitare l’avvio di un processo graduale e pacifica di transizione al socialismo su scala mondiale, in forme originali ed innovative rispetto alla precedente (e fallimentare, nell’ultimo periodo) esperienza sovietica, rielaborando creativamente la teoria e pratica politica prodotta via via sulle relazioni internazionali dal movimento comunista fin dal 12 settembre del 1882, con la splendida lettera di Engels a Karl Kautsky sulla possibile/auspicabile dinamica di sviluppo del processo rivoluzionario mondiale (ancora vivo ed operante Marx…).

In ultima analisi, siamo in presenza di un grande disegno che ha per oggetto una sorta di “via economica/pacifica” al socialismo su scala mondiale, sorretta e proposta da una “superpotenza anomala”, in termini di progettualità profondamente diversa da quella sovietica: e soprattutto, per la materia oggetto del presente lavoro, di una strategia di lungo periodo che risulta a nostro avviso perfettamente compatibile con l’“ipotesi Hong Kong” e che anzi non può che averla al suo centro, nel caso di una crisi disastrosa dell’economia e della finanza pubblica degli Stati Uniti.

Ma prima di entrare nel merito, risulta necessario una preventiva chiarificazione sulla natura socioproduttiva della Cina contemporanea, demolendo la tesi (ancora assai diffusa nella sinistra occidentale) che essa sia diventata invece una forma più o meno originale di capitalismo di stato: come si era già notato nel “Il ruggito del dragone”, serve sotto questo profilo uno shock salutare per molti onesti militanti anticapitalisti.

Va subito notato come siano state proprio le autorità politiche statunitensi a riconoscere nei fatti la diversità del sistema socioproduttivo (e sociopolitico) cinese, quando ad esempio il sottosegretario al Tesoro L. Brainard chiese a Pechino nell’estate del 2011 di “smantellare l’insieme di controlli finanziari che tendono a canalizzare credito a basso costo alle imprese statali” cinesi, ponendole a suo avviso in una situazione di vantaggio rispetto alle imprese private, autoctone o straniere; oppure quando il sottosegretario di Stato R. Hormats si lamentò pubblicamente sempre nello stesso periodo, delle “moltitudini di vantaggi” goduti dalle aziende pubbliche cinesi nella loro terra d’origine. ( D. Palmes, “Rise of China state-owned firms rattle U.S. companies”, 17 agosto 2011, in www. Reuters.com).

Inoltre una fonte anticomunista come il quotidiano inglese “The Guardian” ammetteva, il 27 aprile 2011, che non solo “l’economia cinese risulta in gran parte legata allo stato, con il governo che controlla l’insieme del sistema finanziario” e la proprietà (pubblica) delle principali imprese industriali, ma che tale profonda diversità con il reale e contemporaneo capitalismo di stato occidentale, operante dagli Usa all’Italia (= egemonia della finanza privata e dei monopoli privati sul processo produttivo, “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”, “socialismo dei ricchi” in caso di loro crisi, profitti su ampia scala sia delle imprese private del complesso militare-industriale che di quelle collegate agli appalti pubblici, ecc) spiega simultaneamente perché “la Cina sia stata capace di superare” la recessione mondiale” (del 2008-2009) “con una crescita del suo prodotto interno lordo del 9,8” (nel 2010), “nonostante avesse perso circa il 3,7% del suo PIL a causa della caduta globale delle sue esportazioni” verso i disastrati paesi occidentali, espressione ormai chimicamente quasi pura del reale, concreto e non immaginario capitalismo di stato contemporaneo.1

Sono reperibili anche numerose altre testimonianze, di matrice quasi sempre apertamente anticomunista, che attestano la netta prevalenza dei rapporti di produzione collettivistici e della “linea rossa” nella composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese dell’inizio del terzo millennio.

In un rapporto relativo alle 500 principali imprese operanti in Cina nel 2010, rilasciato agli inizi di settembre del 2011, si notava che esse fatturavano nel 2010 più dell’83% del PIL cinese, ed emergeva soprattutto che le imprese di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte statali, avevano un volume d’affari pari a ben l’82,84% del totale: più di quattro quinti del fatturato della “top 500” del 2010 in Cina derivava pertanto da aziende non-capitalistiche, in mano al settore pubblico in tutto o in buona parte.

Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedano “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6.000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno, e in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.

Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010. Un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.

A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…”: pertanto negli ultimi anni si assiste a un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non certo alla sua riduzione. 2

Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile e il settembre di quell’anno, il governo e le autorità locali della provincia dello Shanxi, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza a investitori privati, autoctoni o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.

Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame dal canto suo l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.

Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500” in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari circa a un deludente… 10%, a un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.3

Nella classifica relativa alle 500 imprese più grandi al mondo, pubblicata dalla rivista Fortune nel luglio del 2010, risultano a loro volta presenti 42 imprese della Cina continentale (con esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao): e su queste 42 (a partire dalla statale Sinopec, numero sette per dimensioni su scala planetaria) gigantesche aziende cinesi, risultano essere di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte, addirittura quarantuno società, banche e istituti finanziari compresi.

A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del 2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina” lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento venisse finanziato da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero ben il 70% dell’insieme degli investimenti di capitali in Cina.

Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in Cina”, sempre a giudizio del pubblicista occidentale.4

Quarantatré società statali ai primi quarantatré posti nella “top 500” del 2008, il 70% degli investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei tempi passati”.5

All’interno della Cina contemporanea risaltano ed operano congiuntamente quattro anelli principali, su cui si articola l’egemonia contrastata della “linea rossa” socioproduttiva, costituita dal ruolo determinante svolto dalle aziende/banche statali, dalla proprietà pubblica del suolo cinese, dall’enorme estensione assunta dal settore cooperativo (ivi compreso quello agricolo) e dal “tesorone” pubblico formato dall’enorme massa di monete e titoli esteri in mano all’apparato pubblico cinese.

Ma oltre ai “quattro anelli” sopra descritti, la supremazia (contrastata) del settore socialista nell’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata da numerosi altri strumenti, allo stesso tempo politici ed economici, quali:

  • il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche;

  • il quasi totale monopolio statale del settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni;

  • la presenza di numerose imprese municipalizzate in quasi tutte le città cinesi, aziende possedute e controllate dagli organismi politici locali;

  • la politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze etniche del paese), con i suoi positivi riflessi sia sull’economia che sul processo complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese asiatico;

  • il processo partigiano e unidirezionale di concessione dei prestiti bancari, denunciato non a caso da Dick Morris; essi vengono destinati nella loro grande maggioranza a favore del settore statale e cooperativo, mentre solo per una porzione secondaria vanno alla sfera privata; 6

  • l’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale” riconosciuti persino da studiosi anticomunisti;7

  • il progressivo aumento, negli ultimi dieci anni, della quota del PIL cinese amministrata direttamente dallo stato: percentuale passata dall’11% circa del 1998 fino al 23% del 2007;8

  • il processo, relativamente esteso da parte cinese, di riacquisto dell’intera proprietà di alcune delle joint venture formatesi tra imprese statali e multinazionali, come testimoniato anche da Luigi Vinci (Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico-sociale cinese; 9

  • molte delle principali multinazionali straniere che operano in Cina sono state costrette ad accettare di costruire joint venture alla pari con le aziende statali, per poter operare in terra cinese fuori dalle “zone speciali” economiche: ad esempio la Volkswagen ha creato (fin dal 1984) una joint venture paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc;

  • l’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica, all’interno di imprese apparentemente solo capitalistiche, a volte può ingannare: basti pensare che se la Lenovo, una delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli occhi occidentali rappresenta una compagnia privata, alla fine del febbraio 2008 almeno il 30% delle sue azioni risultava in mano statale;

  • il potere reale di fissare “dall’alto” e per via politica i prezzi di alcuni beni e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina, grano, latte e uova, al fine di combattere l’allora crescente inflazione (misure analoghe vennero prese nel 1996 e 2003);

  • il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, porti, sistema ferroviario e stradale, rete di internet, ricerca scientifica e settore high-tech, ecc;

  • il potere statale di aumentare per legge (e scelta politica) i salari minimi, potere applicato concretamente e più volte nel corso degli ultimi decenni. Ad esempio, l’insospettabile International Herald Tribune (28 dicembre 2010, pag 18) ha ammesso che “il salario minimo crescerà a Pechino del 21% a partire dal 1 gennaio del 2011, “dopo un 20% di incremento avuto appena sei mesi fa” a metà del 2010;

  • il sistema fiscale cinese è basato su delle aliquote fortemente progressive, che vanno dallo zero per i redditi più bassi ad arrivare al 45% per le entrate superiori ai 100.000 yuan mensili, pari a circa 12.000 euro al mese.10
     

La differenza tra la formazione economico-sociale cinese attuale, prevalentemente, di matrice collettivistica, ed i reali, concreti capitalismi monopolistici di stato contemporanei (a partire da quello statunitense, britannico, italiano, ecc.) diventa inoltre ancora più evidente e vistosa se si prende in considerazione un altro importante elemento, economico e socioproduttivo: l’assenza clamorosa di un ruolo significativo dei derivati creditizi nel processo di riproduzione dell’economia cinese, l’assenza del “capitale fittizio” (Marx) investito nel processo di circolazione di opzioni e derivati finanziari in terra cinese. Come si vedrà meglio in seguito, nelle metropoli imperialistiche tale processo di interscambio finanziario fin dal 1990 ha raggiunto proporzioni abnormi, arrivando attualmente a superare per valore (fittizio…) circa dieci volte l’intero Pil mondiale: ma se questo fenomeno risulta da ormai due decenni un elemento chiave all’interno delle economie capitalistiche di stato, a partire da quella statunitense, esso viceversa non gioca praticamente alcun ruolo, non ha praticamente spazio e peso specifico reale in un economia gigantesca come quella cinese che, a partire dal 2009, ha ormai sorpassato quella americana utilizzando il criterio della parità del potere d’acquisto.
 

Un “fatto testardo” (Lenin), da tener ben in conto.
 

Per quanto riguarda invece la progettualità interna, a breve e medio termine, del partito comunista (PCC) e degli apparati statali cinesi, attraverso il 12° piano quinquennale (2011-2016) la direzione del partito ha utilizzato l’occasione/pericolo della grave depressione che dal 2008 colpisce il mondo capitalistico per progettare, e soprattutto mettere in campo un salto di qualità decisivo nel modello di sviluppo di lungo periodo della formazione economico-sociale cinese. Un balzo qualitativo di grande portata che, in estrema sintesi, si articola su tre elementi centrali:
 

  • maggiori consumi popolari, meno risorse destinate all’accumulazione;

  • più alta tecnologia, meno settori a bassa composizione organica del capitale;

  • più energia verde rinnovabile, meno fonti energetiche inquinanti e non rinnovabili.
     

È stata, infatti, elaborata la progettualità/praxis tesa a creare una nuova fase nella dinamica del socialismo in Cina, che coniughi l’aumento ancora più rapido del tenore di vita operaio e contadino con la tutela ambientale e la sostenibilità del processo di sviluppo interno, l’enorme accelerazione dell’utilizzo delle energie rinnovabili con l’innalzamento esponenziale del livello qualitativo della scienza e tecnica cinese, la riduzione progressiva della dipendenza (relativa) dalle esportazioni con la crescita della domanda endogena di beni di consumo accompagnata alla riduzione dell’elevatissimo tasso di risparmio dei lavoratori cinesi, sia urbani che rurali.
 

Il progetto di lungo periodo enucleato dopo il 2007, di portata epocale per la Cina e il mondo intero, ha trovato la sua principale forma di cristallizzazione pratica quando, a metà ottobre del 2010, il Comitato Centrale del PCC ha approvato le linee guida del 12° piano quinquennale, elaborato per il gigantesco paese asiatico ed in vigore dal 2011 al 2015.
 

Il primo elemento importante è che viene riconfermato il ruolo assai significativo svolto dalla pianificazione e dall’intervento politico (sia dal centro che dalle “periferie”, dalle diverse municipalità e regioni) all’interno del processo di riproduzione complessiva dell’economia cinese: il dominio del cosiddetto libero mercato, con le sue presunte “virtù”, i dirigenti del PCC preferiscono giustamente lasciarlo in esclusiva al declinante capitalismo occidentale con i suoi recenti fallimenti economici e crack finanziari generalizzati. In seconda battuta, l’obiettivo finale del dodicesimo piano quinquennale consiste nel raggiungimento di una crescita del 50% in cinque anni, a un ritmo annuale di quasi il 9%, in grado di consentire alla Cina di ottenere nel 2015 un prodotto nazionale lordo pari a 8000 miliardi di dollari, contro i circa 5000 del 2009: si tratta del mezzo indispensabile per avviare uno “sviluppo inclusivo” affinché, come evidenzia il documento del PCC “tutti i cittadini […] possano vivere in una condizione di benessere”. Anche il giornalista anticomunista A. Paglia ha ammesso che il dodicesimo piano “prevede, come d’incanto, lo stop all’inflazione, il taglio delle tasse ai ceti bassi e l’aumento generale degli stipendi. Nel 2011 i salari minimi aumenteranno di un altro 20%, come l’anno scorso, ma con punte del 75% nelle regioni interne. Un operaio passerà da 124 a 146 euro al mese. Nelle città la busta paga media sarà di 2000 euro all’anno, rispetto ai 600 guadagnati nelle zone rurali”.
 

Benessere diffuso e collettivo, dunque, con la centralità attribuita allo sviluppo e alla domanda interna rispetto al settore dell’esportazione collegata ad alcune priorità sociali:
 

  • estendere e migliorare notevolmente il sistema di protezione sociale ed il welfare state cinese, a partire dal settore sanitario e scolastico;

  • incrementare enormemente la produzione per mano pubblica di case a basso prezzo per le masse popolari urbane: è prevista la costruzione di ben 35 milioni di immobili a basso prezzo entro il 2015. Sotto questo profilo, il premier cinese Wen Jiabao ha affermato nell’aprile del 2011 nel rapporto di lavoro del governo che “quest’anno inizieremo la costruzione di dieci milioni di appartamenti derivati dalla ristrutturazione delle case popolari. Vogliamo concentrarci sugli appartamenti pubblici. Il bilancio delle forze centrali ha in programma di versare 10,3 miliardi di RMB come fondi di sovvenzione, incrementati di 26,5 miliardi di RMB rispetto all’anno scorso. I governi a tutti i livelli riceveranno i fondi in diverse forme e aumenteranno sostanzialmente gli investimenti. Dovranno costruire al più presto un sistema amministrativo d’utilizzo dei fondi, case popolari funzionali, aumentare la trasparenza e rafforzare il controllo sociale per garantire che le famiglie che hanno i giusti requisiti possano beneficiare di tutto questo;11

  • continuare nel ritmo di espansione accelerato dei salari, a partire da quelli minimi, che ha già contraddistinto la Cina negli ultimi tre anni: non a caso a Pechino, dal 1° gennaio del 2011, il salario minimo è stato aumentato del 20% in un sol colpo.
     

Il dodicesimo piano quinquennale è diventato ormai una realtà concreta, che produrrà a breve degli effetti giganteschi e benefici sia sulla Cina che nel resto del pianeta. Non è pertanto casuale che persino uno dei simboli del capitalismo finanziario statunitense, JP Morgan, abbia previsto un tasso annuale medio di crescita cinese pari all’8% anche nei prossimi cinque anni, mentre a sua volta il Fondo Monetario Internazionale ha ammesso che la Cina si trasformerà da un’economia basata sull’esportazione a una basata sulla domanda interna, tesi condivisa anche da Goldman Sachs.12
 

I processi d’analisi in via d’esposizione hanno evidenti ricadute anche sulla politica internazionale, in particolar modo escludendo a priori ed in modo inequivocabile che la Cina (prevalentemente) socialista sia diventata una potenza imperialistica.
 

Come si è già sottolineato nel “Ruggito del dragone”, infatti, la teoria che considera la Cina un polo imperialistico, più o meno originale, “si scontra con molti fatti testardi, che la “demoliscono” e falsificano alla radice.
 

Il principale problema che incontra la concezione in oggetto è che i rapporti sociali di produzione e distribuzione nella Cina contemporanea risultano ancora prevalentemente collettivistici, di natura statale o cooperativa, anche se affiancati simultaneamente dalla presenza di un robusto settore capitalistico, nazionale ed internazionale (multinazionali straniere).
 

Senza “dominio dei monopoli e del capitale finanziario” (Lenin), pertanto, sparisce l’imperialismo, o almeno l’imperialismo descritto da Lenin.
 

Senza una base economica e rapporti di produzione prevalentemente capitalistici, non si può certo parlare di imperialismo moderno, che si fonda – sempre Lenin – su una precisa “fase di sviluppo del capitalismo finanziario” (banche private in testa) e del suo processo di accumulazione.
 

E deve essere sottolineato come anche il ricercatore anticomunista Willy Lam, il 14 gennaio 2011, abbia ammesso che nel 2009 il solo giro d’affari delle imprese statali, controllate dallo stato a livello centrale (gli yangqi, in cinese) abbia pesato per ben il 61,7% sull’intero prodotto nazionale lordo cinese del 2009, percentuale equivalente a quasi due terzi della ricchezza prodotta nel gigantesco paese asiatico nell’anno preso in esame.
 

La seconda difficoltà che incontra la tesi della “Cina-polo imperialista” deriva dal fatto che il presunto imperialismo cinese viene invece sfruttato su larga scala (seppur in modo controllato, con precisi limiti e contropartite) e da quasi tre decenni, da parte delle multinazionali occidentali e giapponesi.
 

G. Gattei ha perfettamente ragione quando ha notato che, “come se la profezia di Smith si fosse avverata, aggiungendo finalmente al proprio mercato interno anche il mercato internazionale, la Cina si è trasformata in una vera propria officina del mondo, esportatrice privilegiata di manufatti per il centro imperialistico”.13
 

Ma il compagno Gattei, forse per motivi di spazio, ha dimenticato di analizzare un “fatto testardo ” di notevole importanza, e cioè che quasi il 60% del totale delle esportazioni provenienti dalla Cina e destinate in larga parte ai mercati consumatori occidentali rimane sotto la proprietà ed il controllo delle multinazionali, occidentali e giapponesi, che operano nel paese asiatico: nel 2006 la quota in oggetto risultava pari al 58% del totale del commercio estero cinese.14
 

La Cina è diventata l’“officina del mondo”, ma più della metà dei “manufatti per il centro imperialistico” (Gattei) che essa esporta ogni anno risulta di proprietà proprio del capitalismo estero, in modo che più della metà dei “manufatti esportati annualmente dalla Cina” costituisce una preziosa fonte di profitti per le multinazionali occidentali, dalla Wal-Mart in giù; pertanto ogni anno una consistente massa di plusvalore/plusprodotto/profitti, creati e generati dagli operai assunti dalle multinazionali occidentali che operano nel gigantesco paese asiatico, entra nelle tasche degli azionisti e dei capitalisti occidentali e ne alimenta il processo di accumulazione.
 

Che strano imperialismo, quello cinese! Anzi, che misero imperialismo, che non sa neanche difendere a vantaggio del proprio “capitale” una buona parte della massa di plusvalore via via riprodotta a Pechino, Shanghai e nelle regioni costiere cinesi!15
 

Rimandando al testo citato per trovare altri esempi che falsificano l’equazione Cina=polo imperialistico, si può a questo punto passare al processo di analisi dei quattro livelli interconnessi, di progettualità/praxis che costituiscono la globalità della politica internazionale della Cina contemporanea.
 

La prima “sfera” ha per suoi oggetti principali da un lato la difesa dell’integrità territoriale e sovranità cinese, e dall’altro la ricerca della pace (e della pacifica risoluzione delle tensioni tra nazioni) sia nel continente asiatico che nell’intero pianeta: due elementi basilari ed apparentemente quasi scontati, che tuttavia assumono una visione assai meno banale alla luce dell’esperienza storica vissuta dalla Cina tra il 1840 ed il 2011, come correttamente è stato sottolineato dal “Libro Bianco” sullo sviluppo della Cina, pubblicato dalle autorità cinesi nel settembre del 2011, in un passo in cui si notava che “il popolo cinese ama la pace” anche per “le tremende sofferenze subite da guerra e povertà nei tempi moderni”.16
 

Sul tema dell’integrità e della piena sovranità, intese giustamente come precondizioni e bisogni “alfa”, “minimalisti” ma ipernecessari all’interno della politica cinese, sia internazionale che interna, è stata illuminante la dichiarazione effettuata (tra le tante utilizzabili in questo senso….) dal presidente Hu Jintao il 24 maggio del 2010 durante un vertice tra Cina e Stati Uniti, quando egli sottolinea che “la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale sono diritti fondamentali riconosciuti” su scala mondiale.17
 

La Cina ha subìto proprio negli ultimi due secoli una tragica esperienza storica di violazioni sistematiche e gravissime proprio della sua sovranità ed integrità territoriale, partendo dalla schifosa “guerra dell’oppio” e dalla vergognosa occupazione di porzioni del suolo cinese da parte dell’imperialismo anglofrancese fin dal 1839/42, in una spirale sanguinosa di colonialismo che è continuato (principalmente attraverso l’atroce aggressione giapponese, dal 1931 al 1945) senza soluzione di continuità, fino alla liberatoria vittoria dei comunisti cinesi.
 

Una grande nazione occupata da altri stati per più di un secolo; che vedeva la presenza ingombrante dei marines statunitensi sul suo suolo, ancora nel 1945/47; che osserva alcune influenti lobby statunitensi alimentare ancora oggi le speranze delle forze indipendentiste dell’isola di Taiwan (parte integrante del suolo cinese), non può non avere al centro della sua politica anche il tema – non scontato e fondamentale – della difesa dell’integrità territoriale cinese; esprimendo da un lato una più che legittima rigidità strategica su questo tema, ma allo stesso tempo utilizzando un’intelligente flessibilità tattica sul tema spinoso di Taiwan, accettando l’estesa autonomia de facto (ma escludendo a priori qualunque opzione separatista) che l’isola ha acquisito con il supporto delle navi/baionette di Washington, dopo il 1949.
 

Anche sul cruciale tema della pace il rigetto da parte cinese della guerra, della ricerca dell’egemonia politico-militare e di qualunque ipotesi di esportazione della rivoluzione, come aveva sottolineato l’autorevole Xi Jinping durante una sua visita in Messico di quattro anni fa, è sincero ed appassionato; non solo a causa delle evidenti e disastrose conseguenze di una guerra nucleare (anche “limitata”) su scala mondiale, ben chiare a quasi tutti gli esseri umani con l’eccezione dei più accesi “falchi” del Pentagono e di una parte minoritaria del disastrato movimento trotskista, ma anche perché lo scoppio di un conflitto bellico di dimensione estese, soprattutto se in grado di coinvolgere la Cina, rappresenta la più grande minaccia al lento, molecolare ma continuo processo di “sviluppo pacifico” del gigantesco paese asiatico.
 

Del resto i venti di guerra hanno sfiorato abbastanza da vicino e proprio di recente la pacifica Cina, quando nella primavera del 1999 le bombe “intelligenti” della NATO distrussero “per sbaglio” l’ambasciata cinese di Belgrado, oppure quando un aereo spia statunitense abbatté “per errore” un aereo militare di Pechino poco distante dalle coste cinesi, a fine marzo del 2001; per non parlare poi delle continue esercitazioni militari/navali che le forze armate statunitensi e sudcoreane tengono di frequente, in prossimità delle coste cinesi.
 

Per una serie di fattori combinati, seppur di diversa natura, i dirigenti ed il popolo cinese hanno pertanto come ulteriore “stella polare” della loro politica estera la ricerca della pace, su scala asiatica e globale, e della risoluzione pacifica delle controversie e contraddizioni interstatali.
 

Prova sicura e concreta di tale atteggiamento generale è che, andando via via indietro nel tempo, non è stata certo la Cina a far scoppiare, o anche solo partecipare:
 

  • alla guerra NATO contro la Libia, nel 2011;

  • alla guerra USA contro l’Iraq, nel 2003/2011;

  • alla guerra NATO contro l’Afghanistan, nel 2001/2011;

  • alla guerra Nato contro la Yugoslavia, nel 1999;

  • all’occupazione occidentale della Somalia (1994) e di Haiti, nel 1991;

  • alla guerra NATO contro l’Iraq, nel 1990/91;

  • all’occupazione statunitense di Panama, nel 1989.
     

Sempre sotto questo aspetto va sottolineata l’assenza totale, e non certo casuale, sia di basi militari che di truppe cinesi all’estero, operanti in modo autonomo. L’imperialismo contemporaneo, espressione organica del capitalismo finanziario e delle multinazionali private, è stato contraddistinto fin dal 1945/60 dall’occupazione militare dei paesi extra-europei da parte delle diverse potenze imperialistiche e, dopo il 1945, dalla “basing strategy” messa in campo via via dagli USA, con la progressiva creazione di una rete diversificata ed impressionante di basi militari, soldati e “consiglieri” militari statunitensi sparsi in circa cento paesi del globo, dalla Colombia all’Italia, dall’Arabia alle Azorre, dalla Georgia alla Corea del Sud: basi ed avamposti militari che servono anche a controllare il “territorio economico”, le fonti energetiche e di materie prime, le zone di passaggio degli oleodotti e del traffico internazionale di merci.
 

Ebbene, la Cina non possiede neanche una base militare all’estero, mentre i (pochi) soldati cinesi all’estero operano solo sotto l’egida delle Nazioni Unite: un fenomeno irrilevante?
 

Va anche notato riguardo alla tematica pace/guerra (e al rispetto/violazione della sovranità altrui) che “dopo il 1946 sia gli Stati Uniti che, in modo minore, la Francia e la Gran Bretagna, hanno inoltre spesso utilizzato i mezzi paramilitari e i loro servizi segreti per rovesciare i regimi a loro sgraditi, quasi sempre progressisti ed antimperialisti: si va dal Guatemala di Arbenz (1954) fino al colpo di stato promosso nel Venezuela di Chavez dalla CIA (aprile 2002), con l’appoggio delle forze reazionarie e della borghesia locale. La Cina non ha invece partecipato a questo “gioco sporco”, tipico del moderno Risiko mondiale e della politica neocoloniale espressa dalle potenze imperialistiche dopo il 1945: un altro elemento non irrilevante, specie se collegato all’assenza di basi militari/truppe cinesi all’estero ed alla mancata occupazione da parte di Pechino di nazioni straniere.”18
 

Ma soprattutto va evidenziata “la mancata partecipazione di Pechino alla pluridecennale corsa al riarmo nucleare ed il suo livello relativamente basso di spese militari, a dispetto delle periodiche campagne allarmistiche lanciate in questo campo dal Pentagono e dai mass media occidentali.
 

Oltre a non tenere delle esercitazioni militari provocatorie, come invece spesso effettuano gli USA vicino alle coste cinesi, in Corea e nel Mar Cinese meridionale; oltre a fare in modo che il numero totale dei membri delle forze armate cinesi diminuisse dai circa cinque milioni del 1980 ai 2.300.000 del 2011, la Cina si è dotata solo di un modesto arsenale nucleare, finora forte al massimo di 70 vettori intercontinentali e di 200 testate nucleari in grado di raggiungere il territorio statunitense.19
 

Tale potenziale bellico rimane enormemente inferiore a quello via via accumulato dal 1945 al 1999 sia dagli Stati Uniti, che dall’Unione Sovietica/Russia post-sovietica: l’obiettivo centrale, nella strategia nucleare adottata dalla Cina dopo il 1964, non era del resto quello (dissanguante, autodistruttivo) di raggiungere le due superpotenze militari del globo, ma viceversa di garantirsi un adeguato potere di dissuasione in grado di scoraggiare a priori qualunque possibile aggressore, (Stati Uniti in testa, dopo il 1980/88) e ogni minaccia alla sua sovranità, come affermò esplicitamente il Libro Bianco creato dal Ministero della Difesa cinese nel 2006.
 

Per dare un’idea del rapporto di forze nucleari attualmente esistenti sul nostro pianeta, agli inizi del terzo millennio le circa 200 testate costruite dalla Cina si confrontavano sia con le 4.545 in possesso degli USA, che con le 3.284 testate invece a disposizione della Russia, alla fine del 2006: si tratta di un’asimmetria particolarmente evidente e non priva di significati politici, che ha per oggetto la principale arma distruttiva nell’epoca post-Hiroshima ed un elemento molto importante al fine di distinguere le grandi dalle medie e piccole potenze, almeno sul piano politico-militare e militar-tecnologico.
 

Sul piano militare la Cina non è certo diventata una superpotenza di tipo classico ed il suo potenziale d’urto, seppur non trascurabile, è solo leggermente superiore a quello della Gran Bretagna e Francia: ma allora qualcosa non quadra, nelle opinioni di chi accusa Pechino di egemonismo, non tenendo conto che la Cina fin dal 1964 ha preso solennemente l’impegno – ribadito nell’ottobre del 2010 – a non usare mai per prima le armi nucleari.20
 

Fin dal 1955 e dalla conferenza afroasiatica di Bandung la dirigenza cinese, ben vivo ed operante Mao Zedong, aveva enucleato i cinque principi fondamentali della strategia della coesistenza pacifica tra nazioni con diverso sistema socioproduttivo e politico, e cioè il mutuo rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, la non aggressione, la non interferenza negli affari interni degli Stati, l’eguaglianza, la pacifica coesistenza: principi applicati ancora adesso dalla direzione cinese all’inizio del terzo millennio. Una stella polare che guida ancora oggi la politica estera cinese, tanto che anche analisti anticomunisti hanno notato che “le forze armate cinesi sono oggi del tutto volte al futuro e per loro ogni strategia di aggiramento dei conflitti tradizionali è la benvenuta. Poiché, come spiega Joshua Cooper Ramo, “l’obiettivo della Cina non è provocare un conflitto, ma evitarlo”.21
 

Sotto questo profilo aiuta molto anche la posizione geopolitica relativamente favorevole acquisita attualmente dalla Cina Popolare.
 

Lo spazio territoriale del gigante asiatico risulta infatti pari a 9.572.000 km2, il terzo al mondo dopo Russia e Canada ed il secondo per dimensioni terrestri; La Cina inoltre è posta al centro del continente asiatico e confina direttamente con ben quattordici paesi, dei quali due molto importanti come Russia ed India, mentre è separata da meno di cinquecento chilometri di distese marine dal Giappone e dalla Corea del Sud.
 

All’inizio del 2012 nessuno dei paesi confinanti/semiconfinanti (Giappone e Corea del Sud) dimostra un atteggiamento ostile verso Pechino, anche se le relazioni cinesi con il Vietnam e l’India, seppur relativamente cooperative, non hanno ancora superato del tutto gli strascichi degli scontri del passato, tra il 1959 ed il 1979. In ogni caso la Cina confina direttamente con aree geopolitiche dotate di enormi risorse energetiche e di materie prime, quali la Siberia orientale ed il Kazhakistan, oltre ad avere un accesso assai agevole (privo di stretti controllati da potenze non-amiche, come invece succede alla Russia) all’oceano Pacifico, che mette facilmente in comunicazione Pechino con le coste dell’America occidentale, dall’Alaska fino al Cile.
 

Per quanto riguarda poi le risorse di materie prime e le fonti energetiche, la Cina risulta attualmente al primo posto al mondo per riserve accertate delle strategiche “terre rare”, oltre che per tungsteno, vanadio ed antimonio, mentre il gigante asiatico si trova tra i primi tre paesi al mondo in termini di riserve/produzione di ben 25 delle 40 più importanti materie prime, circa alla pari della Russia in questo settore (carbone, bauxite, ecc).
 

Sul piano energetico risulta poco conosciuto che, a differenza del trend mondiale, le riserve accertate e la produzione cinese di petrolio e gas naturali si rivelino costantemente in aumento, dal 1991 fino all’anno scorso.
 

Per quanto riguarda invece il secondo livello di progettualità-praxis della politica estera cinese, essa si articola sull’utilizzo costante di tre “strumenti magici”, assai efficaci ed inserite in una “grande strategia” di ampio respiro e pluridecennale, e cioè:
 

  • la sopracitata ricerca della pace, su scala regionale e planetaria;

  • la strategia del “win-win”, della cooperazione reciprocamente vantaggiosa ed equilibrata sempre ricercata da Pechino con tutte le altre nazioni, senza alcune eccezioni;

  • la ricerca di un multipolarismo esteso su scala planetaria, con il simultaneo rifiuto di qualunque forma di egemonismo/imperialismo sia di livello regionale che mondiale.
     

Come la (geniale) strategia di guerriglia, elaborata da Mao Zedong, era ben conosciuta dalle forze reazionarie di Chiang Kai-shek, ma senza che tale informazione fosse loro utile per ragioni oggettive, anche le potenze occidentali hanno ben compreso l’importanza strategica, seppur nel medio periodo, delle sovraesposte “bacchette magiche”: senza tuttavia, a loro volta, poter imitare proprio per motivi strutturali tipici ed insiti nelle diverse reti imperialistiche mondiali (a partire da quella statunitense), senza poter mutare la loro stessa natura e trasformarsi da “lupi” in “agnelli”.
 

Si tratta in ogni caso di tre “strumenti magici” adottati su vasta scala dalla Cina fin dal 1978, ben sintetizzate dal geniale Deng Xiaoping nella cosiddetta “Strategia dei 24 Caratteri”.
 

“La prevalenza delle componenti soft su quelle hard risulta evidente nelle indicazioni di Deng Xiaoping sulla politica estera strategica cinese, contenute nella cosiddetta “Strategia dei 24 caratteri”: “osserva con calma; consolida in silenzio le tue posizioni; nascondi le tue capacità; non avere fretta, ma lascia che il tempo lavori a tuo favore; mantieni sempre un basso profilo e non pretendere mai la leadership; dimostra costantemente le tue intenzioni pacifiche; cerca la collaborazione, anziché il confronto con gli altri”.
 

Non si tratta di prescrizioni contingenti, legate ai rapporti di forza del momento. Derivano da una logica profondamente radicata nella cultura cinese. Esse ne spiegano il grande successo”.22
 

Visto che ci si è già soffermati a sufficienza sulla sua strategia pacifica (ma non imbelle né unilateralmente “disarmista”, in un mondo pieno di “lupi”), si può subito focalizzare l’attenzione teorica sulla seconda “bacchetta magica” creata ed utilizzata da Pechino con “grande successo”, come ha ammesso a denti stretti il generale (di sicura fede anticomunista) Carlo Jean: la strategia di cooperazione “win-win”, e cioè reciprocamente vantaggiosa, con tutte le nazioni del globo e particolarmente con il cosiddetto “terzo mondo”.
 

Senza regalie costose e controproducenti, come invece fece l’Unione Sovietica nei confronti di alcuni suoi paesi alleati (Cuba, Vietnam, ecc), la Cina Popolare fin dal 1989/91 ha avviato un processo multilaterale di interscambi commerciali e finanziari con i paesi in via di sviluppo, Africa sub-sahariana in testa. Essa era ed è tuttora imperniata sull’assoluta assenza di ingerenza politica negli affari interni altrui, sul vantaggio reciproco/assenza di sfruttamento in campo produttivo e sul (riuscito) tentativo di favorire in ogni modo un processo di crescita economica sicuro e stabile al loro interno, partendo innanzitutto dalla costruzione in loco delle indispensabili/ancora assenti infrastrutture (strade, ferrovie, telecomunicazioni, dighe, ecc) e servizi sociali (istruzione e sanità), oltre che attraverso un flusso di finanziamenti a tasso quasi zero, con tempi assai lunghi di rimborso, che si collega al periodico, unilaterale annullamento dei crediti vantati da Pechino rispetto alle nazioni più in difficoltà.
 

Prendendo ad esempio l’area geopolitica africana, sul piano commerciale e finanziario, a partire dal novembre 2006, e dal summit cino-africano tenutosi a Pechino, la Cina ha garantito l’eliminazione delle tariffe e dazi doganali per ben 466 categorie di prodotti, esportati al suo interno da più di trenta paesi africani. In aggiunta a ciò, la Cina ha via via cancellato unilateralmente e senza contropartite, dal 2006, tutti i debiti pregressi che si erano accumulati nei suoi confronti da parte di più di trenta paesi del cosiddetto “Quarto Mondo”, in larga parte africani.23
 

Per il 2009, Pechino ha inoltre messo a disposizione dei paesi africani un fondo statale pari a cinque miliardi di dollari per i loro bisogni materiali, a dispetto della crisi finanziaria mondiale e con tassi d’interesse molto favorevoli: non è certo un caso che l’FMI e la Banca Mondiale abbiano visto simultaneamente crollare i loro “affari” in Africa nel corso degli ultimi anni, visto che alcuni paesi africani hanno utilizzato i (favorevoli) finanziamenti statali cinesi proprio al fine di estinguere i debiti accumulati in precedenza, a condizioni economiche molto svantaggiose, con i due “amorevoli” istituti finanziari occidentali.24
 

Tra il 2011 ed il 2013, un totale del 95% dei prodotti di esportazione di tutti i paesi africani meno sviluppati verso Pechino verrà gradualmente esentato dalle imposte, mentre finora le aziende cinesi hanno costruito circa 60.000 km di strade nel continente africano: un rapporto della Banca di Sviluppo dell’Africa ha indicato che, a settembre del 2010, gli investimenti cinesi sono aumentati annualmente ad una media del 46% durante l’ultima decade, in particolare nel settore idrico e dei trasporti, dell’elettricità e delle comunicazioni.25
 

Secondo la stessa Banca Mondiale, mentre a fine 2003 gli investimenti cinesi – in larga parte e fino all’80% statali – risultavano pari a circa 8 miliardi di dollari, essi sono saliti fino a quota trenta alla fine del 2007, con una punta di sette miliardi di dollari nel corso del 2006. Su questa massa totale di investimenti, circa un sesto del totale è andato a finanziare progetti relativi alle infrastrutture produttive (strade, ferrovie, dighe, ecc.) e sociali (scuole ed ospedali), coprendo un “buco” enorme lasciato dalle multinazionali occidentali: secondo i dati forniti dalla stessa Banca Mondiale, Pechino ha finanziato 35 paesi africani per un valore annuo pari ad un miliardo di dollari nei due campi d’azione sopracitati.26
 

A partire dal 2007, la Cina ha offerto inoltre programmi gratuiti di addestramento per 10.910 lavoratori provenienti da 49 nazioni africane, e manderà a sue spese nel solo 2009 cento esperti cinesi del settore agrotecnico in 35 stati africani (Quotidiano del Popolo, 20 gennaio 2009)”.
 

Questa strategia “win-win” ha funzionato assai bene nel passato, e sta operando ancora meglio nel presente, sia in campo economico che politico, creando saldi vincoli e simpatie reciproche tra Cina e paesi in via di sviluppo, tanto che persino un giornalista anticomunista come F. Rampini si è chiesto: “ma sono tutte fondate le accuse rivolte ai cinesi? E anche se lo sono, con quale credibilità l’Occidente si erge a difensore degli interessi dell’Africa?
 

Un test emblematico di queste contraddizioni è il Niger. Anche questo paese –15 milioni di abitanti e uno dei redditi più miseri del pianeta – ha improvvisamente scoperto la munificenza cinese. Grazie a una donazione del governo di Pechino perfino i leoni dello zoo Niamey, capitale del Niger, oggi stanno meglio: nel 2010 gli è stata recapitata da una nave portacontainer di Shanghai una nuova gabbia “cinque stelle”, made in China. Il rifacimento del giardino zoologico è poca cosa in confronto ad altri flussi di capitali cinesi che inondano il Niger. Per esempio, i 700 milioni di dollari per la costruzione della prima raffineria e della prima centrale idroelettrica del Paese. E altre centinaia di milioni di dollari di opere di pubblica utilità che porteranno, come sempre, l’etichetta made in China: strade, scuole, ospedali”.27
 

I risultati positivi di questa strategia sono ormai chiari, tanto che persino uno studioso anticomunista come B. Courmont ha dovuto riconoscere che “nelle opinioni pubbliche africane, la Cina è ben vista”.28
 

Due giornalisti svizzeri, S. Michel e M. Beuret, nel loro saggio “La Chinafrique, Pekin a la conquete du continent noir”, hanno descritto a loro volta efficacemente “le tappe del disastroso fallimento degli occidentali in Africa, specie della BM e dell’FMI, che negli anni ottanta hanno trascinato gli Stati africani in un debito colossale che ha devastato le loro deboli economie. Ci fanno poi capire, senza indugi ideologi e apologetici, il metodo seguito dalla leadership cinese per conquistarsi la fiducia delle élite politiche africane superando la loro atavica barriera di diffidenza: nel momento in cui l’Africa è stata abbandonata come una “zattera alla deriva”, la Cina popolare se n’è fatta carico. La differenza tra i due approcci, quello vetero coloniale e quello cinese, sono impietosamente messi a confronto: prima ancora di risultare sedotti dal modello di sviluppo di Pechino, gli africani si sentono trattati per la prima volta da partners con uguali diritti, e non da popoli barbari subalterni ai poteri forti delle cittadelle bianche d’Occidente.
 

L’ultimo grande balzo africano della Cina è stato quello compiuto nella Repubblica Democratica del Congo. I cinesi sono arrivati a Kinshasa con molta discrezione, senza fanfare e in punta di piedi, pronti ad iniziare subito il ciclopico lavoro di edificazione previsto dai contratti sottoscritti dal governo congolese con le imprese di stato cinesi che si sono impegnate a dotare il paese di strade, di ospedali, di scuole, di ferrovie, di telecomunicazioni, in cambio di materie prime (rame, cobalto, legno tropicale, ecc). Un accordo che prevede investimenti iniziali per 11 miliardi di euro che ha indignato solo gli antichi predatori di Bruxelles, sorpresi che l’ingrato Kabila abbia scelto i nipoti di Mao anziché quelli di Leopoldo I, per costruire una nazione progredita e moderna. I giochi tra il dragone cinese in ascesa e l’imperialismo declinante sono chiusi da tempo in Africa: in Angola, Namibia, Guinea, Sudan, Ciad e altrove i lavoratori cinesi sono al lavoro da parecchi anni. Sono operai e tecnici di prim’ordine, lavorano velocemente e bene, vivono in condizioni spartane desiderosi di inviare alle loro famiglie i loro salari, non miseri ma dieci volte inferiori al costo dei colonizzatori occidentali. Per descrivere l’entità di questa rivoluzione Serge Michel e Michel Beuret sono approdati, innanzitutto in Cina, poi in una quindicina di paesi africani, per tentare di capire quale sia la molla che spinge questa inedita specie di comunisti orientali a “invadere” l’Africa che, a differenza di quelle compiute con la forza dai colonizzatori bianchi, avviene con modalità assolutamente diverse.
 

Nel 2006 Michel e Beuret sono riusciti per il rotto della cuffia ad assistere a Pechino al vertice Cina-Africa, presenti 52 Stati africani, ma al quale non erano stati invitati giornalisti e diplomatici occidentali. Già in quell’occasione si sono resi conto di quanto grande fosse l’operazione di collaborazione Cina-Africa iniziata dai cinesi e condivisa dagli africani, testimoni ammirati di uno sviluppo impensabile fino a pochi anni prima e sempre più intenzionati a condividerne i modelli di sviluppo. In quel vertice Pechino ha presentato all’Africa le armi di cui dispone per sostenere lo sviluppo: sono le risorse valutarie della Bank of China, i tassi di interesse vicino allo zero, l’eccellente livello tecnologico della mano d’opera. Alle quali va aggiunto il dignitoso rispetto con cui sono stati trattati i governi africani, ben diverso dall’ottusa arroganza degli investitori di Wall Street e della City.”29
 

La terza costante ed “arma politica segreta” della strategia internazionale di lungo termine di Pechino ha per oggetto il rifiuto di qualunque forma di egemonismo e di imperialismo, con la derivata scelta di priorità della direzione cinese a favore di un mondo multipolare e che finalmente si liberi, in tempi più o meno rapidi e pacificamente, della rete di sfruttamento imperialistico attualmente esistente nell’arena mondiale. Non è certo casuale che nel “Libro Bianco” sullo sviluppo pacifico della Cina, pubblicato dal governo cinese agli inizi di settembre del 2011, sia stato ribadito e sottolineato con forza che “la Cina non si impegnerà mai in aggressioni o espansioni territoriali, e non cercherà mai l’egemonia”.30
 

Essendo stata forzatamente posta nella (disastrosa) condizione di un paese semicoloniale, venendo sfruttato dalle potenze imperialistiche mondiali per più di un secolo, dal 1840 al 1949, e soprattutto non avendo mai partecipato, dal 1420 fino ai giorni nostri, al sistema di sfruttamento su scala planetaria che tanto ha favorito per lunghi secoli (ed agevola tuttora) il processo di accumulazione capitalistica realizzato dalle potenze occidentali ai danni delle aree geografiche extraeuropee, la Cina (prevalentemente) socialista ha le carte in regola e le necessarie “mani pulite” per richiedere una profonda trasformazione dell’ordine mondiale attualmente esistente, e già si sta muovendo concretamente in questa direzione.
 

Sul fronte pratico e dell’azione tesa concretamente a bloccare l’imperialismo su scala mondiale, il cui fulcro principale dal 1941/45 è costituito dalla potenza statunitense, la Cina, si è opposta in passato e contrasta tuttora la rete imperialistica mondiale innanzitutto sul proprio suolo e nello stesso subcontinente cinese, bloccando con successo dal 1986/89 da decenni le raffinate strategie/praxis degli Stati Uniti: tese sia a portare alla disgregazione della Cina attraverso il sostegno multiforme di Washington alle tendenze indipendentiste (ed anticomuniste) operanti a Taiwan, Hong Kong e soprattutto nel Tibet (Dalai Lama, ecc) e nello Xinjiang, che a rovesciare l’egemonia del partito comunista sul gigantesco paese asiatico (si pensi solo all’incredibile Nobel “per la pace” attribuito nell’inverno del 2010 al “dissidente” filocapitalista e filoimperialista Liu Xiaobo, che era arrivato fino al punto di difendere e legittimare il dominio semicoloniale esercitato dall’Occidente sulla Cina, tra il 1840 ed il 1949).31
 

Inoltre la Cina non è solo riuscita con abilità a scardinare la “politica di contenimento” adottata costantemente nei suoi confronti da Washington in Asia dopo il 1989, in primo luogo creando un solido asse strategico tra Pechino e Mosca (patto di Shanghai, ecc), ma ha anche costruito ed offerto a livello mondiale un forte e crescente “contrappeso” economico a tutti i paesi in via di sviluppo, dato che questi ultimi a partire dal 1998/2002 possono ormai contare sul notevole flusso di aiuti commerciali e di crediti finanziari di Pechino per liberarsi, o almeno diminuire in modo drastico, la loro precedente e disperata dipendenza dall’imperialismo occidentale e dai suoi strumenti operativi, a partire dal vampiresco Fondo Monetario Internazionale.
 

Fatti, non parole di cui è invece piena la bocca di gran parte della sinistra “antagonista” occidentale…
 

Ma anche a livello teorico “la terza arma politica” della Cina è stata presentata apertamente già alla fine di novembre del 2009, quando il compagno Hu Jintao – segretario generale del PCC – ha esposto un nuovo lavoro collettivo di approfondimento del partito, e cioè la teoria dei “profondi cambiamenti” in materia di politica internazionale contemporanea.
 

Innanzitutto Hu Jintao “ha premesso che il mondo contemporaneo sta affrontando cambiamenti storici senza precedenti” e che pertanto in modo dialettico “il nostro tempo è pieno sia di opportunità, che di sfide”, di pericoli: pertanto, a suo avviso, è necessario sviluppare il pensiero strategico dei comunisti cinesi con una serie di “punti fondamentali” che corrispondono alle tendenze/controtendenze fondamentali formatesi all’inizio del XXI secolo, rispondendo a tutti i problemi contemporanei e portando il PCC in posizione di testa nel nostro tempo.
 

Primo punto, la situazione internazionale, secondo Hu Jintao, sta continuando a cambiare in modo profondo ed omnicomprensivo con il declino delle tendenze unipolari ed egemoniche (si legga, a nostro avviso, imperialismo statunitense), in un quadro generale nel quale la prospettiva del multipolarismo su scala planetaria sta diventando sempre più reale.
 

In secondo luogo, l’ascesa di alcuni dei più grandi paesi del mondo in via di sviluppo, a partire dalla Cina e dall’India, sta diventando un trend molto importante all’interno dell’arena internazionale: analisi a nostro avviso corretta, che tra l’altro conferma una previsione contenuta nell’ultimo libro di Lenin (“Meglio meno, ma meglio” del marzo 1923) sull’Asia.
 

Ma, terzo nodo fondamentale, la posizione di superiorità detenuta dai paesi sviluppati (USA, Europa di Maastricht, Giappone) in termini di potenza globale e competenze/conoscenze non è ancora cambiata: questi ultimi stanno facendo del loro meglio, secondo il corretto giudizio del PCC, per mantenere ed espandere il “vecchio ordine mondiale” che è favorevole per loro, e cercano di tutelare i loro principali interessi politici ed economici “con ogni mezzo possibile”: in sintesi, essi svolgono ancora un ruolo molto importante nella politica internazionale, non certo positivo.
 

La parola e la categoria di imperialismo aleggia nell’aria, anche se non è pronunciata apertamente…
 

Quarto punto fondamentale: a giudizio di Hu Jintao, la scienza e la tecnologia stanno diventando il principale fattore e forza motrice nella promozione del progresso su scala mondiale.
 

Non solo la scienza e la tecnologia contemporanea stanno compiendo dei passi in avanti “stupefacenti” (ignorati da larga parte della sinistra antagonista) e producendo un aumento enorme della produttività mondiale, ma stanno anche determinando un impatto importante nel campo della politica, della cultura e dei rapporti di forza militare, sempre secondo il documento del PCC.
 

Sotto tutti questi aspetti e campi d’azione, oltre che naturalmente sotto quello economico, l’alta tecnologia di tipo strategico (supercomputer, nuove fonti energetiche, ricerca spaziale, telecomunicazioni, biotecnologie ed ingegneria genetica, nanotecnologie, ecc.) secondo il PCC sta diventando non solo il fattore determinante nello sviluppo economico e sociale, ma anche e soprattutto “il punto focale” nella competizione relativa alla potenza globale ed ai rapporti di forza su scala internazionale.
 

In forma creativa, si riprende la tesi di Lenin sull’importanza del successo nello sviluppo della produttività sociale per l’affermazione/sconfitta dei diversi sistemi socioeconomici, capitalismo e socialismo in testa (“la grande iniziativa”, giugno 1919).
 

Quinto nodo centrale: se la tendenza verso un mondo multipolare è irreversibile anche sul piano politico-internazionale, a giudizio del PCC anche “l’egemonismo” (si legga imperialismo statunitense) e le “politiche di potenze vedono nuovi sviluppi e nuovi modi di manifestazione”. Un’allusione all’amministrazione Obama, neanche tanto velata? Crediamo che la risposta sia positiva.
 

Non a caso, aggiunge Hu Jintao rispetto al rapporto di forze globali su scala internazionale, un modello di base che descrive un “forte nord del pianeta ed un debole sud, un forte Ovest ed un debole Oriente” è presentato su vasta scala ed in tutto il mondo: pertanto la polarità dialettica tra tendenze multipolari e controtendenze egemoniste viene indicata come uno degli assi della dinamica politico-sociale internazionale del Ventunesimo secolo.
 

Sesto punto: se da un lato il progresso tecnologico e scientifico, che riguarda anche e soprattutto il settore economico-cognitivo e quello delle informazioni, è inarrestabile, anche in questo settore gran parte del mondo in via di sviluppo è posta forzatamente in una “posizione sfavorevole”, con un grande handicap rispetto ai paesi del nord del pianeta.
 

Inoltre il rispetto reciproco tra le diverse culture e civiltà mondiali si sta affermando, “i paesi occidentali stanno intensificando l’esportazione delle loro ideologie, sistemi sociali e modelli di sviluppo”, oltre a istigare “tuttii generi possibili di rivoluzioni colorate”.

Un ulteriore problema è che se da un lato la tendenza alla pace ed allo sviluppo sta prendendo sempre più piede nelle relazioni internazionali, “i conflitti e le guerre locali non si fermano”, mentre certi “temi caldi”(allusione evidente a Palestina, Iraq/Afghanistan, ecc.) non possono “rimanere ancora irrisolti per lungo tempo”.32
 

Secondo il PCC, in altri termini, permane in sostanza la popolarità dialettica tra pace e guerra anche all’inizio del terzo millennio.
 

In estrema sintesi, siamo in presenza di tre “bacchette magiche” che la Cina utilizza costantemente e con successo sull’arena internazionale da alcuni decenni, provocando l’invidia impotente degli stati imperialisti.
 

Pertanto B. Courmont è stato costretto a riconoscere che “oggi, mentre altre potenze sperano di prevalere nella lotta per la supremazia mondiale, con il rischio di subire dure critiche da parte dell’opinione pubblica, la Cina si accontenta di rimanere in secondo piano e restare saggiamente nell’ombra ad attendere il suo momento di riscossa. La chiave del successo della crescita cinese si troverebbe quindi, più che altro, nella sua capacità di non disperdere le proprie forze. La strategia adottata finora funziona a meraviglia e permette a Pechino di farsi spazio in maniera morbida. Alla luce dei fatti il rischio maggiore di fallimento della Cina e nel caso in cui i suoi dirigenti scegliessero d’adottare un altro profilo.
 

Il politologo americano Kenneth Waltz stimava, nel 2000, che “la Cina diverrà una grande Potenza senza l’uso della forza fintanto che essa resterà politicamente unita e forte”. Una profezia visibilmente assimilata da Pechino, fino ad oggi perlomeno.”33
 

Tuttavia sorprese ancora maggiori emergono dal processo di analisi di un livello più avanzato della politica estera cinese.


Capitolo Ottavo
Cina e politica internazionale: la teoria del magnete -parte seconda-

La terza sfera della strategia internazionale di Pechino è segnato dalla teoria (engelsiana/leninista) “del magnete”, la quale a sua volta orienta la particolare (e pacifica) tendenza cinese alla massimizzazione del possibile ed all’accumulazione progressiva di potenza da parte cinese su scala regionale e planetaria, il suo “sviluppo pacifico” (heping fazan) nell’arena internazionale.

Nel settembre del 1882, attraverso una lettera a Karl Kautsky, il grande comunista F. Engels delineò un possibile (ed auspicabile, desiderabile) esito del processo rivoluzionario mondiale notando che, a suo parere, dopo una rivoluzione europea le colonie “occupate da popolazione europea, Canada, il Capo” (Sudafrica) e “Australia diventeranno indipendenti; dall’altro lato le nazioni con popolazione nativa, che sono semplicemente soggiogate, India, Algeria, i possedimenti olandesi, portoghesi e spagnoli, devono essere controllate per qualche tempo dal proletariato e condotti il più rapidamente possibile verso l’indipendenza. Come questo processo si svilupperà è difficile a dirsi. Forse l’India, veramente con tutta probabilità, produrrà una rivoluzione, e dato che il proletariato che sta emancipandosi non può condurre alcuna guerra coloniale, a ciò dovrebbe essere data piena libertà d’azione; tale processo non si svolgerà senza tutta una serie di distruzioni, ovviamente, ma questa sorte di avvenimenti sono indispensabili da tutte le rivoluzioni. Lo stesso potrebbe accadere anche in altri posti, ad esempio in Algeria ed Egitto, e tutto ciò sarebbe certamente la migliore cosa per noi” (per i rivoluzionari europei). “Noi avremo già abbastanza da fare a casa nostra. Una volta che l’Europa si sia riorganizzata, come il Nord America, tutto ciò fornirà un tale gigantesco potere e un tale esempio” (positivo) “che le nazioni semicivilizzate ci seguiranno sull’onda di un loro personale accordo… Una sola cosa è certa: il proletariato vittorioso non può costringere ad accettare doni di alcun genere a qualunque nazione straniera, senza minare la sua stessa vittoria nel far ciò. La qual cosa, ovviamente, in nessun caso esclude guerre difensive di vario genere”.34

Ipotizzando una rivoluzione socialista in Europa (opzione che purtroppo non si sarebbe verificata, almeno fino al 2011), Engels delineò un piano d’azione per i dirigenti dell’Europa socialista verso il resto del mondo, già allora sottoposto in gran parte al dominio coloniale/semicoloniale dell’occidente. I cardini della strategia planetaria engelsiana risultavano:
 

  • la concessione dell’indipendenza ai popoli coloniali, seppur auspicando (erroneamente) un periodo di transizione verso tale obiettivo;

  • la coesistenza tra Europa/USA socialisti e paesi ex-coloniali, arrivati all’indipendenza ma invece ancora legati a rapporti di produzione classisti (capitalistici e/o feudali, a secondo del loro grado di sviluppo socioproduttivo);

  • il rifiuto categorico dell’“esportazione della rivoluzione” da parte della “rossa” Europa rivoluzionaria verso le nazioni ex-coloniali, ancora di matrice classista (il proletariato vittorioso non potrebbe farlo “senza minare la sua stessa vittoria”, rilevò con decisione Engels);

  • soprattutto e principalmente, la previsione che la “riorganizzazione” collettivistica dell’Europa/Nord America avrebbe fornito dei risultati tanto positivi da costituire, in tempi rapidi, un gigantesco magnete per tutte le altre nazioni del pianeta, tanto forte da attrarre spontaneamente e senza alcuna costrizione verso il socialismo il resto del pianeta.
     

La lettera di Engels è assai importante, visto che siamo in presenza della prima (embrionale) riflessione teorica di alto livello su quello che verrà in seguito definito come “soft power” in campo internazionale. Ben conosciuta da Lenin, che commentò proprio tale lettera a Kautsky nel suo geniale lavoro sull’imperialismo del 1916, la “teoria del magnete” (= esempio attrattivo dei successi economici delle nazioni socialiste verso gli stati ancora di matrice capitalistica) ed il suo derivato rigetto dell’esportazione della rivoluzione venne ripresa in modo creativo proprio dal geniale rivoluzionario russo, almeno a partire dal maggio del 1921.
 

A dispetto della disastrosa situazione economico-sociale in cui si trovava allora la Russia sovietica, dopo la vittoria dei bolscevichi sulle forze controrivoluzionarie interne ed internazionali, Lenin a partire dal marzo del 1921 e dalla sconfitta della sommossa anticomunista di Kronstadt riuscì infatti non solo a lanciare con successo la NEP (Nuova Politica Economica, che introdusse la libertà d’impresa per i contadini) ed a stipulare il primo accordo commerciale-diplomatico del paese sovietico con la Gran Bretagna, ma iniziò ad elaborare la strategia del “socialismo in un solo paese”: abbandonando allo stesso tempo qualunque precedente opzione tesa all’esportazione della rivoluzione, su scala europea/mondiale, oltre a gran parte delle passate speranze bolsceviche in un’ondata rivoluzionaria all’interno del mondo occidentale che scoppiasse nel medio-breve periodo (a differenza che per l’Asia, dove invece la “pentola” era in via di ebollizione).
 

Nel nuovo disegno globale elaborato da Lenin, proprio la competizione produttiva tra socialismo sovietico (deformato) ed imperialismo avrebbe svolto un ruolo centrale, vista la convinzione del grande rivoluzionario russo che il paese dei soviet sarebbe stato via via in grado, come un magnete attrattivo, di far vincere “su scala internazionale in modo certo e definitivo” (Lenin) il processo rivoluzionario mondiale, attraverso “la nostra politica economica” (sempre Lenin) e con la risoluzione del “problema” (sempre Lenin) dell’“edificazione economica”, attraverso una politica che doveva “durare molti anni” (Lenin).
 

Nel suo discorso del 28 maggio 1921, alla decima conferenza panrussa del partito bolscevico, Lenin lanciò pubblicamente la “teoria del magnete” (pacifico-economico) notando innanzitutto che “certo, quando tracciamo una politica che deve durare per molti anni, non dimentichiamo neppure per un momento che la rivoluzione internazionale, il ritmo e le condizioni del suo sviluppo possono cambiare ogni cosa. Attualmente la situazione internazionale è tale che si è stabilito un certo equilibrio, che è temporaneo, instabile, ma è tuttavia un equilibrio, ed è un equilibrio di questo tipo: le potenze imperialistiche, nonostante tutto il loro odio e il loro desiderio di scagliarsi contro la Russia Sovietica, hanno rinunziato a questa idea perché la disgregazione del mondo capitalistico progredisce, la sua unità continua a diminuire, mentre la pressione esercitata dai popoli coloniali oppressi, che contano più di un miliardo di abitanti, diventa più forte di anno in anno, di mese in mese, di settimana in settimana. Ma non possiamo far congetture a questo proposito. Attualmente esercitiamo la nostra influenza sulla rivoluzione internazionale soprattutto con la nostra politica economica. Tutti guardano alla Repubblica sovietica russa, tutti i lavoratori in tutti i paesi del mondo, senza alcuna eccezione e senza alcuna esagerazione. Questo risultato è stato raggiunto. I capitalisti non possono tacere e nascondere nulla; perciò essi sfruttano soprattutto i nostri errori economici e la nostra debolezza. Su questo terreno la lotta è stata portata su scala mondiale. Risolviamo questo problema, e avremo vinto su scala internazionale in modo certo e definitivo. Perciò i problemi dell’edificazione economica assumono per noi un’importanza veramente eccezionale. Dobbiamo riportare la vittoria su questo fronte con un progresso e un’avanzata lenta, graduale (non può essere rapida), ma incessante. E mi sembra che, a conclusione dei lavori della nostra conferenza, abbiamo, in ogni caso, raggiunto certamente questo scopo”.35
 

Fin dal marzo/maggio del 1921, Lenin si era pertanto convinto che i comunisti russi avrebbero esercitato la loro “influenza sulla rivoluzione internazionale soprattutto con la nostra politica economica”, e che essa a sua volta avrebbe potuto “riportare la vittoria“ grazie a “un progresso e un’avanzata” lenta ma incessante, capace di attrarre ed entusiasmare “tutti i lavoratori in tutti i paesi del mondo”: un pacifico magnete, in estrema sintesi capace di produrre “soft power” su scala mai vista in precedenza rispetto al campo imperialista ed alle nazioni da esso sfruttate.
 

Teoria e pratica ripresa in modo creativo anche dal geniale Deng Xiaoping, che fin dal marzo del 1975 aveva previsto per la Cina che «la nostra economia dovrà espandersi in due fasi. Nella prima verranno creati entro il 1980 un sistema industriale e un’economia nazionale indipendenti e relativamente completi. Nella seconda, la Cina sarà trasformata, entro la fine del XX secolo, e cioè entro i prossimi venticinque anni, in una potenza socialista con una moderna agricoltura, industria, difesa nazionale, scienza e tecnologia. L’intero Partito e l’intero Paese dovranno impegnarsi per raggiungere questo superbo obiettivo. È una questione di primaria importanza…»36
 

Deng sapeva benissimo che, in una nazione e con una popolazione superiore di più di quattro volte rispetto a quella statunitense, il raggiungimento di un veloce e costante tasso di crescita (attorno all’8% annuo) nell’economia del paese avrebbe portato inevitabilmente la Cina a raggiungere prima, e poi superare gli USA, per massa globale di forze produttive e di ricchezza reale nel giro di alcuni decenni, anche rimanendo molto al di sotto rispetto al gigante americano in termini di reddito e produttività pro-capite: i numeri erano e sono tuttora dalla parte della Cina, seppur solo nel medio-lungo periodo e a patto di riuscire a conservare sia la stabilità politico-sociale interna che una continua riproduzione allargata del processo produttivo del paese.
 

Ancora nell’aprile del 1987, Deng sottolineò il valore attrattivo ed il fascino esercitabile sulle masse popolari di tutto il mondo da parte di un “socialismo che sia superiore al capitalismo”, rilevando che “durante la rivoluzione culturale la “banda dei quattro” lanciò slogan assurdi quali “meglio essere poveri sotto il socialismo e comunismo che essere ricchi sotto il capitalismo”.Ma come si può esigere di essere poveri sotto il socialismo ed il comunismo?… Così, per costruire il socialismo è necessario sviluppare le forze produttive. Povertà non è socialismo. Per sostenere il socialismo, un socialismo che sia superiore al capitalismo, rappresenta un imperativo in primo luogo e soprattutto eliminare la povertà”.37
 

Basandosi su questa prospettiva generale oltre che sui due livelli di articolazione della politica estera cinese sopra descritti, i nuclei dirigenti del partito comunista cinese a partire dal 2001/2002 hanno elaborato e messo in pratica una raffinata strategia di “sviluppo pacifico”, una particolare e brillante variante di quella tendenza alla massimizzazione del possibile che opera costantemente, seppur in modo proteiforme, all’interno dell’arena internazionale: siamo pertanto in presenza di un geniale e pacifico “approccio strategico che dà priorità al lungo termine rispetto al breve periodo, alla modifica progressiva e paziente del contesto, anziché all’attacco diretto per causare danni all’avversario, all’accumulazione di piccoli vantaggi competitivi, che modificano nel modo più economico e meno rischioso i rapporti di potenza fra due avversari”.38
 

Il terzo livello dell’attuale politica internazionale cinese viene costituito da un mosaico combinato di “pezzi” diversi di progettualità/praxis, tra cui emerge in primo luogo la promozione del pacifico processo di ascesa economica della Cina ed il simultaneo, cooperativo e non-violento utilizzo mirato/selettivo di tale dinamica di sviluppo all’interno delle relazioni internazionali.
 

I fatti testardi dimostrano come, a parità di potere d’acquisto, la Cina (prevalentemente) socialista sia ormai diventata dal 2009/2010 la prima potenza economica mondiale scavalcando gli Stati Uniti, e quasi allo stesso tempo il principale creditore del declinante imperialismo statunitense. E tali “jolly” costituiscono infatti delle carte vincenti su scala internazionale, facendo in modo che i dirigenti di Pechino intendano sia aumentare il peso specifico cinese nel corso del decennio in corso (il Conference Board americano prevede che il Pil reale del gigante asiatico supererà di più del 50% quello americano, alla fine del 2010), che far valere la ricaduta politica dei nuovi rapporti di forza mondiali, al cui interno gioca un ruolo centrale dal 1945/57 proprio il campo di potenza produttivo, come si è già sottolineato in precedenza.
 

Lo sviluppo pacifico della Cina sulla scena interstatale si basa proprio sulla riproduzione allargata della sua potenza produttiva e sul derivato allargamento progressivo della sua superiorità economica sulla ex-superpotenza statunitense. Attraverso tale strategia di progressivo incremento del suo vantaggio relativo rispetto agli Stati Uniti ed al resto del mondo occidentale, in termini di massa globale di potenziale economico-finanziario (il “tesorone” statale cinese potrebbe facilmente raggiungere l’enorme massa di 4.000 miliardi di dollari già alla fine del 2015…), la Cina punta ad ottenere nel decennio in corso un triplice risultato positivo, e cioè:
 

  • l’aumento graduale del suo contropotere di pressione rispetto alla superpotenza militare degli Stati Uniti;

  • l’incremento graduale del suo potere relativo di condizionamento (oggettivo, prima ancora che soggettivo) sull’economia/finanza internazionale, e quindi almeno in parte sulla politica mondiale;

  • l’ascesa graduale del suo potere attrattivo e di “seduzione”, grazie alla combinazione di successi economici e del peso specifico in campo produttivo, sulle masse popolari e nuclei dirigenti politici del cosiddetto Terzo Mondo in una prima fase, ed in seguito dello stesso mondo occidentale in via di (più o meno rapido) declino.
     

Anche se in forma originale, si tratta del “magnete pacifico” immaginato e previsto da Engels, oltre che da Lenin del 1921 e da Deng Xiaoping fin dal 1975. Un “magnete” capace di attrarre simpatie mondiali al socialismo cinese sia in campo economico e politico, seppur per vie diverse e con un impatto diversificato nelle diverse aree geopolitiche del pianeta, sicuramente di livello più intenso e ravvicinato nel tempo nei paesi in via di sviluppo: non è certo un caso che l’importante teorico cinese Zheng Yongnian abbia notato, fin dal 2003/2005, che attualmente l’economia è il mezzo principale per l’ascesa pacifica della Cina in campo internazionale.39
 

Sta maturando una vera e propria “rivoluzione” (pacifica) “per il resto del mondo”, come ha ammesso persino B. Courmont nel suo saggio, seppur sbagliando in modo assai grossolano sul raggio (gigantesco e planetario) d’azione e nei tempi di attuazione dell’“avvio per le relazioni internazionali di una nuova era”, secondo i termini usati dal politologo francese, mentre sta emergendo una strategia (pacifica e graduale) di massimizzazione del possibile che da tempo prende “in contropiede” l’imperialismo militarista degli Stati Uniti.
 

Persino l’anticomunista Courmont è stato infatti costretto a riconoscere, seppur deformando in parte la progettualità/pratica dei comunisti cinesi, che “ i superlativi non mancano per qualificare il miracolo cinese, che la crisi asiatica del 1997 non ha rallentato e che la recessione economica attuale non sembra colpire così profondamente come accade invece alle Potenze occidentali.
 

La Cina stessa potrebbe approfittare di questa congiuntura per rinforzare il suo status sulla scena internazionale e diventare ancora più grande.
 

Un numero sempre più crescente di osservatori cinesi, provenienti anche dagli ambienti militari, raccomanda di accordare la priorità allo sviluppo dell’economia e delle strategie d’influenza di Pechino, tenendo in particolare considerazione la diaspora.
 

Così prendendo in contropiede lo sviluppo militare degli Stati Uniti, la Cina sembra orientarsi principalmente verso lo sviluppo di altri settori, senza tuttavia rinunciare alle sue ambizioni territoriali, che per ora sono soltanto regionali e si esprimono quasi esclusivamente privilegiando le questioni economiche e commerciali e oggi culturali”.40
 

Un “contropiede” che sta avendo un notevole successo e che si collega strettamente al secondo “pezzo” del mosaico della strategia di massimizzazione del possibile adottate dalla dirigenza cinese su scala internazionale (sempre con evidenti connessioni con la sfera d’azione interna del gigantesco paese asiatico), avente per oggetto la progressiva acquisizione durante il decennio in corso anche della superiorità tecnologica-civile (ivi compreso il settore spaziale) rispetto all’attuale “numero uno” mondiale, gli Stati Uniti.
 

All’inizio del 2012 la Cina doveva registrare ancora un certo gap nello sviluppo tecnologico non-militare rispetto agli Stati Uniti, ma esso risultava da tempo in via di rapida diminuzione lasciando presagire un nuovo “sorpasso” di Pechino anche in questo settore ed in tempi relativamente rapidi, rispetto al vecchio primatista americano. Infatti “secondo uno studio dell’autorevole Royal Society britannica, pubblicato nel marzo del 2011 la Cina supererà gli Stati Uniti in campo scientifico verso il 2013.
 

Un analisi sulle ricerche pubblicate, una delle misure chiave per misurare il livello di progresso e di produzione scientifica delle diverse nazioni, ha mostrato infatti che nel 1996 gli USA avevano pubblicato 292.513 ricerche scientifiche, ben dieci volte più della Cina Popolare ferma a 25474 studi pubblicati.
 

Ma già nel 2008 la situazione risultava profondamente cambiata. Se le ricerche pubblicate negli Stati Uniti avevano raggiunto in quell’anno 316317, quelle cinesi erano aumentate di ben sette volte raggiungendo quota 184.080, permettendo già in quell’anno alla Cina il sorpasso sulla Gran Bretagna e l’acquisizione della posizione di “numero due” su scala planetaria in un settore strategico per il processo produttivo globale: e la dinamica sta continuando in questi ultimi tre anni, tanto da far prevedere all’istituto britannico l’acquisizione del primato mondiale da parte della Cina ed il suo sorpasso sugli USA entro il 2013, in quello che essi reputano un importante “barometro della capacità di un paese di competere sulla scena mondiale”.
 

Non è un risultato che cade dal cielo, ma il sottoprodotto del fatto che la spesa totale cinese per la ricerca scientifica è cresciuta ogni anno di ben il 20% dal 1999 fino ad oggi, e che già nel solo 2006, si erano laureati nelle università cinesi addirittura un milione e mezzo di studenti in facoltà scientifiche e di ingegneria, più di tutti gli abitanti di Milano”.41
 

Dopo il fallimento sostanziale del progetto Shuttle, chiuso per i suoi costi eccessivi nel corso del 2011, la Cina ha già scavalcato gli Stati Uniti nel livello di sviluppo spaziale che, come ha tristemente ricordato lo stesso direttore della NASA, permetterà fino dal prossimo decennio a Pechino di raggiungere risultati (missioni automatizzate ed umane sulla Luna, sonde su Marte, ecc) attualmente fuori dalle capacità economiche della declinante potenza americana.
 

Con il dodicesimo piano quinquennale 2011/2015, inoltre, la Cina ha ben focalizzato l’attenzione sul progresso scientifico-tecnologico selezionando nove settori chiave al suo interno: energie alternative, nuovi materiali, tecnologie informatiche, biologia e medicina, protezione ambientale, aerospaziale, navale, industrie avanzate e servizi hi-tech, nei quali verrà iniettato un flusso di risorse di enormi dimensioni. In tal modo l’“economia verde” diventa il futuro prossimo della Cina (prevalentemente) socialista e non certo dello squallido, declinante ed antipopolare capitalismo di stato mondiale.42
 

L’impatto complessivo del processo di scavalcamento tecnologico della Cina sugli Stati Uniti, sia in termini produttivi che di acquisizione di consenso/fascino sul piano internazionale, non risulterà molto inferiore a quello già operato con il sorpasso avvenuto nel campo del prodotto interno lordo, sempre tenendo conto del criterio di parità del potere d’acquisto.
 

Terzo segmento del mosaico “massimizzante” della politica estera cinese, il processo di costruzione e continuo allargamento di una rete concentrica di alleanze internazionali le quali, seppur con diverso valore e peso specifico, servono sia per accrescere in modo pacifico l’influenza cinese nel mondo che ad isolare il suo avversario principale di fase, gli Stati Uniti.
 

In modo ipersintetico, si può osservare che il principale cerchio concentrico delle relazioni speciali internazionali intessute da Pechino negli ultimi quindici anni è costituito dall’alleanza strategica ormai consolidata con la Russia ed altre importanti nazioni dell’Asia centrale: essa trova la sua espressione più sensibile nel “Patto di Shanghai”, basato sia su ragioni geopolitiche che energetiche, visto il flusso enorme di petrolio e gas naturale che dalla Siberia e dall’Asia centrale si sta già ora riversando nell’area cinese, creando una sorta di “geopolitica delle pipeline” fuori del controllo statunitense e che va dal Turkmenistan fino a Shanghai”.43
 

Il Patto di Shanghai, “stipulato nel 1996 tra Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, ha dato vita ad un’organizzazione i cui scopi, allo stesso tempo limitati e difensivi, sono riconosciuti come pacifici dalla grande maggioranza degli studiosi di politica internazionale: non è stato certamente tale alleanza ad invadere l’Afghanistan 2001/2011 o l’Iraq nel 2003, mentre invece il carattere cooperativo, pacifico ed egualitario del Patto di Shanghai ha provocato l’adesione ad esso, a titolo di paesi osservatori, di nazioni come l’India, il Pakistan, l’Iran e la Mongolia”.44
 

Il secondo anello di alleanze internazionali di Pechino ha per oggetto il resto del gigantesco continente asiatico, puntando ad avviare a relazioni armoniose e cooperative con tutti i paesi dell’area, partendo dal Giappone fino ad arrivare all’Iran e all’Arabia Saudita e passando per gli stretti rapporti di cooperazione già instaurati con le nazioni dell’ASEAN: con alcuni di essi, quali ad esempio Tailandia e Myanmar, Pechino ha sviluppato un alleanza strategica che ha fatto parlare di una strategia del “filo di perle” adottata da parte della Cina, con punti di appoggio per il suo commercio marittimo che vanno dal porto di Akyab in Myanmar fino a quello di Gwadar in Pakistan.45
 

Un altro “cerchio” è costituito dalla fitta rete di proficue relazioni via via intessute da Pechino con alcune potenze emergenti su scala mondiale e facenti parte del “club dei BRICS”, e cioè con Brasile, Russia, India e Sudafrica: un “club” che già ore inizia a pesare sensibilmente sulla politica mondiale e sulla sua dinamica futura.
 

Il quarto anello viene costituito dalla summenzionata cooperazione, “win-win” ed egualitaria (di natura sia economica che politica), avviata dalla Cina con gran parte delle nazioni dell’Africa e dell’America Latina, del mondo arabo e (ultimamente) dell’Europa centro-meridionale, a partire dalla Grecia e dalla Bulgaria: l’obiettivo immediato di Pechino risulta diventare il loro partner economico “numero uno” sul piano quantitativo, oltre che un utile amico sia per il loro sviluppo che per il superamento delle loro crisi interne.
 

Come ha notato persino il Corriere della Sera, “in questi anni di crisi la Cina sembra fare da Fondo monetario e da Banca mondiale ombra. Mentre gli USA e la UE, ostaggi dei propri problemi, se ne tengono lontani, Pechino e le società cinesi investono, massicciamente, nei Paesi a rischio. Dal Perù all’Angola, costruiscono infrastrutture, aprono filiali e finanziano banche e Stati con un duplice obiettivo: ottenerne le risorse naturali e assicurarsi mezzi per la propria produzione ed esportazione. Tipico è il caso della Grecia, abbandonata o quasi dalle imprese americane ed europee. La Cina ha speso 700 milioni di dollari nella ristrutturazione del Pireo, il porto di Atene, e investirà ancora di più in centro di distribuzione e in una rete di alberghi e strade. Vuole fare delle città la Rotterdam del Sud e assieme il capolinea dell’antica strada della seta, il suo polo commerciale per l’Europa, il Medio oriente e l’Africa del Nord.46
 

Penultimo cerchio concentrico, i crescenti rapporti economici e finanziari formatisi tra Cina ed Europa e, con particolare intensità, tra Pechino e Berlino: già alla fine del 2011 il gigantesco paese asiatico aveva in suo possesso centinaia di miliardi di dollari in titoli di stato dei paesi dell’area dell’euro, oltre ad essere diventato da tempo un loro importante partner commerciale.
 

Ed in ultimo, ma non certo per importanza, la strategia cinese punta ad acquisire ottime relazioni commerciali con i tradizionali e più stretti alleati dell’imperialismo statunitense, dal Giappone alla Gran Bretagna, da Israele fino ad arrivare ad Australia e Nuova Zelanda, al fine di cercare di neutralizzare in modo preventivo un loro eventuale sostegno alle tendenze più aggressive, militariste ed anticinesi che si annidano a Washington.
 

Il quarto elemento costitutivo della (particolare) tendenza alla massimizzazione del possibile, proiettata nell’arena interstatale da parte cinese, consiste nel tentativo di Pechino teso a modificare profondamente, seppur in modo prudente e graduale, l’attuale sistema monetario internazionale.
 

Innanzitutto la dirigenza cinese punta apertamente a creare via via la convertibilità dello yuan entro il 2015, rendendo internazionale e convertibile sui mercati internazionali la moneta nazionale (renminbi) al pari del dollaro, euro, yen, ecc, con una forte ricaduta positiva sia sull’immagine internazionale di Pechino che sui rapporti di forza economici a livello planetario: anche a tal fine lo stato cinese da alcuni anni sta incrementando le sue riserve d’oro, prendendo “due piccioni con una fava” ed ottenendo un duplice risultato. Infatti, come ha riportato il 28 aprile del 2011 il quotidiano World News Journal (Shijie Xinwenbao), “secondo l’amministrazione nazionale degli scambi esteri della Cina, le riserve cinesi di oro sono recentemente aumentate. Ad oggi la maggior parte delle riserve auree cinesi sono custodite negli Usa e in Europa. Usa ed Europa hanno sempre soppresso il crescente prezzo dell’oro per indebolirne la funzione di moneta di riserva. Non vogliono che altri paesi acquistino riserve auree al posto di dollari o euro pertanto la riduzione del prezzo dell’oro beneficia fortemente il ruolo di moneta internazionale di riserva del dollaro. La crescente riserva aurea cinese sarà da modello e guida per altre nazioni”.47
 

La Cina punta inoltre apertamente, dalla fine del 2009, a creare progressivamente e nel corso di circa un decennio una nuova moneta internazionale di riserva, formata da una sorta di paniere tra le principali monete del mondo (tra cui un futuro yuan convertibile…) e che sostituisca gradualmente il dollaro in tale importantissima funzione, come punto di riferimento per gli scambi finanziari e commerciali dell’intero pianeta; la posta in palio, sia sotto il profilo monetario-economico che politico, risulta enorme e di peso epocale, visto che Pechino punta a sostituire gradualmente il sistema monetario uscito da quegli incontri di Bretton Woods che, nel lontano 1944, incoronarono il dollaro come nuovo sovrano monetario del globo.
 

Quinto elemento, il processo crescente di integrazione economica-finanziaria della Cina con le nazioni dell’ASEAN (Indonesia, Thailandia, Singapore, ecc), con l’Europa e l’Africa, producendo la riduzione parallela del peso relativo del commercio con i declinanti Stati Uniti, in un processo avviato fin dal 2007/2008. Come ha notato Brandon Smith nel settembre del 2011, a quel tempo in terra americana “ancora abbondano le illusioni della dipendenza dei cinesi dal consumatore statunitense e quelli che suggeriscono una vendita catastrofica di debito pubblico e di dollari Usa nel breve termine rischiano di sentire i soliti discorsi privi di senso che abbiamo udito così a lungo:
 

“I cinesi stanno meglio con noi che senza di noi”;

“La Cina ha bisogno dell’esportazione dagli Usa per sopravvivere…”;

“La Cina non è attrezzata per produrre merci senza le conoscenze tecnologiche degli Usa…”;

“L’America porterebbe semplicemente all’industria e alla produzione per dare ai cinesi una bella lezione…”;

“Gli Stati Uniti possono andare in default sul proprio debito detenuto dalla Cina come se niente fosse…”; 

E’ tutta colpa dei cinesi perché la loro svalutazione artificiale dello yuan nel corso dei decenni…”.
 

E si può ancora andare avanti. Anche se ho demolito questi argomenti più volte in passato, mi sento in dovere di occuparmene ancora una volta.
 

Il consumo statunitense di tutte le merci, non solo di quelle cinesi, è precipitato dal 2008 ed è improbabile che riesca a recuperare. La Cina se l’è passata abbastanza bene malgrado questo calo delle esportazioni, considerando le circostanze. Con l’istituzione dell’ASEAN, potrebbero quasi fare a meno della nostra presenza.
 

La Cina è bene equipaggiata per produrre merci tecnologiche senza l’aiuto degli Stati Uniti e, se il Giappone farà ingresso nell’ASEAN (e io credo che avverrà presto), ne saranno ancora più capaci”.48
 

Un’ulteriore tassello del livello strategico più avanzato di Pechino consiste nel processo di pacifica neutralizzazione del principale avversario della Cina, la superpotenza militare statunitense.
 

Va subito notato come il rapporto sinoamericano risulta profondamente asimmetrico, almeno dal 1985/89, perché se da un lato i dirigenti cinesi non ritengono di avere contraddizioni antagoniste con l’imperialismo statunitense, quest’ultimo nel suo complesso e da più di un ventennio risulta convinto invece del contrario. Per tutti i mandatari politici della borghesia americana la Cina è infatti diventata il “nemico numero uno” fin dal 1991 e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, mentre viceversa i leader del partito comunista cinese auspicano e ritengono possibile sul piano oggettivo una seria cooperazione, non priva certo di secondari elementi conflittuali, tra il loro paese e Washington: non vi sono frontiere in comune tra i due paesi, i loro rapporti politico-diplomatici sono ripresi dal 1972, gli interscambi commerciali tra le due nazioni sono incrementati in modo enorme dal 1978 fino ad oggi, tra il 1972 ed il 1982 le loro relazioni furono addirittura di alleanza tattica (contro l’Unione Sovietica, per un errato calcolo delle direzioni politiche cinesi di quel decennio), ecc.
 

Ma pur con questo atteggiamento generale, asimmetrico rispetto a quello statunitense, la direzione cinese fin dal 1989/91 ha dovuto realisticamente prendere via via atto di una serie combinata di innegabili fatti testardi, e cioè che:
 

  • per tutte le amministrazioni statunitensi, via via succedutesi dal 1988 ad oggi, il regime socialista cinese ha rappresentato un nemico da abbattere e la Cina dopo il 1991 è stata considerata il principale avversario su scala internazionale, da “contenere” con tutti i mezzi disponibili e con tutte la forze possibili da impiegare;

  • le forniture di armi statunitensi a Taiwan sono continuate in modo sfacciato dal 1972 fino ai nostri giorni, come faceva giustamente notare il Quotidiano del Popolo di Pechino ancora a metà luglio del 201149;

  • I missili americani hanno bombardato “per errore” l’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999, mentre nel marzo/aprile del 2001 si è verificata un’altra grave crisi militar-diplomatica tra i due paesi provocata da un aereo-spia degli USA;

  • tutte le amministrazioni statunitensi succedutesi dopo il 1988 hanno appoggiato, in modo più o meno velato/ipocrita, le forze separatiste (= Dalai Lama) che operano nel Tibet, parte integrante della Cina da molti secoli, e nello Xinjiang;

  • I circoli dirigenti statunitensi, dal 1988 fino ad oggi, hanno cercato con tutti i mezzi a loro disponibili di “contenere” l’espansione dell’influenza cinese nel pianeta, a partire dai paesi in via di sviluppo. Ad esempio Hillary Clinton, ancora nel giugno del 2011, è arrivata fino al punto di accusare Pechino di aver avviato in Africa “un nuovo colonialismo”, secondo le (incredibili e spudorate) dichiarazioni rese dal segretario di stato americano durante una sua visita in Zambia.50 La Cina è vista, considerata, analizzata dai nuclei dirigenti statunitensi – sia democratici che repubblicani – come il nemico principale degli USA per motivi strutturali, almeno a partire dal 1991.
     

E’ il paese più popoloso al mondo.
 

La sua economia cresce e si sviluppa, almeno a partire dal 1977, a ritmi di incremento medi del 9% all’anno, quasi quattro volte di più del capitalismo statunitense.
 

Si tratta di un paese con alla guida un partito comunista, che rivendica senza problemi la sua matrice ideologica marxista.
 

La Cina è una nazione assolutamente indipendente, fuori del controllo dell’imperialismo statunitense e di qualunque altra potenza egemonica.
 

Dal 2008/2009, ha superato gli USA come principale potenza economica mondiale.
 

Vuole e desidera un nuovo ordine economico-politico mondiale, multipolare e non soggetto ai diktat ed all’egemonismo occidentale.
 

Mettendosi facilmente nei panni e nella testa (collettiva) dell’élite politiche statunitensi, i dirigenti del PCC conoscono benissimo questa visione “antagonista” ed anticomunista delle loro controparti americane, sapendo altrettanto bene che potrà essere modificata solo da una profonda trasformazione (pacifica) dei rapporti di forza mondiali, collegata dialetticamente ad una politica cooperativa e non egemonica da parte di Pechino.
 

Di fronte alla concreta realtà, dell’ostilità americana, provata da una miriade di altri fatti testardi ed innegabili, la direzione comunista della Cina come contromossa principale ha innanzitutto elaborato a partire dal 1999/2002 la pacifica “strategia del primo creditore” verso gli USA: in altri termini, essenzialmente per motivi geopolitici ed extraeconomici la Cina ha via via acquisito una massa enorme di titoli di stato e di moneta statunitense, ottenendo in tal modo un formidabile contropotere di condizionamento rispetto all’imperialismo statunitense, che dalla sfera economica è facilmente tracimata in quella politica. Come ha ammesso la stessa Hillary Clinton nell’estate 2011, “dareste fastidio al vostro banchiere di riferimento” ed al vostro creditore principale, senza validi ed imperativi motivi?
 

Ma non solo. Le multinazionali statunitensi, con il consenso ed il controllo delle autorità statali cinesi, a partire dal 1979/82 hanno via via investito una massa gigantesca di risorse finanziarie al fine di creare proprie unità produttive e filiali nella Cina continentale, partendo da Wal-Mart e dalla General Motors. Finché la situazione generale dei rapporti sino-americani rimane buona non sorge alcun problema, ma in caso di contraddizioni e tensioni tra le due nazioni proprio le grandi imprese americane formano una lobby abbastanza compatta tesa ad evitare il peggio, per evidenti ragioni economiche e per paura di veder compromessi i loro ingenti (e lucrosi) investimenti nell’area cinese. Il fenomeno risulta così evidente che persino l’anticomunista Wall Street Journal lo ha notato a modo suo, nel settembre del 2010, sottolineando che sebbene tante aziende americane (e non solo) “stanno soffrendo le distorte ragioni di scambio che favoriscono i prodotti cinesi, ci sono altrettanto aziende politicamente potenti che vogliono mantenere questo status quo. Geithner (segretario al tesoro americano) l’ha detto apertamente constatando che le aziende americane hanno paura del confronto con la Cina, visto che la nazione asiatica ha una lieve impronta vendicativa”.51
 

Il sesto pezzo del “mosaico” cinese in via d’esposizione consiste nel pacifico processo di espansione del “soft power” cinese in campo internazionale, nel medio-breve periodo.
 

Per “soft power” si intende il grado di capacità di attrazione, persuasione e seduzione che esercita un determinato stato rispetto alle altre nazioni dello scacchiere mondiale (o di una determinata area geopolitica), lo charme ed il fascino che esso emana nell’area internazionale: in altri termini il “magnete” cultural-ideologico, inteso nel senso più ampio del termine, in grado di attrarre simpatie e consenso tra le élite e/o le masse popolari delle altre nazioni, portandole all’imitazione/accettazione empatica del “modello di vita” socioeconomico e politico, culturale ed ideologico dello “stato-magnete”: risulta appena il caso di sottolineare come si tratti di un potere e di un (sotto) campo di forza che ha acquisito un peso sempre crescente, dopo il 1917 e l’Ottobre Rosso, nell’arena internazionale.
 

Gli elementi che costituiscono il “soft power” sono numerosi e tra di essi si possono elencare:
 

  • la presenza di aiuti economici e scambi commerciali vantaggiosi per le altre nazioni (se viene in mente la cooperazione “win-win” impostata dalla direzione cinese non si è certo fuori strada), con la relativa ricaduta positiva nel campo della percezione-immagine nazionale in determinati paesi esteri;

  • l’esempio trascinante dei successi economici (si pensi alle ricadute dei primi piani quinquennali sovietici nel mondo occidentale sconvolto dalla depressione degli anni Trenta) e tecnologici (lo Sputnik e Gagarin) riportate via via da una determinata formazione statale, rispetto alla psicologia collettiva dell’élite/masse di altre nazioni.

  • l’esempio trascinante dei successi riportati nei campi dell’aumento del tenore di vita materiale (dal 1977 il potere d’acquisto reale degli operai cinesi è aumentato di almeno sei volte), dell’ecologia e dello sviluppo dello stato sociale da parte di una determinata nazione, sempre nei confronti degli altri stati;

  • l’adozione e/o elaborazione autonoma di una concezione del mondo allo stesso tempo umanistica e di valore universale (il marxismo, ad esempio, nato nel mondo occidentale ma ben accolto fin dal 1918/49 nel sub-continente cinese), in grado di attirare simpatie anche al di fuori dei propri confini nazionali;

  • la ricerca costante della pace e della soluzione pacifico-diplomatica delle contraddizioni e dei focolai di crisi internazionali, legata all’assenza di propri interventi militari all’estero: almeno dall’estate del 1914, l’opinione pubblica mondiale di regola non ama i guerrafondai e gli invasori di altre nazioni (= la prima “bacchetta magica” cinese? Certo…);

  • le tradizioni cultural-artistiche di una nazione;

  • la presenza di comunità relativamente numerose di propri connazionali all’estero, purché legate almeno in parte da relazioni di affinità e vicinanza con la madrepatria;

  • il fascino esercitato dalla produzione intellettuale ed artistica recente/contemporanea di una nazione, ivi compresa quella espressa dal cinema (= Hollywood), dai fumetti e dai cartoni animati, rispetto alle élite e/o masse popolari degli altri stati;

  • la capacità di convincere sezioni più o meno consistenti dell’élite e/o delle masse popolari di altri stati della validità delle ragioni/diritti di un determinato stato, attraverso “l’offerta di argomenti” (J. S. Nye) razionali e/o di forte motivazioni ideologiche.
     

Nel settore (come minimo importante) del “soft-power”, la Cina risultava da molto tempo ben posizionata nei suoi tradizionali “presupposti” (Courmont), grazie a “una storia plurimillenaria, una cultura raffinata e capace di rivaleggiare con l’Occidente e una demografia attiva, che gli permette di disporre di intermediari ai quattro angoli della Terra”.52
 

Ma proprio la strategia globale del “magnete” adottata dalla Cina negli ultimi decenni, nelle sue diverse articolazioni descritte in precedenza, ha consentito già ora al gigantesco paese asiatico dei notevoli successi nel campo della capacità “di seduzione” su scala internazionale, ammessi del resto a denti stretti e parzialmente anche da alcuni studiosi anticomunisti come B. Courmont.
 

“Se la Cina intende divenire una Potenza, essa deve essere percepita come un elemento di stabilizzazione all’interno delle relazioni internazionali. Per fare questo, essa cerca di curare la sua immagine ponendo in evidenza il suo modello di sviluppo per fornire delle possibili soluzioni a problemi quali la povertà e l’ambiente.
 

Ma è soprattutto il suo approccio Sud-Sud, nei confronti dei paesi in via di sviluppo, che assicura, attualmente, il successo di questo soft-power cinese”.53
 

Un ruolo importante in questo processo è stato giocato anche dall’azione di “penetrazione culturale” (Mini) promossa con abilità dalle autorità cinesi, che in se stessa “non è una gran novità, perché anche l’Occidente utilizza la stessa strategia. I Confucius Institutes proliferano in tutti i Continenti. Il numero di studenti cinesi all’estero è degli studenti stranieri in Cina è in costante aumento. L’attenzione dedicata da Pechino alle public relations in occasione dei Giochi Olimpici e dell’Esposizione Mondiale di Shanghai magistralmente descritte da Barthélemy Courmont, darà un impulso notevole in questo senso. La penetrazione culturale è considerata dal governo cinese indipendente dalle relazioni politiche. In occasione delle grandi manifestazioni anti-giapponesi in Cina del 2005, è stato aperto in Giappone un secondo istituto Confucio.
 

La Cina è generalmente apprezzata dalle opinioni pubbliche e non solo da quelle del Terzo Mondo. E’ ritenuta meno pericolosa per l’ordine internazionale degli Stati Uniti”.54
 

Nel prossimo decennio, in ogni caso, la Cina (prevalentemente) socialista punta ad ottenere un salto di qualità nel processo di espansione del suo “soft power”, soprattutto (ma non solo, anzi…) nei paesi in via di sviluppo. La probabile combinazione tra sviluppo continuo dell’economia cinese nel decennio 2012/2022 e parallela acutizzazione della crisi generale del capitalismo, tra processo di aumento del potere d’acquisto operaio in Cina e sua parallela diminuzione nel mondo occidentale in depressione, tra cooperazione “win-win” di Pechino con i paesi del Terzo Mondo ed il loro sfruttamento feroce da parte dell’imperialismo occidentale, offre ovviamente enormi margini di manovra per la dinamica di sviluppo del potere attrattivo cinese in campo internazionale, trasformando via via i rapporti di forza mondiali e rendendo il “modello cinese” sempre più seducente ed attrattivo per le masse popolari del pianeta.
 

La Cina non vuole nè può “comandare il mondo”, come aveva erroneamente notato il giornalista inglese Martin Jacques, ma vuole invece influenzarlo in modo pacifico (con l’egemonia culturale e soprattutto l’esempio concreto, di gramsciana derivazione) per aiutarlo ad entrare nella fase di transizione al socialismo su scala globale ed in un’epoca di relazione internazionali cooperative, multipolari e pacifiche, senza la minaccia di “guerre senza fine” e di olocausti atomici.
 

Ma a questo punto stiamo entrando nel quarto livello della politica estera cinese, emerso con particolare evidenza dopo il 2007 e lo scoppio della disastrosa recessione capitalistica: e cioè nel settore della “gestione del disastro altrui” (statunitense, e più in generale, del mondo occidentale) da parte di Pechino, nel campo della relazione progettuale e della pratica collettiva cinese di fronte al (possibile) Armageddon capitalista del prossimo triennio.
 

La piena coscienza della gravità della crisi capitalistica sviluppatasi a partire dalla fine del 2007, con la “miccia d’innesco” dei mutui subprime, è apparsa con assoluta chiarezza all’interno della dirigenza del partito comunista cinese al più tardi nell’estate del 2008 e poco prima delle Olimpiadi di Pechino, quando un’ondata di chiusure di fabbriche private che esportavano nel mondo capitalistico sconvolse alcune zone costiere della Cina, specialmente nel Guandong: pertanto il nucleo dirigente di Pechino ha avuto finora quasi quattro anni di tempo per analizzare per conto/mezzi propri, oppure con la semplice lettura dell’elaborazione effettuata dagli esperti più abili dell’occidente, (a partire da N. Roubini), l’impatto di lungo periodo e le possibili varianti/conseguenze della depressione che attanaglia dal 2008 il mondo occidentale.
 

Quattro lunghi anni rappresentano un tempo enorme per una dirigenza considerata da alcuni studiosi anticomunisti come una “delle più abili” ed esperte nella storia del genere umano, secondo la terminologia utilizzata dallo studioso indiano Swatan Singh.55
 

Come ha notato G. Bellini, “è certo che i cinesi non abbiamo le fette di salame sugli occhi per quel che riguarda il Dollaro: già dal 9 novembre 2010 l’agenzia cinese di rating Dagong Global Credit Rating Co. ha assegnato al debito locale ed estero degli Stati Uniti un misero A+ (riducendo il rating dal precedente AA) proprio in base all’analisi della stabilità della Valuta USA.” (G. Bellini, I venti giorni che sconvolgeranno il mondo”, p.104).
 

Oltre ad ottenere la garanzia diretta della Federal Reserve sui debiti accumulati da Fanni Mae e Freddy Mac, istituti finanziari nei quali la Cina aveva già investito centinaia di miliardi di dollari, la prima reazione di Pechino allo tsunami economico che stava devastando la finanza e l’economia occidentale si incentrò principalmente sulla sopracitata richiesta strategica dell’avvio (graduale, ma reale) di un nuovo ordine economico mondiale, che nel medio periodo e progressivamente ponesse fine all’egemonia del dollaro ed al “signoraggio” esercitato dal capitalismo statunitense. Come ha notato lucidamente A. Giannuli, “anche la crisi bancaria sortì effetti devastanti dello stesso tipo che oltrepassarono ampiamente l’ambito strettamente finanziario: svelò la debolezza economica degli Stati Uniti, indicò i limiti della loro potenza e, soprattutto, rese manifesto il peso del signoraggio sulla moneta di riferimento internazionale.E, infatti, il 24 marzo 2009 il premier Wen Jiabao e il governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan lanciarono la proposta di accantonare il dollaro come moneta di riferimento per gli scambi internazionali, sostituendola con i diritti speciali di prelievo dell’FMI, basati su un paniere di monete formato da dollaro, sterlina, yen ed euro. Ma sottintendendo, ovviamente, che nel ristretto club sarebbe dovuto entrare lo yuan. Immediata la reazione di Bernanke, che respinse con tutte le sue forze la proposta…Iniziava in questo modo una cauta manovra aggirante della Cina. Già dal gennaio 2009, Pechino stata progettando la nascita in America Latina di una borsa delle commodities (le materie prime) alternativa a quella di Chicago. Un primo effetto della trattativa si ebbe a fine marzo, con la stipula di un accordo tra le banche centrali di Cina e Argentina per uno scambio del valore di 70 milioni di yuan, relativo al commercio tra i due paesi (R 1.4.09). L’azione suonò come una adesione indiretta degli argentini alla posizione cinese sul dollaro. Un altro segnale ci fu a maggio, con l’acquisto di 450 tonnellate di oro da parte della Cina, che ne chiedeva ulteriori 403 all’FMI (S24 17.5.09). Il 16 giugno successivo, in un incontro a Yekaterinburg, i quattro paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) avanzarono congiuntamente la proposta di superare il dollaro come moneta di riserva in favore di diritti speciali di prelievo FMI. La richiesta era pesante poiché formulata da un blocco di paesi che rappresenta la metà della popolazione e un quarto del PIL mondiale; tuttavia, ancora una volta gli USA resistevano, sostenuti dal Giappone e dalla UE (ma la Francia mostrava qualche incertezza in proposito)”.56
 

Con il nuovo acutizzarsi della crisi economica e finanziaria mondiale, a partire dalla seconda metà del 2011, la dirigenza cinese alzò ulteriormente il livello di allarme giungendo ad ammonire l’amministrazione Obama ed i suoi mandanti sociali di porre finalmente una stretta al deficit statale, ormai quasi fuori controllo, del “Titanic-USA”. All’inizio di agosto del 2011, il governo cinese emetteva infatti un durissimo comunicato nel quale si denunciava “il protrarsi dei problemi dell’enorme debito sovrano. “I giorni in cui lo zio Sam, piegato dai debiti, poteva facilmente dilapidare quantità infinite di prestiti stranieri sono ormai contati”, si legge nel comunicato di Nuova Cina. La cancellazione della tripla A per gli Stati Uniti è “un ammonimento”, scrive Nuova Cina nel suo severo giudizio sullo stato delle finanze americane. L’agenzia di rating cinese Dagong, che non ha la stessa credibilità delle sue concorrenti anglosassoni, ha anch’essa abbassato il suo giudizio da A+ ad A, con una prospettiva negativa”.57
 

Il processo intenso di intensificazione delle molteplici contraddizioni capitalistiche non poteva del resto risultare impensabile ed impossibile ad una direzione politica come quella cinese, il cui principio-guida era e rimane tuttora il marxismo: non a caso un dirigente comunista autorevole come Xi Jinping aveva sottolineato nel novembre del 2010 “la necessità di spingere attivamente la formazione del partito sul modello di studio marxista, rilevando simultaneamente che i dirigenti politici cinesi riconoscono “un valore autentico… allo studio dell’analisi marxista” e ai “valori centrali del socialismo”, proprio mentre Obama visitava Pechino”.58
 

Ciò che invece risultava assurdo ai leader cinesi, e da molto tempo erano affermazioni come quelle espresse nel 2003 dall’(allora) autorevole economista statunitense Robert Lucas, docente dell’università di Chicago (la roccaforte della famigerata scuola monetarista di Milton Friedman), quando assicurò che grazie agli sviluppi del pensiero economico, “il problema principale di prevenire la depressione è stato risolto, in tutte le sue implicazioni pratiche”.59
 

Come volevasi dimostrare…
 

In base alla combinazione dialettica tra la gravità plateale della crisi statunitense ed occidentale (a partire dallo stato disastroso del debito sovrano statunitense ed europeo dopo il 2009), e le innegabili conoscenze di Pechino sui meccanismi della finanza mondiale e sul debito statale di USA/Europa, di cui tra l’altro la Cina è uno dei principali detentori mondiali, fattori a cui si aggiunge la salda concezione del mondo marxista, del PCC, al cui interno è data per scontata (e a ragion veduta…) l’azione di potenti tendenze autodistruttive nel capitalismo, i dirigenti cinesi sono perfettamente coscienti della possibilità concreta di un futuro default del debito pubblico americano e di un aggravamento disastroso della crisi capitalistica.
 

Come è già emerso dalla reazione cinese alla crisi del debito USA durante l’estate del 2011, la dirigenza cinese è perfettamente cosciente che l’“Armageddon” (Tremonti) della bancarotta statale degli USA risulti ormai come minimo una delle possibili opzioni del prossimo triennio, con un alto livello di probabilità che essa si verifichi in assenza di eventi clamorosi, in grado di far da potente controtendenza a tale imminente disastro.
 

Ma soprattutto i dirigenti politici della Cina sono allo stesso tempo ben preparati alle possibili e diverse conseguenze di un (possibile/probabile) default statunitense nel 2012-2015, alle possibili e diverse opzioni che deriverebbero da una dichiarazione di bancarotta da parte di Washington.
 

Già alla fine del 1950, i loro predecessori dovettero infatti confrontarsi con una concreta minaccia di attacco nucleare al loro paese, sostenuta dal reazionario generale D. McArtur e da ampi settori della borghesia statunitense. Più di recente, l’ipotesi “Gingrich-Stranamore”, risultò una strategia in parte già adottata dall’amministrazione Bush junior nel 2001 dopo l’11 settembre, sebbene con livelli di crisi economica interna ancora assai inferiori a quelle attuali e con una reazione militare devastante, ma enormemente inferiore a quella che potrebbe derivare da una (devastante) bancarotta del debito sovrano americano. Che negli attentati delle “torri gemelle” di New York ed al Pentagono vi fossero molti elementi “strani”, risultava ben chiaro alla Cina ed a una parte significativa del mondo pochi giorni dopo l’11 settembre; che le amministrazioni statunitensi avessero già utilizzato in precedenza degli attacchi, presunti e reali, per giustificare l’escalation belliche del loro paese (“incidente” del Maine a Cuba nel 1898, “incidente” del golfo del Tonchino in Vietnam nel 1964, ecc) risulta un dato storico conosciuto dalla direzione, dagli storici e dagli analisti cinesi, da un partito che da molti decenni ha avviato un processo continuo di apprendimento dalle lezioni della storia, ivi compresi i suoi stessi errori (= apprendimento attraverso l’autocritica).
 

A sua volta la più probabile “ipotesi Gingrich”, che non prevede scatenamento di una guerra nucleare (più o meno limitata) contro Iran, Corea del Nord o Cina, rientra essa stessa (facilmente) nei possibili scenari (facilmente) immaginati e prevedibili dagli eccellenti e numerosi studi di Pechino, visti anche il recente precedente dell’Argentina nel 2000/2002 e le dichiarazioni esplicite in tal senso pronunciate da autorevoli esponenti della destra repubblicana.
 

L’ipotesi di una “rivoluzione socialista” negli Stati Uniti, per effetto di un devastante default del debito pubblico interno, non può invece che essere considerata, per tutta una serie di fattori, come estremamente improbabile dalla direzione cinese: anche perché l’amministrazione Obama, nella percezione collettiva delle masse popolari statunitensi (specie se afroamericane), risulta collocata ancora “a sinistra”, ed essa verrebbe considerato inevitabilmente come la diretta responsabile di un crack che avvenisse nel 2012 o nelle sue immediate vicinanze, almeno in assenza di una sua eventuale “svolta a sinistra” ed in senso populista.
 

A nostro avviso l’opzione che la direzione cinese ritiene allo stesso tempo possibile e desiderabile, nel caso di un (più che probabile) avvicinarsi del default americano, sarebbe proprio “l’ipotesi Hong Kong”.
 

Vanno in questa direzione tutta una serie di indizi combinati tra loro, tra cui emergono:
 

  • il rifiuto, allo stesso tempo sincero ed interessato, della guerra (specie se nucleare…) da parte del governo e del popolo cinese;

  • la convinzione sincera, sia da parte del partito comunista che di gran parte della popolazione cinese, che il tempo giochi a favore dell’ascesa pacifica del gigantesco paese asiatico sulla scena internazionale, a patto proprio di evitare conflitti bellici e/o guerre commerciali diffuse su scala planetaria;

  • il derivato rifiuto cinese della mentalità estremistica del “tanto peggio, tento meglio”, del resto già dimostratasi ai comunisti di tutto il mondo fallimentare e controproducente fin dai tempi della depressione degli anni Trenta: si pensi solo all’ascesa del potere di Hitler in Germania, favorita (certo in modo secondario e non essenziale) anche dall’assurda politica del “socialfascismo” adottata allora dall’Internazionale Comunista e dal partito comunista tedesco;

  • la lucida coscienza degli attuali rapporti di forza mondiali, ancora contraddistinti dall’apatia della classe operaia occidentale e dalla forza militare della “tigre nucleare” USA;

  • la lucida coscienza degli enormi arsenali in mano attualmente agli Stati Uniti, ed eventualmente ad un futuro “dottor Stranamore” che prendesse le redini del comando a Washington;

  • la forte ed ancora attuale presenza, all’interno del pensiero politico cinese, della sua “matrice originaria” rappresentata dall’elaborazione geniale effettuata in questo campo da Sun Tzu, già attorno al 400 a.C.
     

La sua opera, ancora oggi attentamente studiata sia in Cina/Asia che da molti teorici della scienza politica nel mondo occidentale, ha al suo centro (oltre all’analisi rigorosa dei concreti rapporti di forza, e della loro dinamica futura) la piena comprensione che la vittoria più brillante e desiderabile a livello internazionale è quella che si ottiene proprio non combattendo, non utilizzando in alcun modo le armi, evitando di entrare in guerra con l’avversario/nemico: nel caso ottimale, addirittura convincendo quest’ultimo ad allearsi al vecchio avversario e ad adottare la massima, del resto ben conosciuta da molto tempo dai capitalisti più intelligenti, che recita “se non puoi batterli, unisciti a loro”. Sun Tzu infatti affermò esplicitamente che “combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza: la suprema abilità consiste nel piegare la resistenza (volontà) del nemico senza combattere”, nell’ipotesi migliore convincendolo ad entrare in una nuova rete di alleanze60;
 

  • anche in base a tale matrice di pensiero, la Cina a differenza del decadente mondo occidentale è ben predisposta all’uso della “via indiretta” e pacifica della lotta politica.
     

Come ha ammesso anche il generale (anticomunista) Fabio Mini, “la via indiretta (il c’i di Sun Tzu) è da preferirsi all’azione diretta (il c’ieng), anche se le due vanno semprecombinate fra di loro, seppure in modo variabile a seconda delle circostanze. Più che alla distruzione dell’avversario, la strategia – secondo gli esperti cinesi – deve tendere alla sua destrutturazione, con un azione progressiva e paziente, mirante più alla modifica del contesto e all’acquisizione di vantaggi comparativi – anche indiretti a lungo termine – che all’urto frontale risolutivo, volto alla distruzione dell’avversario61”;
 

  • il parziale “compromesso storico” che è stato avviato dal partito comunista cinese nella stessa Cina continentale rispetto alle tendenze capitalistiche, endogene e delle multinazionali straniere, a partire dal 1977 e dalla strategia elaborata da Deng Xiaoping, oltre che “esportato” in seguito con successo ad Hong Kong (egemonizzata dal vero, reale capitalismo di stato) rientrata sotto il controllo politico di Pechino dal luglio del 1997. La storia degli ultimi quattro decenni insegna pertanto che il partito comunista cinese non ha certo avuto particolari “allergie” a stipulare compromessi di lunga durata ed accordi tattici con la rete capitalistica mondiale, a partire dalla prima visita effettuata da H. Kissinger in Cina nel lontano 1971, ancora ben vivo ed attivo Mao Zedong: detto in altri termini, quello che definiamo “ipotesi Hong Kong” (un compromesso dinamico su scala planetaria tra socialismo e capitalismo) è stata scoperta ed inventata proprio dai comunisti cinesi, sia in riferimento alla Cina continentale che ad Hong Kong/Macao, e pertanto l’allargamento eventuale del suo raggio d’azione a gran parte del mondo non può creare alcun problema di principio al nucleo dirigente di Pechino.
     

Tutti gli elementi di analisi attualmente disponibili indicano, in modo concorde ed univoco, la preferenza indiscutibile e sicura del partito comunista cinese per un processo di risoluzione pacifica e non catastrofica delle contraddizioni capitalistiche, a partire da quelle statunitensi, ma che avvii allo stesso tempo una dinamica reale di cambiamenti epocali, sia dell’attuale ordine economico-finanziario globale che dei rapporti di forza politico-sociali vigenti nel nostro pianeta.
 

Sembra una banalità, ma invece siamo in presenza di un fattore assai importante per il processo di analisi in via di esposizione. Infatti sussiste oggi concretamente una grande forza politica, a capo tra l’altro della principale potenza economica del pianeta (a parità di potere d’acquisto), che esprime sicuramente sul piano della sua progettualità/soggettività collettiva un ripudio delle soluzioni catastrofiche e una scelta preferenziale verso soluzioni e pratiche politico-economiche, allo stesso tempo pacifiche ed avanzate, da noi cristallizzate sotto il nome di “ipotesi Hong Kong”, in caso di imminenza del default del debito sovrano degli USA nei prossimi anni.
 

Si tratta di un punto fermo importante, nel caso il “Titanic-USA” incontri il suo personale (ed auto costruito) “supericeberg”: la (pacifica, costruttiva enorme) potenza economica accumulata dalla Cina socialista risulta la precondizione politico-materiale che rende “l’ipotesi Hong Kong” possibile, anche se certo assolutamente non-inevitabile, rappresenta la base politico-materiale indispensabile (anche se certo non sufficiente, in mancanza di altri fattori) per l’avvio concreto dell’opzione in oggetto.
 

Ma se si può prevedere con sicurezza la reazione possibile/desiderata della direzione del partito comunista cinese, di fronte alle avvisaglie del più che probabile default statunitense, il processo di previsione risulta molto più complesso sul versante della soggettività politico- sociale statunitense, sia a livello d’élite che delle masse popolari americane, sempre dando per sicuro l’avvicinarsi/avverarsi della situazione limite che costituisce il presupposto fondamentale del nostro scritto.
 

1 M. Weisbrot, “2016: when china overtakes the US”, the Guardian, 27 aprile 2011

2 D. Losurdo, “ Un istruttivo viaggio in Cina”, 28 luglio 2010, in www.lernesto.it

3 Tang Xiangyang, “State monopolies dominate China’s Top 500”, in Economic Observer News, 9 settembre 2009, www. eco.com.cn

4 Dick Morris, “Socialism doesn’t work-not even in China”, 27 luglio 2009, in www.dickmorris.com

5 R. Sidoli, M. Leoni, “Il ruggito del dragone”, pp. 21-23, ed. Aurora, in www.robertosidoli.net

6 Le Monde, 13 novembre 2002 “Dossier Cina”; F. Sisci, “Made in China”, pp. 113-114, ed. Carrocci

7 F. Sisci, op. cit., p. 113

8 www.resistenze.org/sito/de/po/ci/poci8

9 L. Vinci, rivista L’Ernesto, ottobre 2002

10 R. Sidoli, M. Leoni, op. cit., pp. 30-33

11 12° Piano quinquennale: il PIL della Cina deve aumentare assieme ai redditi”, in italian.cri.cn., 8/4/2011

12 R. Sidoli, M. Leoni, “Il piano quinquennale cinese”, rivista Marx XXI, luglio 2011, in www.lacinarossa.net, luglio 2011

13 G. Gattei, “L’imperialismo di oggi: China export”, in Contropiano n.4 del 2008, p. 2

14 “Foreign Investment in China, in www.uschina.org.2007”, febbraio 2007

15 R. Sidoli, M. Leoni, op. cit., pp. 98-99

16 “China will never seek egemony: white paper”, 6/9/2011, in english.cntv.cn

17 “Al via il vertice USA-Cina”, 24/5/2010, in www.rai.it

18 R. Sidoli, M. Leoni, “Il ruggito del dragone”, op. cit., pp. 117- 118

19 L. Tomba, “Storia della Repubblica Popolare Cinese”, p. 191, ed. Mondadori

20 Op. cit., pp. 118 -119; Stima del Sipri-2007, in www.archiviodisarmo.it

21 B. Courmont, op. cit., p. 176

22 B. Courmont, “Cina: la grande seduttrice”, pp. 6-7, prefazione di Carlo Jean, ed. Fuoco

23 english.peopledaily.com.cn. 22 dicembre 2008, op. cit.

24 english.peopledaily.com.cn. “China not to reduce assistance to Africa despite financial crisis”, 19 dicembre 2008

25 Guo Quian ,“I dieci anni di cooperazione tra Africa e Cina spaventano l’occidente”, in www.contropiano.org dicembre 2010

26 China Digital Times, luglio 2008, “China narrows Africa’s infrastructure deficit”

27 F. Rampini, “Occidente estremo”, p. 67, ed. Rizzoli

28 Courmont, op. cit., p. 99

29 S. Ricaldone, “Il grande balzo della Cina in Africa”, in www.lernesto.it, 21/07/2011

30 “China will never seek egemony”, 6/9/2011, in english.cntv.cn

31 “Cosa difendono Liu Xiaobo e Carta 08”, 12/10/2010, in www.lacinarossa.net

32 R. Sidoli e M. Leoni, “il partito comunista cinese e la teoria dei profondi cambiamenti”, gennaio 2010, in www.lacinarossa.net

33 Courmont, op. cit., p. 37

34 F. Engels, lettera a K. Kautsky del 12 settembre 1882

35 V. I. Lenin, “Discorso di chiusura della conferenza del P.C. (6) R”, 27 maggio 1921

36 Deng Rong, “Deng Xiaoping e la rivoluzione culturale”, pp. 279-280, ed. Rizzoli

37 Deng Xiaoping, “Selected Works”, vol. III, 26 aprile 1987, “To uphold socialism we must eliminate poverty”

38 B. Courmont, op. cit., p. 7

39 Op. cit., pp. 13-14

40 Op. cit., p. 16

41 “La Cina sorpasserà gli USA nella scienza nel 2013”, maggio 2011, in www.lacinarossa

42 “China’s 12th Five.Year Plane”, in cbi.typepad.com, dicembre 2010

43 P. Escobar, “Geopolitiche delle pipeline”, 20/10/2010, in www.ariannaeditrice.it

44 R. Sidoli, e M. Leoni, op. cit., p. 127

45 “La strategia del filo di perle”, 5/7/2011, in www.ilcaffegeopolitico.net

46 E. Carretto, “Si scrive Cina, si legge FMI ombra”, 2 luglio 2010, Corriere della Sera

47 P. Durder, “Wikileaks espone le ragioni della mania nascosta della Cina per l’oro”, 6/9/2011, in www.comedonchisciotte.org

48 B. Smith “la Cina è pronta a staccare la spina?”, 17/9/2011, in www.comedonchisciotte.org

49 “To improve relations, US must respect China’s core interest”, Quotidiano del Popolo del 14/7/2011, in englishpeopledaily.com.cn

50 “Clinton remarks aim to estrange Sino-African ties”, Quotidiano del Popolo, 15 giugno 2011

51 “USA: “sempre più ostaggio della Cina”, 17 settembre 2010, in www.wallstreetitalia.com

52 Courmont, op. cit., p.16

53 Op. cit., p. 17

54 Op. cit., p. 9

55 “PCC: una delle più abili forze politiche della storia”, in www.lacinarossa.net, luglio 2011

56 Giannuli, op. cit., pp. 70-71

57 “S&P abbassa il rating, la Cina vuole garanzie”, 8 agosto 2011, in www.trend-online.com

58 F. Scisci, “La Cina marxista saluta Obama”, 15 novembre 2010, in La Stampa

59 A. Giannuli, op. cit., pp. 63-64

60 Sun Tzu, op. cit., cap. terzo p. 81

61 B. Courmont, op. cit., p. 8