La crisi dell’Occidente, in mano a pochi vampiri ciechi

deutschebankdi Claudio Conti

da contropiano.org

Come sta il capitalismo, oggi? Se guardiamo il suo lato occidentale, la risposta è inevitabilmente: “mica tanto bene”.

La crisi della lunghissima egemonia anglosassone (prima con l’impero inglese, poi con gli Stati Uniti) è evidente da molti dati. Per esempio, la classifica Fortune sulle prime 500 imprese multinazionali dei pianeta segnala per la prima volta il sorpasso delle aziende cinesi rispetto a quelle statunitensi: 129 contro 121.

Le multinazionali Usa restano nel loro insieme leggermente in vantaggio quanto ad entrate complessive, ma la velocità di crescita di quelle cinesi è incomparabilmente più alta. Fermo restando il quadro generale, anche su questo piano il sorpasso è questione di mesi.

Situazione ancora peggiore nel sistema bancario, in cui – tenendo d’occhio gli attivi e non solo le dimensioni – il predominio cinese appare pressoché totale. L’analisi dell’Ufficio Studi di Mediobanca mette al primo posto la Industrial and Commercial Bank of China, con attivi per 3.517 miliardi di euro, davanti all’Agricultural Bank of China con 2.871 miliardi e la China Construction Bank  con 2.856 miliardi.  Il primo istituto non cinese è solo al quarto posto, con la ben nota (e famigerata) JpMorgan Chase. Poi c’è Bank of China, che vanta attivi per 2.701 miliardi.

Pubblico batte privato

Ma il dato più significativo riguarda la struttura proprietaria delle aziende dei due paesi, che descrive anche con molta precisione le differenze di sistema economico. Le multinazionali cinesi sono in genere di proprietà statale (la seconda assoluta, Sinopec Group, si occupa di petrolio ed energia), e persino la “terribile” Huawei, bandita da Donald Trump, non è neppure quotata in borsa perché “di proprietà dei dipendenti”. Una cooperativa, insomma, che si piazza al 61° posto nel mondo, subito dietro la Microsoft di Bill Gates.

Non che manchino società private anche in Cina, ma l’ossatura del sistema è fornita da quelle pubbliche, che si muovono perciò secondo una logica di pianificazione e programmazione sul medio periodo, secondo obbiettivi fissati per via politica.

Qualcosa di simile è esistito nell’Italia del boom economico, quando – Fiat a parte, politicamente però molto “assistita” – il sistema dipendeva da Eni, Enel, Iri (banche comprese), Fincantieri, Ansaldo, Finmeccanica, ecc. Si chiamava “economia mista” e ha portato questo paese dalla devastazione bellica al G7. Poi le privatizzazioni, la delocalizzazione, la preferenza (delle imprese private) per l’investimentodei profitti in attività finanziarie anziché produttive, e quindi il declino, la fuga dei giovani, l’invecchiamento della popolazione. La mancanza di futuro pur in presenza di una struttura manifatturiera ancora molto valida.

Multinazionali tedesche in crisi

Anche la pubblicazione delle “trimestrali di cassa” delle principali multinazionali ripropone una differenziazione analoga, che investe però anche la Germania e dunque l’Europa. Deutsche Bank, l’istituto più grande e scassato del Vecchio Continente ha presentato un passivo di oltre 3 miliardi di euro, nonostante un piano di ristrutturazione molto violento che porterà alla quasi scomparsa della divisione “banca di investimento”. Ossia quella che era la punta di lancia della banca tedesca, ora esposta in titoli “tossici” (prodotti finanziari derivati, cds, ecc) per oltre 20 volte il Pil della Germania.

Situazione simile per Volkswagen, per la prima volta in passivo da oltre 10 anni (ma allora c’era stata la “grande crisi” del dopo Lehman Brothers…), travolta dal dieselgate, dalla necessità di indennizzare clienti e pagare multe; ma soprattutto colpita dalla fine della “globalizzazione”, che ha tolto la base su cui si muoveva il “modello tedesco” (e dunque europeo): bassi salari interni e crescita trainata dalle esportazioni.

Ma è complessivamente la manifattura tedesca, diventata grazie all’austerità e alle leggi Hartz la capofiliera in una lunga serie di comparti, a mostrare ampiamente la corda. Ieri mattina l’indice Ifo – che segnala la “fiducia” degli investitori – è sceso a 95.7 punti; il dato precedente era 97.5, quello previsto previsto 97.1. E comunque sotto i 100 indica recessione alle porte. Stesso discorso per l’indice manifatturiero, diffuso ieri, e sceso a 43,1 punti, ai minimi da molti anni a questa parte (qui la soglia critica è sotto i 50 punti).

Il termometro della competizione globale

Abbiamo dunque questa situazione globale, relativamente alle prime tre aree macroenomiche del pianeta: a) gli Usa non riescono a riprendere un trend di crescita significativo e Trump chiede alla Federal Reserve (la banca centrale) di abbassare i tassi di interesse; b) la Cina prosegue una corsa ultra-trentennale, con un tasso di crescita “soltanto” del 6,5% (aveva più volte superato il 10, nei primi 20 anni), e sviluppa il mercato interno grazie a una politica di drastico aumento dei salari e stimoli fiscali; c) l’Unione Europea resta ferma da diversi anni, inchiodata a un “modello export oriented” che fatto il suo tempo con la fine della “globalizzazione” e la riapertura della guerra economica inter-imperialista.

Le interconnessioni, anche politiche, tra i due lati dell’Atlantico sono molto più forti che non quelle tra i due lati del Pacifico; ma sono anche legami tra due debolezze che provano a conservare un primato ormai messo in discussione dai fatti (a partire dallo sviluppo tecnologico).

Draghi, la Bce, la Fed

In questo quadro le due economie “occidentali” sembrano in grado di muovere ormai soltanto la leva monetaria, ricorrendo a riduzione dei tassi di interesse (in Usa, dove sono tra il 2 e il 2,5%) oppure a una ripresa del quantitative easing (in Europa, dove i tassi sono a zero da anni e addirittura quelli sui depositi (i fondi che le banche lasciano nelle casse della Bce, senza ritirarli e prestarli) sono negativi, allo 0,4%.

Ieri Mario Draghi ha lasciato intendere che, oltre a una nuova stagione di “denaro sparso dagli elicotteri”, potrebbero essere ulteriormente abbassati i tassi di interesse. Il che può risultare sorprendente o quanto meno illogico, perché portarli sottozero significa regalare soldi (in misura frazionale, ma reale) a chi chiede soldi in prestito. Un prova empirica dell’impazzimento della situazione economica in Occidente.

Vero è che i tassi zero valgono solo per le banche che chiedono prestiti alla stessa Bce, mentre alla clientela queste applicano uno spread (comunque ridotto al minimo, come ben sanno quanti chiedono o ricontrattano un mutuo). Ma esiste da anni, ormai, una classe di titoli di Stato che hanno questa singolare caratteristica: i Bund tedeschi.

Grazie al costante surplus finanziario annuale (il contrario del deficit), la Germania per anni ha rifinanziato il proprio debito pubblico guadagnandoci. Ossia restituendo ai prestatori meno di quanto aveva ricevuto. Questa idiozia aveva un senso solo perché gli “investitori professionali” erano terrorizzati dal rischio default di altri paesi (tra cui l’Italia), che pure garantivano rendimenti positivi e anche discretamente alti.

Una pacchia, per la Germania, che così è arrivata a emettere anno dopo anno sempre meno Bund, perché non aveva bisogno di liquidità in prestito.

Secondo gli ordoliberisti questa sarebbe una condizione ottimale, ma presenta controindicazioni piuttosto pesanti. La prima, apparentemente più innocua, è che i Bund tedeschi sono diventati merce rara. Il che è un problema, per esempio, anche per la Bce che – per accordi intervenuti al tempo del primo mega-acquisto di titoli di Stato per “immettere liquidità” nel sistema finanziario – dovrebbe acquistare soprattutto titoli “sicuri”. Il che costringe ad adottare altre “misure non convenzionali”, ossia non previste dallo statuto Bce e in larga misura “scommesse”.

Soprattutto, però, questa strategia è già fallita. L’obbiettivo di riportare il tasso di inflazione vicino al 2% – che le teorie neoliberiste considerano “ottimale” per garantire un crescita “equilibrata” – non è stato mai raggiunto in otto anni di presidenza Draghi.

Le iniezioni di liquidità sono state certamente utili ad impedire l’esplosione del sistema finanziario e la tenuta della moneta unica, ma non si sono mai trasmesse – se non in misura infinitesimale – all’economia reale. L’equilibrio raggiunto è quello di una crescita anemica, più vicina allo zero che all’uno in tutta Europa; una situazione di non-vita e non-morte che difficilmente può essere presentata come un segno di efficienza del capitalismo europeo.

L’altra via – quella seguita per esempio dalla Cina (aumento dei salari, sviluppo del sistema di welfare e investimenti pubblici) – è una bestemmia alle orecchie dei tecnocrati di Bruxelles.

Un suicidio per tutta l’area continentale, inchiodata ai ristretti interessi di bottega di un piccolo gruppo imprese e banche sull’orlo di una crisi di nervi. Quattro vampiri ciechi che credevano di aver trovato la via facile per rifornirsi sempre di sangue fresco…