Africa, bambini condannati dalla mancanza di farmaci

«Quando è arrivato il momento ed ho avvertito i dolori sono andata con mia madre da un’ostetrica tradizionale» racconta Satta, una ragazza del distretto di Kailahun, in Sierra Leone. Di fronte alle complicazioni del parto, l’ostetrica dice alla donna di andare in ospedale. «Era notte. Ci siamo incamminate. Poi delle persone mi hanno aiutata, mi hanno portato in braccio. Sentivo così tanto dolore. Ho avuto il bambino alla clinica. Ma era morto».
Oltre ad aver dato alla luce un figlio morto, Satta, protagonista di una storia come tante di molti paesi dell’Africa sub-sahariana, ha dovuto pagare 80mila leones, (30 euro circa) per l’assistenza medica. Soldi chiesti in prestito a parenti e amici, come tradizione nelle società allargate africane.

La testimonianza di Satta è stata raccolta dalla Ong internazionale Save the Children, che, con il suo ultimo rapporto “Paying with their lives”, ci informa che in Africa 800 bambini ogni giorno muoiono a causa del mancato accesso alle cure mediche. Cure che si pagano. Al prezzo della propria esistenza, come indica il titolo della ricerca. «I bambini stanno pagando con la loro vita» ha dichiarato Carlotta Sami, direttrice dei programmi di Save the Children Italia. «Le famiglie più povere si trovano di fronte a scelte terribili per pagare una cura medica. Quando un bambino si ammala la famiglia rinuncia al cibo, è costretta a ritirare da scuola gli altri figli, a vendere quel poco che ha e a dare in affitto i propri terreni per racimolare soldi. Ciò rende questi nuclei familiari ancora più vulnerabili e li pone sotto il ricatto di pesanti debiti».

Proprio quello che è accaduto a K. Una giovane donna di Dar el Salaam, in Tanzania, che, secondo la testimonianza della sorella riportata in “Paying with their lives”, è morta dopo aver venduto tutto quello che aveva per potersi curare. «Alla fine era rimasta solo la casa, dove abbiamo aspettato che morisse – racconta la donna -. Dopo che se n’è andata mio padre ha perso la piantagione, perché non abbiamo potuto riscattarla nel tempo stabilito». Nei numerosi paesi dell’Africa sub-sahariana in cui, in nome del miglioramento dell’efficienza del sistema sanitario, le ricette del liberiste di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale impongono il pagamento dell’accesso alle cure mediche, un parto cesareo arriva a costare, facendo le dovute proporzioni, quanto in occidente si spenderebbe per un’automobile utilitaria di seconda mano.

In Sierra Leone una nascita all’ospedale costa 55mila leones, 19 euro circa, spiega il rapporto di Save the Children. Se messa in relazione al reddito pro-capite locale, questa cifra si trasforma nell’equivalente di oltre tremila euro. Una somma che anche molte partorienti del nostro paese avrebbero difficoltà a sborsare per far nascere il proprio figlio in condizioni di sicurezza. E parliamo di donne che, a differenza delle donne della Sierra Leone, non solo hanno le scarpe ai piedi, ma mangiano ogni giorno, più di una volta e con una dieta che non è a base di solo miglio o manioca.

Sulla base delle stesse proporzioni relative a cure per malattie endemiche come malaria e tubercolosi (lasciando da parte l’endemia dell’Aids), i costi pro-capite di un banale test, risultano proibitivi. A Bujumbura, capitale del Burundi, dove, soprattutto nei quartieri nord, l’incidenza di malaria è elevatissima, la cosiddetta “goccia spessa” – un semplicissimo test da effettuarsi con una puntura di spillo sul dito e l’analisi di un vetrino – costa dai 1000 ai 2000 franchi burundesi, uno o due dollari circa. Secondo i dati della Banca Mondiale relativi al 2004, il reddito procapite medio annuo di un burundese ammonta a 100 dollari. Il calcolo è dunque elementare. Il risultato è che il test, la maggior parte dei burundesi, non possono permetterselo.

In relazione alla malaria, la malattia che in Africa uccide il maggior numero di esseri umani, il rapporto di Save the Children riferisce che in Sierra Leone un ciclo di trattamento curativo per un bambino costa 18mila leones, 7 euro circa. Per guadagnare questa cifra un serraleoniano con reddito medio deve lavorare almeno due settimane. Il rapporto non ci dice quanto dovrebbe lavorare chi ha un reddito minimo di base. I 18mila leones da spendere per la cura di malaria pediatrica equivalgono, paragonati a quanto la cifra equivarrebbe per un europeo, a 1000 euro a trattamento.

Ma quanto costerebbe l’abolizione delle spese per le prestazioni mediche nei paesi in africani in cui la sanità si paga? Più o meno l’equivalente del costo di un cappuccino a persona, per un totale di meno di un miliardo e mezzo di euro l’anno. Ecco quale sarebbe la bolletta da pagare per i paesi del G8 per mettere fine a questo tsunami che non buca il video.

Per chi dovesse pensare che si tratti di una cifra elevata, l’invito è di andare a rispolverare un articolo della rivista “Time” (14 marzo 2005) a firma dell’eminente economista statunitense Jeffrey Sachs, che, mettendo in relazione la sproporzione e l’ingiustizia sociale su scala globale, sottolineava che la spesa impegnata dagli Stati Uniti lo scorso anno per la “guerra al terrorismo” su scala planetaria ammontava a 500 miliardi di dollari.

«Gli Stati uniti hanno lanciato una guerra al terrorismo ignorando le cause profonde dell’instabilità globale», scriveva Sachs poco prima che di tali questioni i grandi discutessero a Gleneagles, in Scozia. Un anno fa, con lo slogan “Make Poverty History”, i leader dei paesi ricchi riuniti in simposio si assunsero l’impegno di lavorare con i governi africani affinché questi ultimi potessero garantire cure sanitarie gratuite nei paesi e nelle aree più povere del pianeta. A quasi un anno dal lancio della campagna e dal concerto del Live8, solo uno stato africano ha parzialmente eliminato i costi sanitari, lo Zambia, con l’aiuto del governo della Gran Bretagna.

Quanto accade altrove è scritto in “Paying with their lives”.