Il nuovo risiko dell’energia nel Golfo

iran nowardi Demostenes Floros

da https://www.aboutenergy.com

La morte del generale iraniano Suleimani ha messo in evidenza il ruolo della Cina negli equilibri geopolitici connessi all’area del Golfo: l’Iran è un tassello fondamentale nella Nuova Via della Seta. Almeno per tre motivi

Dopo l’assassinio di Qassem Suleimani, capo delle Guardie Islamiche, e di Abu Mahdi Almuhadis, capo di Kata’ib Hezbollah, avvenuto all’alba del 3 gennaio 2020 a Baghdad, l’Iran ha reagito bombardato le basi americane in Iraq di al-Asad (area a maggioranza sunnita) e di Erbil (Kurdistan iracheno), evitando rappresaglie che potessero mettere a repentaglio l’export di petrolio nel Golfo, da cui transitano all’incirca 18.000.000 b/g, poco meno del 20% del fabbisogno globale di oro nero. Secondo il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, la reazione iraniana non ha causato alcuna perdita tra i soldati USA: “La valutazione di vittime e danni si sta verificando ora. Fin qui tutto bene!”, ha twittato il 7 gennaio 2020. In realtà, quasi tutti gli analisti occidentali hanno messo in evidenza la natura sostanzialmente dimostrativa della risposta dell’Iran.

Correttamente, il giorno prima, Gianandrea Gaiani, direttore di analisidifesa.it, aveva anticipato che Teheran “non avrebbe dovuto commettere l’errore di colpire, i paesi arabi alleati di Washington nella regione, né le strutture petrolifere situate negli Stati del Golfo Arabo, ma solo bersagli statunitensi per accentuare l’isolamento degli USA dagli stessi paesi tradizionalmente amici della regione i quali, con l’esclusione di Israele, mostrano preoccupazione per le possibili conseguenze dell’eliminazione di Suleimani”. Non a caso, il 10 gennaio, il Primo Ministro iracheno, Adel Abdul-Mahdi, ha chiesto di inviare una delegazione di Washington a Baghdad per parlare dei meccanismi di ritiro delle truppe straniere dall’Iraq. “Non discutiamo nemmeno del ritiro delle truppe” è stata la replica del Dipartimento di Stato. Alla notizia della morte del generale iraniano Suleimani, il prezzo del barile è aumentato del 4% circa. Tuttavia, nei giorni seguenti, il costo dell’oro nero è diminuito.

Il rischio geopolitico è quindi venuto meno? Per cercare di rispondere a questa domanda, è importante inquadrare correttamente l’oggetto del contendere.

La centralità della Cina

A causa delle sanzioni statunitensi, le esportazioni iraniane di greggio sono crollate dai 2.151.250 b/g nel 2017 a 1.850.440 b/g nel 2018 sino ai 599.000 b/g stimati nel 2019. L’unico paese che negli ultimi mesi ha ripreso ad aumentare le importazioni di petrolio dall’Iran – nonché dal Venezuela, la cui produzione ha oltrepassato i 910.000 b/g a dicembre 2019 – è la Cina. Nell’ambito del progetto infrastrutturale denominato Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), il Paese di Mezzo ha deciso di investire 400 miliardi di dollari nell’ex Persia, di cui 280 miliardi di dollari nell’industria petrolifera, gasiera e petrolchimica e 120 miliardi di dollari in infrastrutture dei trasporti, tra cui oleodotti e gasdotti. La Cina ha frattanto rafforzato il proprio ruolo di principale importatore di petrolio al mondo, raggiungendo 11.180.000 b/g a novembre 2019.

Inoltre, secondo quanto dichiarato dal Primo Ministro Iracheno, Adil Abdul-Mahdi, il Generale iraniano Suleimani è stato assassinato proprio nel momento in cui stava portando con sé una lettera – a nome della leadership iraniana – su come ridurre le tensioni con l’Arabia Saudita. Nel corso del 2019, il Regno Saudita è tornato ad essere il primo fornitore cinese di petrolio, dopo essere stato sopravanzato dalla Federazione Russa nel biennio 2017-18. Al contempo, la Russia è giunta ad estrarre 11.250.000 b/g, record dal crollo dell’Unione Sovietica. Nello specifico, secondo la China General Administration of Customs, a ottobre 2019, l’import cinese di greggio saudita ha toccato il record di 1.980.000 b/g; a ottobre 2018, era stato di 1.120.000 b/g (+76% anno su anno).

L’Iran: una carta fondamentale per la Nuova Via della Seta

Secondo Simon Watkins, analista di oilprice.com, “Dal punto di vista della Cina, la Belt and Road Initiative – che cambierà per sempre l’equilibrio del potere politico globale – dipende totalmente dalla partecipazione dell’Iran per tre ragioni chiave. In primo luogo, l’Iran è strettamente coinvolto negli affari di quei paesi che costituiscono la mezzaluna sciita del potere – Libano [Hezbollah], Siria, Iraq e Yemen – che consente alla Cina di tenere sotto controllo gli Stati Uniti in Medio Oriente. In secondo luogo, rappresenta una rotta terrestre diretta in Europa, attraverso la Turchia, gli Stati dell’ex Unione Sovietica e la Russia. In terzo luogo, l’Iran ha enormi riserve di petrolio e gas naturale”.

L’eventuale scoppio di un conflitto militare USA-Iran interromperebbe la costruzione del tratto più importante della Via della Seta. Di converso, non si può escludere che il raggiungimento di un accordo possa prevedere la richiesta statunitense di un disimpegno iraniano dal progetto come ha messo in luce il sinologo Francesco Sisci. Il 9 gennaio 2020, nel corso del discorso al corpo diplomatico, Papa Francesco ha dichiarato “che le tensioni gravi tra USA e Iran rischiano anzitutto di mettere a dura prova il lento processo di ricostruzione dell’Iraq, nonché di creare le basi di un conflitto di più vasta scala che tutti vorremmo poter scongiurare”.

Forse, non proprio tutti. Infatti, il dubbio è che nei mesi a venire il rischio geopolitico possa riemergere con forza soprattutto, se chi ha deciso l’assassinio di Suleimani non abbia intenzione di togliere di mezzo anche Donald Trump. A maggior ragione, nel caso in cui il presidente statunitense fosse stato costretto a mentire in merito al numero reale di vittime americane seguito alla reazione militare iraniana.

Ultimi dati e stime sull’oil & gas

Conformemente alle cifre fornite dall’Oil Market Report pubblicato dall’International Energy Agency (IEA) il 12 dicembre 2019, la domanda globale di petrolio è cresciuta di 900.000 b/g nel corso del III trimestre 2019 in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’offerta globale di petrolio è prevista in calo di 500.000 b/g rispetto all’output di 101.360.000 b/g raggiunto a novembre 2018. Le scorte commerciali dell’OCSE sono decresciute di 30.500.000 barili a ottobre 2019 (mese su mese), per un totale di 2.904.000.000 barili, 2.900.000 barili al di sopra della media degli ultimi 5 anni. La IEA stima che la crescita della domanda 2019 e 2020 sarà rispettivamente pari a 1.000.000 b/g e 1.200.000 b/g.

Secondo le statistiche stilate dal Drilling Productivity Report divulgato dall’Energy Information Administration (EIA) il 16 dicembre 2019, la produzione di greggio non convenzionale USA è prevista aumentare di 30.000 b/g, per complessivi 9.135.000 b/g, a gennaio 2020. L’output di greggio statunitense, dopo il precedente picco di 9.627.000 b/g raggiunto ad aprile 2015, è decresciuto fino al minimo di 8.428.000 b/g toccato il 1 luglio 2016. Dopodiché, esso ha ripreso ad aumentare fino a record stimato di 12.900.000 b/g toccato il 22 novembre 2019 e mantenuto a dicembre 2019 (stime settimanali).

Secondo le statistiche divulgate da Baker Hughes il 6 gennaio 2019, le 796 trivelle attualmente attive negli Stati Uniti, di cui 670 (84,2%) sono petrolifere e 123 (15,5%), più 3 miste (0,3%), risultano essere 3 in meno rispetto a quelle rilevate il 6 dicembre 2019, il minimo dal 17 marzo 2017. Il 1 gennaio 2020, Juliane Geiger ha scritto su oilprice.com che “c’era un tempo in cui il gas naturale era accolto favorevolmente come by-product (prodotto derivato) estratto dalla trivellazione del greggio e che i produttori nel prolifico bacino del Permian godevano di questo premio di consolazione, perlomeno quando i prezzi del gas naturale erano in aumento. Però, tutte le cose belle hanno una fine visto che la quantità di gas naturale attualmente estratta supera quella domandata. Con la capacità di trasporto pienamente utilizzata e i prezzi del gas naturale completamente in rosso, i produttori nel Permian hanno di fronte a sé tre terribili opzioni: bruciare il gas naturale in eccesso, pagare qualcuno affinché ritiri il gas o rallentare le attività di trivellazione petrolifera onde fermare il flusso di gas naturale”.

A ottobre 2019, le importazioni di greggio da parte degli Stati Uniti d’America sono diminuite di 235.000 b/g a 6.243.000 b/d. Quest’ultime erano state 6.478.000 b/g a settembre, 6.944.000 b/d ad agosto 2019, 6.935.000 b/g a luglio, 7.141.000 b/g a giugno, 7.158.000 b/g a maggio, 7.025.000 b/g ad aprile, 6.759.000 b/g a marzo 2019, 6.652.000 b/g 2019 a febbraio 2019 e 7.520.000 b/g gennaio 2019. Nel corso dei primi dieci mesi del 2019, la media dell’import di greggio statunitense è stata di 7.017.000 b/g, in diminuzione rispetto ai 6.957.000 b/g nel 2018 e ai 7.969.000 b/g nel 2017.

Il trend petrolifero e valutario

A dicembre 2019, il prezzo del petrolio ha toccato il massimo da tre mesi a questa parte in virtù dei seguenti fattori economici e geopolitici:

1. Il 6 dicembre, i 24 paesi che compongono l’OPEC+ hanno incrementato i tagli estrattivi per un ammontare di 500.000 b/g, portandoli da 1.200.000 b/g a 1.700.000 b/g fino al 31 marzo 2020, con lo scopo di ridurre l’attuale eccesso di offerta presente nel mercato petrolifero;

2. In base alle stime fornite dall’International Energy Agency il 27 dicembre, le scorte commerciali USA sono diminuite da 447.096.000 barili il 29 novembre a 441.359.000 barili il 20 dicembre;

3. Il 13 dicembre, gli Stati Uniti d’America e la Cina hanno annunciato di avere raggiunto un primo accordo commerciale. In virtù di ciò, la Cina ha rimosso sei derivati chimici e petroliferi dalla lista delle importazioni USA soggette a tariffe;

4. Secondo le statistiche divulgate da Bloomberg News il 17 dicembre, le importazioni medie di greggio da parte della Cina hanno toccato 11.180.000 b/g a novembre 2019, record da sempre. A dicembre, la qualità Brent North Sea ha aperto le contrattazioni a 60,98 $/b e le ha chiuse a 66,16 $/b (+24% dall’inizio dell’anno), mentre il West Texas Intermediate ha aperto scambiando a 55,64 $/b per poi chiudere a 61,41 $/b (+36% nel 2019). Xulio Rios, direttore dell’Osservatorio della Politica Cinese, ha detto: “Indipendentemente dall’accordo sottoscritto da Stati Uniti d’America e Cina il 15 gennaio 2020, questo tipo di armistizio non implica un’intesa che risolva le controversie sollevate. Le due parti sono pienamente consapevoli dei suoi limiti”.