Vietnam: un partito socialdemocratico per il “Pivot to Asia”?

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

IMG 1402Nel giugno scorso il Vietnam era salito alla ribalta della cronaca internazionale per l’introduzione, nel suo ordinamento socialista, di un particolare meccanismo di fiducia annuale. Pur non mettendo in discussione il potere del partito comunista (Pcv), per la prima volta i più alti dirigenti del Paese – Primo ministro e Presidente della Repubblica su tutti – si erano sottoposti al giudizio dell’Assemblea nazionale: un apprezzamento inferiore al 50% dei parlamentari per due anni consecutivi ha come conseguenza le dimissioni dalla carica ricoperta.

Nello specifico il primo ministro Nguyen Tan Dung ha ottenuto la fiducia del 68%, dei rappresentanti, vale a dire la sfiducia del 32%; dato che ci suggerisce l’esistenza di una non trascurabile dialettica interna. Questa innovazione è parte di quello che i leader del Paese socialista definiscono un “processo storico” iniziato con il X° Congresso del Partito comunista del 2006 quando, per la prima volta, la conferma del segretario generale era avvenuta attraverso una elezione competitiva aperta anche a candidati non iscritti al partito e presentatisi in autonomia senza passare attraverso una delle tante organizzazioni di massa ufficiali.


Ma, aldilà degli sviluppi interni, quel che interessa sono anche le ricadute esterne di queste sperimentazioni. Il “laboratorio” politico vietnamita – va specificato che da oggi non è messa in discussione la centralità e la guida del Pcv – è diventato oggetto di interesse nell’area cosiddetta liberale del Partito comunista cinese, in vista di possibili riforme politiche per una maggiore democrazia interna. Proprio per questo andrà valutato anche l’impatto esterno di una iniziativa che, al contrario delle prime, si configura come una vera e propria sfida alle autorità: ai primi di agosto – secondo quanto riportato da Radio Free Asia – Le Hieu Diang, dissidente ed ex esponente di spicco del partito comunista nonché avvocato per i diritti civili, ha fondato il Partito socialdemocratico vietnamita al termine di un dibattito sulla necessità di modifiche costituzionali che aprano al multipartitismo e sfruttando l’onda di un progetto di costituzione multipartitica firmata da intellettuali, attivisti e, pare, membri del Partito comunista.

Alla base della decisione – secondo il fondatore – la necessità di superare il “momento critico” del Paese e di proseguire sulla strada del progresso economico e sociale: “la ragione per la quale è stato costituito un nuovo partito che coesista con quello comunista è che per lo sviluppo della società abbiamo bisogno di opinioni diverse. La società non può svilupparsi se c’è un solo parere, un solo partito di governo”. La linea d’azione scelta, anche per cercare di attrarre i delusi del partito comunista (pare siano già un centinaio), è quella dell’azione non violenta e del dialogo nel rispetto della legalità. Come chiarisce lo stesso Dang “non si tratta di portare alla rovina il Partito comunista, ma di parlare con esso da eguali”. Per quanto riguarda gli aspetti internazionali, il neonato partito chiede anche una revisione del rapporto con la Cina – sfruttando le dispute territoriali nelle acque del Mar cinese meridionale – limitando gli “eccessivi” investimenti di quest’ultima in terre ricche di risorse.

Messa in discussione del ruolo del Partito comunista e insofferenza nei confronti di Pechino: aspetti che possono attrarre l’attenzione di Washington impegnata nel proseguire il “Pivot to Asia”, vale a dire il riposizionamento strategico – militare ed economico – per contenere la crescita cinese, e pronta a inserirsi in ogni dissidio o incomprensione tra Pechino e i Paesi vicini. Tanto più che la nascita di un Partito che si dichiara “anti-sistema”, come quello socialdemocratico vietnamita, potrebbe dare ulteriore linfa alla retorica – caduta in disgrazia in Medio Oriente – della esportazione della democrazia – nel Sud-est asiatico.