Il mercato dell’energia dopo il COVID19. Intervista a Demostenes Floros

demostenes petroliointervista di Andrea Turi

da http://www.cese-m.eu

La seguente intervista è stata realizzata nel contesto di un lavoro più ampio riguardante l’Asia nel mondo post-pandemia
.

Dottor Floros*, per prima cosa la ringrazio per la sua disponibilità. Entriamo subito nel merito della questione. Per quanto riguarda il settore energetico (petrolio e gas), l’emergenza Covid-19 si inserisce in uno scenario di tensione più o meno latente che ha visto un recente crollo dei prezzi; ma questo fatto non è che l’ultimo sviluppo – incidentale, probabilmente – di una situazione di frizione tra i maggiori produttori mondiali (Usa, Arabia Saudita e Russia) che si protrae da tempo. Prima di entrare nel merito di come il Coronavirus impatterà lo scenario energetico futuro, puoi farci una breve cronistoria di come siamo giunti a questo punto?


A marzo 2020, l’irrompere della crisi da covid-19 nel mercato dell’energia ha comportato la chiusura di una ciclo che era iniziato nel secondo semestre del 2014 quando i prezzi del greggio crollarono da quasi 120 $/b a meno di 50 $/b (Brent North Sea). Nel contempo, si è aperta una nuova fase dagli esiti potenzialmente dirompenti.

Più precisamente, nonostante un marcato surplus dell’offerta e la cessazione del Quantitative Easing da parte della Federal Reserve che aveva contribuito in maniera significativa nel sostenere i prezzi del barile, le Petromonarchie del Golfo – guidate dall’Arabia Saudita – si opposero con forza al taglio della produzione durante l’OPEC meeting del 30 novembre 2014 e decisero di inondare il mercato, provocando il crollo dei prezzi.

Sullo sfondo, un intreccio di conflitti geopolitici, a partire da quello tra Arabia Saudita e Iran che andava ben oltre la sede dell’OPEC, tra produttori convenzionali versus non convenzionali (i cosiddetti frackers Nord-Americani), fino allo scontro tra gli Stati Uniti d’America – spalleggiati dalla subalterna Unione Europea – e la Federazione Russa nel Maidan ucraino (colpo di Stato a febbraio 2014).

Mi si conceda di levarmi un piccolo sassolino dalla scarpa. Al tempo, la maggior parte degli analisti ritenne che il crollo del petrolio fosse in primo luogo ascrivibile alla volontà saudita di mettere fuori mercato il tight oil Usa. Io invece fu uno tra i pochi – se non l’unico – che indicò nel comune obiettivo saudita-statunitense di sbarazzarsi degli ayatollah, così come dei siloviki tornati padroni in patria, la ragione principale del crollo dei prezzi.

Seguì un periodo caratterizzato da oscillazioni di prezzo comprese tra i 30-50 $/b che si concluse il 30 novembre 2016 quando la neonata organizzazione a guida russo-saudita OPEC plus – e non più l’OPEC a trazione saudita – decise di tagliare l’output di 1.200.000 b/g al fine di sostenere l’oro nero.

E’ importante precisare che la nascita dell’OPEC plus – successivamente trasformata in organismo permanente – e tutti gli accordi raggiunti in tale sede nel periodo novembre 2016-19 furono il risultato politico della vittoria militare ottenuta dalla Federazione Russa in Siria, dove Mosca era intervenuta nel rispetto del diritto internazionale a partire dal 30 settembre 2015 in supporto all’esercito regolare siriano di Bashar al-Assad.

Si giunge così a marzo 2020, quando i russi rifiutano la proposta saudita avanzata in sede OPEC plus e volta ad incrementare i tagli in essere già rafforzati a dicembre 2019 (1.800.000 b/d, ma nei fatti 2.100.000 b/d), perché ciò avrebbe comportato l’ennesima perdita di quote di mercato in favore dei frackers Usa, e non con l’obiettivo di affossare l’OPEC plus e il rapporto con l’Arabia Saudita, come da più parti si è erroneamente affermato.

Questa “tavola rotonda” virtuale intende parlare soprattutto di Asia, continente in cui si trovano due dei grandi produttori energetici globali, la Federazione Russa e l’Arabia Saudita. È chiaro che in questa contesa energetica è in palio la leadership del mercato. Quali sono le strategie, i punti di forza e le debolezze di questi due Paesi?

Premesso che entrambi i paesi godono di riserve significative, nonché di compagnie (anzitutto pubbliche) tra le più importanti al mondo (Aramco, Rosneft, Gazprom tanto per citare le principali), l’Arabia Saudita gode di due vantaggi.

In primo luogo, è il Paese con i più bassi costi di estrazione al mondo.

In secondo luogo, può contare sul sostegno finanziario del Fondo Sovrano nazionale (Public Invest Fund), undicesimo per valore su scala globale con circa 320 miliardi di dollari (erano 720 miliardi di dollari nel 2014).

I limiti di Riyadh sono invece dati da un alto pareggio di bilancio fiscale fissato a 82 $/b prima dello scoppio della crisi e dal cambio ancorato al dollaro (currency-peg) che non permette al riyal di deprezzarsi quando la rendita energetica diminuisce. Jadwa Investments stima che il deficit di bilancio Fiscale della Petromonarchia supererà i 61 miliardi di dollari nel 2020.

Da un punto di vista strategico, il limite principale dell’Arabia Saudita risiede nel rapporto storico che ha stretto nel contesto della Guerra Fredda con gli Stati Uniti d’America e che potremmo riassumere con l’espressione di petrolio versus protezione militare.

Dati alla mano, dal 2008 al 2019, le importazioni statunitense di greggio saudita sono diminuite da 1.529.000 b/g a 530.000.000 b/g.

Nel contempo, la Cina è divenuta il principale importatore di greggio (e gas naturale) al mondo con 13.600.000 b/g, il cui primo fornitore è proprio Riad con 1.670.000 b/g nel 2019, seguita a strettissimo giro da Mosca con 1.550.000 b/g.

Nonostante costi di estrazione poco più alti di quelli sauditi e condizioni climatiche meno favorevoli al fine di modificare l’operatività di un pozzo, la Federazione Russa appare come il produttore finanziariamente più stabile.

Secondo i dati della Banca Centrale di Russia, al 1° febbraio 2020, le riserve totali del paese avevano raggiunto i 580 miliardi di dollari di cui 2.279,2 tonnellate di oro per un valore di oltre 119,7 miliardi di dollari al 1° marzo 2020.

Il secondo vantaggio della Federazione Russa consiste nella flessibilità del tasso di cambio. Infatti, in base alle statistiche del Ministero delle Finanze, per ogni punto di deprezzamento del rublo nei confronti del dollaro, le entrate russe aumentano di 70 miliardi di rubli al giorno, equivalenti a 969 milioni di dollari. Le major russe beneficiano di questa situazione dal momento che incassano dollari, ma saldano i costi in rubli.

L’equilibrio di bilancio Fiscale della Federazione Russa precedente la crisi era stato fissato dal governo tenendo conto di un prezzo del barile di 41,80 dollari e un tasso di cambio di 75 rubli per 1 dollaro.

La crescita del Prodotto interno lordo prevista prima della crisi all’1,9% nel 2020 non verrà rispettata e il bilancio Fiscale del paese chiuderà in deficit visto che la rendita da greggio e gas naturale è stimata in calo di 3 trilioni di rubli (39,5 miliardi di dollari).

Nonostante il governo russo abbia precisato che a 30 $/b tutte le spese dello Stato sono sostenibili per un arco temporale di 4 anni, esso sta attualmente riadattando il break-even price (pareggio di Bilancio) con un costo di 20 $/b per il resto del 2020.

Nel medio periodo, invece, la dirigenza russa è conscia delle ripercussioni negative che un eventuale deprezzamento del rublo avrà, sia sul tasso di inflazione del paese atteso crescere del 3,8-4,8% nell’anno corrente, sia sul potere d’acquisto dei salari diretti e differiti.

Sebbene in questa contesa energetica ci sia in palio la leadership del mercato, russi e sauditi sono consapevoli che nel medio periodo le conseguenze della crisi da covid-19 graveranno specialmente sulle spalle dei produttori con il break-even price (prezzo di pareggio) più alto.

I rapporti tra Mosca e Riad tirano in ballo anche Washington. Qual è la parte degli Stati Uniti, invece, in questo scenario?

La causa principale dello squilibrio presente nel mercato che precede la pandemia è il forte incremento della produzione Usa dato dall’uso della tecnica della fratturazione idraulica, massicciamente utilizzata a partire dall’era Obama. Basti pensare che la produzione petrolifera statunitense era costantemente diminuita dal 1971 al 2008, per poi esplodere dal minimo di 3.932.000 b/g a settembre 2008 fino al massimo di 13.100.000 b/g a marzo 2020, nonostante costi di estrazione – in media, attorno ai 50 $/b – notevolmente più alti rispetto a quelli russo-sauditi.

Nei fatti, ad ogni accordo OPEC plus sulla riduzione della produzione volto a sostenere i prezzi, corrispondeva un incremento dell’output statunitense con tanto di trasferimento di quote di mercato ai frackers Usa.

A crisi da covid-19 ampiamente conclamata, Riad ha inizialmente aumentato la produzione fino a 12.300.000 b/g estratti all’inizio di aprile 2020. Dopodiché, ha dovuto tenere conto del contenuto della lettera inviatale da sei Senatori Repubblicani il 31 marzo 2020, nella quale si “suggeriva” al Regno wahabita di recedere dal ripercorrere la strategia implementata nella seconda metà del 2014, bensì di contribuire al raggiungimento di un accordo concernente i tagli produttivi.

In questa guerra a tre, chi ha maggiori possibilità di spuntarla e chi di rischiare, per così dire, l’osso del collo? Siamo davanti ad un gioco “zero-sum”?

Non credo che ci troviamo dinanzi a un gioco a somma zero, tutt’altro.

Senza dubbio, gli Stati Uniti d’America sono coloro i quali rischiano di più perché la produzione cosiddetta non-convenzionale (fracking) ha un tasso di sfruttamento del pozzo compreso tra il 50-85% nel corso dei primi due anni, a fronte di un 5% della produzione convenzionale. Questo vuol dire che i frackers devono continuamente aumentare il numero delle perforazioni al fine di mantenere l’output costante.

Nella produzione non-convenzionale, ciò vale anche per il gas naturale (shale gas), il quale è una sorta di by-product (prodotto derivato) del petrolio cioè, è ottenibile in virtù dell’estrazione di “oro nero” che permette – tecnicamente, ma soprattutto finanziariamente – di sostenere quella del cosiddetto “oro blu”.

Non a caso, parallelamente all’estrazione di tight oil, negli Usa, sta diminuendo anche quella di shale gas. Anzi, il calo ha temporalmente riguardato prima il gas e poi il greggio.

Inoltre, negli ultimi 10 anni, il fracking non ha quasi mai generato un cash flow (flusso di cassa) positivo per la maggior parte degli operatori del settore oil & gas. In sostanza, l’estrazione di combustibili fossili tramite fratturazione idraulica non è finanziariamente sostenibile, oltre ad essere ecologicamente devastante.

Negli Usa, questa situazione sta determinando un vero e proprio scontro tra i piccoli e medi operatori versus le grandi compagnie che il commissario alle Ferrovie texane, Ryan Sitton, ha tentato di sopire – inutilmente – proponendo la riduzione della produzione petrolifera del paese, nonostante le leggi antitrust Usa lo proibiscano.

Di seguito, le parole che Sitton pronunciò nel corso di un’intervista per Bloomberg il 4 maggio scorso:

Quando la domanda tornerà a 90-95 milioni di b/g, il paese con la maggior perdita di produzione di petrolio saranno assolutamente gli Stati Uniti, saremo stati i grandi perdenti nel settore petrolifero globale”.

La Federazione Russa ha invece la possibilità di uscire vincitrice dalla diatriba, anche perché rafforzerà la propria leadership tra i paesi esportatori di gas naturale. Ad oggi, la guerra nel mercato dell’energia si è focalizzata sul barile ma, tra qualche mese, sono certo che riguarderà anche il metano.

Senza dubbio, anche l’Arabia Saudita ha tutte le carte in regola per rafforzare la propria leadership di esportatore di greggio, ma per Riad non sarà facile affrontare la contraddizione data dal rapporto con la Russia in seno all’OPEC plus e dal legame – sempre meno – “ombelicale” con gli Usa.

Intanto, il 12 aprile 2020, dopo quattro giorni di trattative frenetiche che nemmeno il G20 aveva ricondotto a sintesi, l’OPEC plus ha raggiunto un accordo – di principio – per tagliare la produzione petrolifera di 9.700.000 b/g a maggio e giugno. Da luglio, fino al 31 dicembre 2020, i tagli saranno ridotti a 8.000.000 b/g per poi diminuire a 6.000.000 b/g da gennaio 2021 fino al 30 aprile 2022. Cosa comporta questo accordo?

Tenuto conto che la domanda petrolifera mondiale è crollata di oltre 30.000.000 b/g ad aprile 2020 sui circa 100.000.000 b/g consumati prima della crisi, l’accordo prevede che i membri dell’OPEC plus siano – vincolati – al taglio di circa 10.000.000 b/g dei quasi 45.000.000 b/g estratti a gennaio 2020.

La Federazione Russa e l’Arabia Saudita hanno fissato il loro output a 8.500.000 b/g, rispetto agli oltre 11.000.000 b/g e 12.000.000 b/g prodotti ad aprile 2020. Mosca, avendo ridotto il proprio output al medesimo livello di quello di Riad, ha implicitamente accettato che le esportazioni saudite rimanessero attorno all’80% della produzione a fronte del 50% di quelle russe. Senza dubbio, un sacrificio non indifferente, ma dal chiaro significato politico.

L’accordo inoltre, prevede che anche i produttori al di fuori dell’OPEC plus riducano l’output. Tra essi, i principali sono la Norvegia, il Canada, il Brasile e gli Stati Uniti d’America. Il problema però è dato dal fatto che l’ammontare del loro taglio non è quantitativamente chiaro e soprattutto, non è vincolante.

A mio avviso, l’accordo diminuirà in maniera importante il surplus dell’offerta presente nel mercato, ma non lo riporterà in equilibrio prima del 2021.

Questa battaglia – come l’emergenza sanitaria – avrà risvolti difficilmente prevedibili e mai registrati in precedenza, capaci, però, di rimescolare le carte in quadranti geopolitici delicati negli equilibri tra potenze. Quali sono gli scenari che potrebbero essere maggiormente influenzati da questa situazione?

Inoltre, le relazioni internazionali ed estere di questi Paesi potrebbero subire uno sconvolgimento oppure la competizione lascerà spazio ad una collaborazione reciproca?

Al fine di rispondere alla domanda, è necessaria la seguente premessa: gli Stati Uniti d’America non sono un paese energicamente indipendente, o prossimi all’autosufficienza energetica, come si è erroneamente affermato da più parti.

In base alle statistiche fornite dal BP Statistical Review 2019, nel 2018, gli Usa hanno avuto una dipendenza dall’estero pari all’8,3% dei propri consumi di energia primaria, senza dubbio in forte diminuzione rispetto al 20% registrato nel 2013. Ciò è stato possibile grazie alla tecnica del fracking.

In attesa, del prossimo report di luglio 2020, il rischio che il trend della dipendenza Usa post covid-19 possa subire una nuova inversione di tendenza con conseguente incremento delle importazioni di materie prime è piuttosto concreto.

Se così fosse, ciò avrà una serie di ripercussioni nella politica estera statunitense. Quest’ultimi saranno costretti a rivedere parte dei loro piani in Medioriente e America Latina, ma non solo. Basti pensare alle “molecole di libertà” dello shale gas Usa che dovrebbero affrancare i paesi europei dal “ricatto” del gas russo, cosa di per sé alquanto improbabile come spiego dettagliatamente nel mio saggio Guerra e Pace dell’Energia.

Nell’articolo “The Coronavirus Pandemic Will Forever Alter the World Order” / “La pandemia da Coronavirus altererà per sempre l’ordine mondiale”, pubblicato dal Wall Street Journal il 3 aprile 2020, Henry Kissinger afferma che è necessario “salvaguardare i principi dell’ordine mondiale liberale”. […]. “Le democrazie mondiali devono difendere e sostenere i loro valori dell’Illuminismo. […]. È necessaria la moderazione di tutte le parti, sia nella politica interna che nella diplomazia internazionale”.

Kissinger avverte con lucidità e lungimiranza la crisi di egemonia dell’Occidente e in particolare, degli Stati Uniti d’America, la quale potrebbe determinare la fine del periodo storico nato sulle ceneri del crollo dell’Urss e del Patto di Varsavia.

La collaborazione reciproca” dipenderà dal rapporto di forza che riusciranno eventualmente a mettere in campo gli altri attori internazionali, a partire da quello russo-cinese.

Ovviamente, molto dipenderà anche da chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca e dalla situazione economica che si troverà a dover affrontare.

Permettimi una piccola deviazione sulla Cina. Come uscirà il colosso asiatico dall’emergenza pandemica e come questa battaglia energetica ne influenzerà il futuro almeno più prossimo?

Come affermavo al settimanale Sabato Sera il 26 marzo scorso, la Cina ne uscirà “notevolmente rafforzata nel panorama internazionale”.

In quell’intervista, evidenziavo tre aspetti.

In primo luogo, il fatto che “il paese di mezzo” avesse fortemente “investito nel sistema sanitario e nella formazione del personale, in ricerca e tecnologia”.

In secondo luogo, sottolineai “la disciplina e il legame tra il gruppo dirigente del paese e il popolo, un aspetto che non sussiste più da tempo nei Paesi occidentali”.

Da ultimo, espressi preoccupazione per il fatto che “il portavoce del ministro degli Esteri di Pechino avesse apertamente accusato gli Stati Uniti d’America in merito alla diffusione del covid-19 sul loro territorio, quando in precedenza la diplomazia cinese aveva sempre preferito mantenere un profilo basso”, a riprova del livello dello scontro raggiunto dalle due super potenze.

Detto ciò, la Cina non ha alcun interesse ad alzare il livello dello scontro, come dimostrano i dati che seguono.

In termini nominali, nel 2019, il Pil Usa ha raggiunto i 21.4 trilioni di dollari, mentre quello della Cina ha superato i 14.1 trilioni di dollari, riducendo ancor di più la forbice tra i due paesi. In termini di parità di potere d’acquisto invece, Pechino aveva già superato Washington a dicembre 2014 e la forbice si sta costantemente allargando visti i 27.3 trilioni di dollari toccati l’anno trascorso.

Terminata la fase sanitaria più acuta, ritengo che sarà fondamentale ricalcolare il peso delle economie di Stati Uniti e Cina, nonché l’evoluzione quantitativa e qualitativa delle loro manifatture (là dove si crea il plusvalore). Secondo il report Confindustria di maggio 2009, le quest’ultime pesavano rispettivamente per il 17,2% e il 28,5% della manifattura globale.

Negli anni a venire, la crescita della domanda petrolifera cinese verrà soddisfatta dall’incremento delle importazioni saudite, russe e angolane. Detto ciò, tenuto conto che il paniere energetico della Cina è tutt’ora soddisfatto per il 58% dal carbone (era il 66% nel 2013), l’impellente necessità di aumentare il peso del gas naturale dall’attuale 6-7% all’11-12% non potrà che rafforzare il legame con la Federazione Russa.

E gli altri produttori dell’area del Golfo che conseguenze avranno?

Tra i principali produttori dell’area del Golfo, ma non solo, nonostante l’Iran, il Venezuela e la Libia siano stati esclusi dai tagli, sono tra i produttori potenzialmente più esposti alla crisi insieme alla Nigeria e all’Algeria, le cui riserve valutarie sono crollate da 97 a 62 miliardi di dollari.

Secondo Moody’s l’Oman, il Bahrain, l’Angola (OPEC) e l’Iraq (OPEC) vedranno diminuire la rendita mineraria del 4-8% del Pil, nel caso in cui gli attuali prezzi persistano nel corso dell’anno. Minori entrate dell’ordine di meno del 3% del Pil invece riguarderanno il Qatar, l’Azerbaijan, il Kazakhstan.

Nel primo numero di Geopolitica dell’Energia pubblicato dal Centro Europa Ricerche, si parla di imbarazzante l’indifferenza manifestata dall’Unione Europea durante il G20 del 10 aprile relativamente alla questione energetica. Quali sono le motivazioni che spingono ad affermare questo, in questo contesto e, visto che parliamo di Europa, quale sarà il ruolo dell’Italia?

Nello specifico, riportavo una considerazione del presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, secondo il quale i membri dell’Unione Europea “devono comperare petrolio da destinare a scorte e da utilizzare quando si tornerà alla normalità […] perché un barile a 10 dollari uccide anche le fonti alternative”.

Tabarelli metteva in luce due limiti delle politiche comunitarie e cioè, l’indifferenza nel contribuire al riequilibrio del mercato petrolifero e quanto fosse ridicolo parlare di rinnovali mentre il prezzo del barile sprofondava in territorio negativo.

A mio avviso, tale ottusità diveniva “imbarazzante” se si teneva conto del paniere energetico dell’UE, il quale è coperto dal petrolio per il 38% dei consumi di energia primaria.

L’Italia ha un mix energetico molto particolare visto che utilizza petrolio e gas naturale per il medesimo ammontare (39%, nel 2018). Il nostro paese dovrà fare molta attenzioni agli sviluppi futuri nel mercato del gas, rafforzando il rapporto con la Federazione Russa e tentando nel contempo di perseguire un legittimo processo di diversificazione dei fornitori come spiego in dettaglio in Guerra e Pace dell’Energia.

Come cambierà il mercato energetico nel mondo post-pandemia?

La pandemia determinerà una distruzione di capacità produttiva anche nel mercato dell’energia, ad oggi non ancora stimabile. Nel contempo, si verificheranno una serie di processi di concentrazione e centralizzazione del capitale, a partire anzitutto dagli Stati Uniti d’America.

Coloro i quali ritengono che siamo prossimi ad un’accelerazione della transizione energetica verso le rinnovabili credo che sbaglino. Penso invece che si determinerà una transizione della proprietà da privata a nazionale che farà emergere il ruolo centrale delle major che sono sotto la proprietà/controllo dei rispettivi Stati nazionali (NOC-National Oil Companies) o che godono del supporto dei SWF-Sovereign Wealth Fund (Fondi Sovrani).

Sullo sfondo, emergerà in maniera sempre più chiara il ruolo centrale che il gas naturale avrà nell’accompagnarci verso il mondo delle rinnovabili, ma nessuno potrà garantirci che tale passaggio avverrà pacificamente, né che non sia necessario un vero e proprio cambiamento dell’intero paradigma economico.

*Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico, è docente a contratto presso il Master in Relazioni Internazionali Italia-Russia, dell’Università di Bologna Alma Mater, oltre ad essere responsabile e docente dell’ottavo corso di Geopolitica istituito presso l’Università Aperta di Imola (Bologna).

Ha collaborato con Abo www.abo.net e la rivista WE-World Energy editi da ENI e con il sito www.limesonline.com e la rivista di geopolitica Limes. Tra le sue collaborazioni: Energy International Risk Assessment EIRA, Blue Fuel, www.oilprice.com.

Dal 2019, è Senior Energy Economist presso il CER-Centro Europa Ricerche, www.centroeuroparicerche.it/. E’ stato Consigliere Economico del Consolato Onorario della Federazione Russa in Bologna. Demostenes Floros è nato il 5 maggio 1976 a Medicina (Bologna), Italia.