«Un punto di non ritorno»

intervista a cura di Geraldina Colotti | su il Manifesto

 

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ELIKIA M’BOKOLO · Lo storico africano analizza le conseguenze della situazione in Libia

 

«Prima Saddam Hussein, ora Muammar Gheddafi, il messaggio delle potenze occidentali è chiaro: non siete padroni in casa vostra. Dopo quella al comunismo, ora è in corso una guerrra contro i popoli del sud per il possesso delle loro risorse». Così lo storico congolese Elikia M’Bokolo commenta a caldo l’uccisione del Colonnello libico. Nato a Kinshasa nel ’44, M’Bokolo ha dovuto abbandonare il suo paese nel ’61, dopo l’assassinio del padre dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba, e si è trasferito con la famiglia in Francia. Autore di numerose opere sulla storia del continente africano (in Italiano L’invenzione dell’etnia, scritto insieme a Jean-Loup Amselle e pubblicato da Meltemi nel 2008), dirige il Centro per gli studi africani all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Lo abbiamo incontrato a Parma, ospite di un seminario organizzato dall’associazione Kuminda e abbiamo discusso di Africa, democrazia e primavere arabe.

 

Qual è il suo giudizio su Muammar Gheddafi?

 

Tutti i progressisti africani sono d’accordo su un punto: il regime di Gheddafi non era l’ideale. Detto questo, io sono stato varie volte in Libia e ho potuto constatare una situazione molto diversa da quella descritta sui media occidentali. Certo, c’era un partito unico e un controllo poliziesco, ma anche uno stato sociale: scuole, ospedali, case, lavoro… Condizioni di vita imparagonabili a quelle esistenti in molti paesi dell’Africa e del Maghreb. Oggi in tutto il continente africano si costruiscono pochi ospedali e scuole ma moltissime chiese e templi. Nel mio paese, un direttore di banca guadagna circa 25-30.000 dollari, un ministro della repubblica, 10.000, un professore di liceo 35 dollari e gran parte della polazione fatica a vivere. Non ho potuto visitare le carceri libiche, né toccare con mano la repressione poliziesca, ma non ho mai assistito a un arresto per strada. Ho visto una certa teatralizzazione del potere di cui la gran parte dei libici rideva, però, bonariamente. Noi progressisti africani non abbiamo accettato che una parte del petrolio libico sia servita per uno scopo inaccettabile: l’accumulazione di armi da impiegare anche nella repressione. Si deve però riconoscere che, in questo modo, il piccolo esercito libico ha tenuto testa alle più grandi potenze per tutti questi mesi. Un’altra cosa che non abbiamo accettato è che il regime, attraverso alcuni suoi rappresentanti, abbia investito all’estero i soldi libici, li abbia depositati nelle banche estere. Questo ha permesso ai paesi occidentali di confiscare quelle risorse finanziarie. E ora dicono che ricostruiranno la Libia: ma con quei soldi, che sono soldi libici.

 

Quali conseguenze avrà la situazione in Libia nello scenario internazionale?

Alcuni aspetti della guerra in Libia provocheranno conseguenze gravissime a più lungo termine. Uno di questi è il ruolo dell’Onu in questa vicenda. L’Onu in Africa si è screditato oltre ogni limite perché il mandato votato da una decina di stati era quanto mai ambiguo e lasciava le porte aperte all’intervento militare. Un’ultima vigliaccata, che comincia nel 1935 quando la Società delle nazioni ha permesso l’aggressione italiana all’Etiopia. Ieri l’intervento armato in Costa d’avorio, oggi in Libia, domani in Siria o in Congo. E perché no in Iran, in America latina. Quando è stato eletto direttore generale Boutros Boutros Ghali e poi Kofi Annan si poteva sperare che l’Onu potesse diventare una vera organizzazione internazionale capace di occuparsi delle questioni in modo egualitario, ma ora appare evidente che le cose sono andate in un altro senso. Un altro aspetto inquietante è che, alla fine della guerra fredda, l’Africa si è trovata a essere disarmata e poco sostenuta all’interno dell’Onu, lo abbiamo visto in occasione del voto sulla Libia. Certi analisti si sono affannati a dire che la guerra fredda è finita e che la globalizzazione è pacifica, ma l’aggressività capitalista è tutta sotto i nostri occhi. Dopo la fine dell’Unione sovietica, ora la guerra è contro i paesi del sud. Dalla caduta di Saddam Hussein a oggi, il messaggio rivolto ai governi del sud che deviano dall’indirizzo convenuto, è chiaro: non ci provate. La terza cosa gravissima avvenuta in Libia è che gruppi di paesi, violando i diritti degli stati, possano armare e finanziare impunemente un’opposizione fittizia creata ex-novo, fabbricata per combattere i regimi in carica. Chi aveva mai sentito parlare prima del Consiglio nazionale di transizione? In questo senso, aveva ragione Gheddafi quando ha detto: cosa pensereste se la Libia venisse ad armare la vostra opposizione interna, per esempio i baschi in Spagna? La più forte coalizione mai vista, che non ha fatto la guerra diretta ai paesi dell’est, ha invece bombardato la Libia. È un modello di ingerenza, che si è sperimentato in grande stile con le rivoluzioni arancioni, che abbiamo già visto all’opera in Mozambico, in Angola… Le grandi potenze armano partiti ultraconservatori per portarli al tavolo delle trattative, si ergono a fautori di una presunta unità nazionale (che hanno distrutto a suon di bombe) per avere un peso nelle future decisioni dei paesi. A questo ha fatto da contrappunto la grancassa mediatica contro il «dittatore» Gheddafi. Una retorica che ha aizzato all’odio contro il tiranno e ora grida vittoria mentre mostra un uomo massacrato come un trofeo. Altroché informazione democratica. Le sole analisi pertinenti vengono dallo Zimbabwe e dalla sinistra africana: questa non è una vicenda libica, ma di portata mondiale e naturalmente africana. Altri paesi sono nel mirino per subire la stessa sorte e rischiano di veder spuntare un loro Cnt. Poco prima della caduta di Gheddafi, il ministro degli affari esteri francese, Alain Juppé, ha detto: la Libia è un’invenzione che non esisteva prima del 1911, quindi può essere smembrata, e se Gheddafi resiste possiamo prendere Bengasi e lasciargli Sirte e Tripoli.

 

Un altro passo verso la balcanizzazione del Sud?

La sovranità che gli stati del sud avevano ottenuto con le indipendenze dalla colonizzazione consentiva loro una maggior capacità di negoziare. Paesi che avevano grandi risorse nei loro sottosuoli e che occorreva smembrare per poterli gestire. Una politica che mostra uno dei paradossi della globalizzazione capitalista: da una parte le piccole patrie, dall’altra l’economia mondiale che richiede sempre maggior integrazione economica e finanziaria. Anche all’Africa. La nascita del Sud Sudan pone molti più problemi al continente di quanti ne ponesse il Sudan prima. Oggi si è voluto creare uno stato chiuso. Le frontiere a sud e a est del Sudan, già difficili da controllare, lo saranno sempre più. Ma siccome c’è il petrolio, c’è la corsa delle grandi potenze per accaparrarsi il mercato. Oggi la capitale del Sud Sudan è una delle città più care del mondo, il che è assai paradossale per uno stato che sta per nascere.

 

Quale futuro vede per le primavere arabe?

Le grandi potenze hanno rubato la vittoria ai popoli e ora organizzano elezioni destinate a far terra bruciata delle vere istanze di cambiamento. In quei paesi, la sinistra politica e intellettuale è stata liquidata, a volte fisicamente, dai regimi al potere, mentre il mondo occidentale chiudeva gli occhi. Ora i movimenti sociali hanno preso la scena, scavalcando anche l’islamismo politico che non sa più riempire il vuoto lasciato dalla sinistra, come invece si proponeva. Solo che, a differenza della sinistra, le organizzazioni islamiche hanno mantenuto strutture forti e parole d’ordine che potrebbero servire a raccogliere voti in un processo elettorale classico. Come storico, vedo che quando si parla di primavera araba nella parte nord dell’Africa, si lascia intendere che al sud non c’è ancora una primavera. Invece da noi la primavera si è manifestata sotto diverse forme da lungo tempo contro la colonizzazione: una battaglia che abbiamo vinto sotto alcuni aspetti ma perso sotto altri, perché alla decolonizzazione politica non si è accompagnata quella economica. Questo ha permesso ai paesi colonizzatori di controllare le nostre risorse e ai governi africani di ripartirle in modo diseguale. Vi sono però movimenti di resistenza, come nel Delta del Niger che vengono da lontano. Molte cose che ieri non erano possibili, ora lo sono, perché le proteste al sud s’inscrivono in una crisi senza precedenti del sistema capitalista globalizzato e lasciano sperare in un movimento democratico e radicale nei paesi del nord a cui unirsi. Come sinistra africana non crediamo però che la democrazia modello occidentale, già in crisi nei vostri paesi, debba essere esportata. Oggi il problema è che vi sono persone che hanno troppo e altre che non hanno niente. Occorre trovare una leva per cambiare le cose, per fare in modo che dall’indignazionesi arrivi a un processo politico e sociale di vero cambiamento radicale. Uomini come Lumumba e Sankara sono stati uccisi con la complicità delle grandi potenze, ma hanno indicato una strada. Quella di una nuova Comune.