Quanto è vicina la Cina?

di Simone Oggionni | da http://www.reblab.it

cina parataScrivo queste note appena rientrato in Italia, dopo dieci giorni di viaggio in Cina. Queste mie righe hanno il solo obiettivo di accennare o alludere a cinque grandi questioni che quest’esperienza (un viaggio di studio organizzato dal Dipartimento Esteri del Partito comunista cinese) ha fatto risaltare, senza alcuna pretesa di completezza e organicità, per le quali rimando a riflessioni che avremo modo di comporre nelle prossime settimane.
 

In premessa, una dichiarazione epistemologica: l’approccio alla realtà che scelgo – l’unico che sono in grado di pensare – tenta di bandire ogni pretesa eurocentrica (il nostro non è l’unico mondo possibile, la nostra non è l’unica cultura possibile) e al contempo fissa alcuni punti di riferimento (tra tutti la razionalità e la capacità espansiva dell’economia e il grado di protagonismo, diretto e indiretto, dei lavoratori) che fungano da criteri interpretativi e valutativi generali.

Il primo tema con cui confrontarsi è la straordinaria crescita economica della Cina accumulata dal 1949 e, con un ritmo travolgente, dalla politica di riforma e apertura stabilita da Deng dopo il fallimento della Rivoluzione culturale. È una crescita incontestabile e con pochi precedenti nella storia dell’umanità.
 

Dal 1949 al 2009 il Pil cinese è aumentato di 77 volte, l’incasso fiscale di 1000 volte, la produzione elettrica di 805 volte, il volume del commercio estero di 2266 volte, la riserva di valuta estera di 14mila volte.
 

Dal 1978, in particolare, la Cina registra una crescita media del Pil del 9,5%. Il reddito pro capite annuale in quell’anno era di 200 dollari (per 1 miliardo di persone). Nel 2010 ha raggiunto i 5000 dollari (per 1 miliardo 350 milioni di persone). È già la seconda economia mondiale ed entro il 2025 scavalcherà anche gli Stati Uniti (ogni dodici mesi Goldman Sachs rivede la previsione, anticipandola di qualche anno).

Ciò che rileva è che questa poderosa crescita economica è stata posta al servizio di un altrettanto imponente piano di sviluppo infrastrutturale, di opere pubbliche, di urbanizzazione e industrializzazione del Paese (del quale, al fine di capirne per intero la portata, non vanno mai dimenticate le dimensioni). Oggi la Cina, grazie ad esso, è un Paese in larga misura avanzato e che ogni anno sottrae all’arretratezza e alla povertà milioni di contadini. Con un modello di sviluppo – vi accenno soltanto – qualitativamente superiore a gran parte dei modelli capitalistici occidentali per esempio sul terreno cruciale della questione ambientale e della sensibilità ecologica, come dimostrano la campagna di riforestazione decisa nel 2008 dal governo e lo sviluppo del settore delle energie pulite e rinnovabili (dal 2008 la Cina è il primo Paese al mondo per questo tipo di investimenti).
 

Seconda questione: in che forma si presenta questo salto? Quale modo di produzione – posto che esiste indubitabilmente un iper-sfruttamento del lavoro e un massiccio plusvalore estratto – esprime il modello cinese? La tesi che suggerisce «l’analisi concreta della realtà concreta» («cercare la verità nei fatti», diceva Mao) è che siamo di fronte ad un sistema misto, con forti elementi di capitalismo (con un sistema delle imprese private, vero motore economico, perfettamente integrato nel capitalismo globale) e un parallelo protagonismo del pubblico, della pianificazione e della proprietà collettiva dei mezzi di produzione che tempera e bilancia il libero mercato. Gli esperimenti su vasta scala della costruzione della cosiddetta “nuova campagna socialista” sono, da questo punto di vista, da studiare con estrema attenzione.
 

Terza questione: dove viene indirizzato il plusvalore estratto (in altre parole: come viene distribuita la ricchezza prodotta)? L’impressione è che esista un ceto medio in rapida espansione (ceto impiegatizio, burocrazia statale, tecnici e insegnanti, commercianti, la fascia alta dei contadini), una élite di ricchi e super-ricchi prodotto dell’espansione prorompente degli elementi di capitalismo e un proletariato di massa (operai industriali e contadini) estremamente stratificato al suo interno. Quindi possiamo dire che la distribuzione della ricchezza è diversificata: contempla un arricchimento (francamente oltre misura) del vertice stretto della piramide sociale ma anche i piani di investimento pubblico universali a cui già accennavo. Sul piano strategico, il socialismo di mercato “con caratteristiche cinesi” consente l’accumulazione originaria del capitale e un arricchimento poderoso delle nuove élites (il cui rapporto con il partito comunista cinese è tutto da studiare) ma anche i grandi progressi a disposizione delle masse contadine e operaie.
 

Quarto nodo: il modello aziendale e il ruolo dei lavoratori nelle imprese. Questo è un punto qualificante e, dal nostro punto di vista, decisivo perché attiene direttamente al ruolo – in una società socialista o in transizione verso il socialismo – del soggetto sociale rivoluzionario. La classe operaia in Cina è sottoposta ad un regime legislativo e contrattuale non paragonabile a quello conquistato con lotte operaie in tutta Europa dalla fine dell’Ottocento e segnatamente nel secondo dopoguerra. Le condizioni complessive di lavoro (rapporti di forza nelle fabbriche, diritti e livelli salariali) rispecchiano questa condizione. In particolare, è da segnalare il ruolo del sindacato nelle aziende private (la cui finalità dichiarata non è il conflitto ma l’armonizzazione degli interessi delle imprese con quelle dei lavoratori) e del partito, il quale detiene pressoché il monopolio delle postazioni chiave nel management e negli organismi di rappresentanza sindacale (mantenendo per questo tramite un forte controllo verso l’alto e verso il basso) secondo una visione più organicistica e olistica che corporativa. Quanto questo comprima il protagonismo e l’autonomia reale dei lavoratori e deprima il potenziale di autogoverno degli stessi è tema che meriterebbe ben altro approfondimento. In questa sede mi limito a rilevare che tale realtà nega in radice l’idea e la pratica della dialettica e del conflitto nello schema pluralistico degli attori sociali cui siamo abituati (e culturalmente affezionati). Prevale, al contrario, uno schema monistico, esplicitamente contenuto nella teorizzazione ideologica della «società armoniosa».
 

Prima di affrontare il quinto e ultimo tema, una postilla necessaria sul partito. Esso ha accresciuto negli ultimi anni il proprio radicamento a ogni livello ed in ogni settore della vita sociale e civile cinese. Se nelle esperienze della nuova campagna socialista così come nelle comunità di base questa crescita è prevalentemente il segno della sua capacità egemonica e dell’autorevolezza dei suoi quadri periferici, nelle industrie private è, al contrario, forte il rischio che esso sia la spia di un sempre più pervasivo coinvolgimento del partito nelle maglie del sistema di dominio materiale e ideologico del capitalismo.
 

La riflessione finale attiene al dato culturale. Le impressioni che ricavo sono due, tra loro in parziale contraddizione. La prima è che la poderosa modernizzazione economica ha portato con sé una fortissima spinta allo sviluppo, al progresso e alla modernità dei canoni e degli stilemi culturali (plasticamente visibile in campo artistico e urbanistico-architettonico). La seconda è che sul terreno dell’ideologia di massa (delle tendenze culturali di massa) si spezzi l’equilibrio tra elementi di piano ed elementi di mercato che vige a livello strutturale. La forza immateriale del capitalismo (con i suoi miti del consumismo e dell’individualismo, con la sua capacità di produrre immaginario e narrazione) rischia di essere più forte e quindi dirompente, soprattutto tra le giovani generazioni, delle cautele e dell’intelligenza strategica del nuovo ciclo di riforma e di apertura.
 

Di questo, e di tanto altro, il partito cinese discute. Al suo interno e in rapporto con la società e gli intellettuali. Penso di poter dire che il dibattito che lo attraversa e lo vede coinvolto è un dibattito vero, senza sconti. E sbaglieremmo se leggessimo le vicende (sovente gli scontri) interne al gruppo dirigente del Pcc alla stregua di lotte di potere sconnesse dal dibattito politico e culturale. In Cina – nelle élites, nelle scuole di formazione, nelle Università – è in corso un confronto franco sulle prospettive, sui caratteri di fondo del modello, sulla eredità teorica e “spirituale” di Mao, sul grado consentito di radicalismo (verrebbe da dire: di aggressività) negli sviluppi futuri del ciclo inaugurato da Deng.
 

Dall’esito di questo dibattito dipenderà molto. Molto dei destini del popolo cinese, del socialismo cinese ma anche molto dei destini dei popoli del mondo e del socialismo nel mondo intero. Oggi dalla Cina non si può prescindere. Non può farlo a maggior ragione questo nostro Occidente in crisi, malato di neoliberismo e anche di quella presunzione di superiorità morale (non soltanto economica) che tanti guasti ha prodotto anche nella storia del movimento operaio novecentesco. Un Occidente nel quale, non casualmente, le sinistre e i comunisti sembrano avere il fiato molto corto.