“Titanic Europa”: l’ultima fatica di Vladimiro Giacchè

di Paolo Colliwww.articolotre.com

 

titanic europa_giaccheSi chiama “Titanic Europa” l’ultima fatica dell’economista marxista Vladimiro Giacchè. Un libro che offre una nuova prospettiva per analizzare la crisi economica che sta segnando in profondità il destino del nostro continente. Una “voce fuori dal coro” che guarda alla crisi da una prospettiva marxista, e una ghiotta occasione per arricchire il dibattito sulla situazione economica attuale.

 

Gad Lerner a l’Infedele lo presenta fingendo un po’ di stupore per la contraddizione che incarna, essendo uomo di finanza, ma economista marxista. Vladimiro Giacché sta al gioco; sa bene che è irrituale essere partner di un gruppo finanziario (la Sator di Matteo Arpe) e al contempo “il più importante economista marxista in circolazione oggi in Italia”, come lo definisce Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani e suo sincero estimatore. È proprio questa sua irritualità, così distante dai soliti cliché di sinistra, a farne un divulgatore convincente ed efficace anche per il grande pubblico. Anche perché sulla crisi Giacché ha idee molto precise e in controtendenza. Le politiche di austerità imposte ai paesi dell’Europa – sostiene Giacché – non fanno altro che aggravare la crisi, rischiando di far succedere proprio ciò che promettono di scongiurare: le funeste profezie sul default dei debiti pubblici e la fine dell’Euro. I capi dell’establishment europeo sono, dunque, come i timonieri del Titanic che puntano verso l’iceberg. E “Titanic Europa” è proprio il titolo dell’ultimo libro di Giacché, uscito da pochi giorni per Aliberti Editore.

Da buon marxista Giacché ribalta l’assioma della crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale. È la stentata crescita dell’economia reale che ha portato il capitale, in un processo lungo trent’anni, a finanziarizzarsi per trovare quei margini di profitto elevati che non venivano più assicurati da una produzione industriale sempre sull’orlo della sovrapproduzione. Il che porta Giacché a dire che: “la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla – e che quindi l’ha cronicizzata”.

Una documentata ricostruzione storica chiarisce che la crisi dei debiti pubblici dei paesi europei non è l’origine dei problemi dell’eurozona, ma il frutto avvelenato di una crisi nata nelle banche americane nel 2007 e che ora si sta scaricando sugli Stati che hanno speso centinaia di miliardi per salvarle.

Insomma, questa crisi non nasce dal debito pubblico: “l’esplosione del problema del debito pubblico è una conseguenza della crisi e non la sua causa”. Gli Stati, infatti, si sono svenati per salvare le banche e le imprese private (come in Spagna e Irlanda); hanno subito gli effetti della crisi che, causando una vasta recessione, ha peggiorato il rapporto debito/Pil (è il caso italiano) e, infine, hanno visto drasticamente ridursi gli afflussi di capitali dall’estero, cosa che ha peggiorato le loro bilance commerciali aggravandone ancora di più la situazione debitoria complessiva.

Giacché va controcorrente anche sulle agenzie di rating e sui mercati finanziari. I declassamenti e gli spread sono l’ovvia bocciatura di politiche sbagliate, dato che “il ragionamento degli investitori è lineare: se l’Europa non riesce a gestire con successo una crisi di Paesi periferici e di grandezza modesta, come si può pensare che affronti con efficacia l’eventuale crisi di un Paese che ha un debito da 1,9 trilioni di euro?”

“Titanic Europa” è un libro indispensabile per capire la crisi al netto delle solite spiegazioni che l’ideologia liberista europea spaccia a ritmo incessante. È uno spietato atto d’accusa nei confronti delle politiche europee dell’austerity, attuate con il malcelato fine di smantellare il welfare, scaricare sui salari i costi della crisi e costringere gli Stati a privatizzare i servizi pubblici.

In questo quadro Giacché inserisce le manovre lacrime e sangue di Berlusconi e Monti (che sommate valgono 150 miliardi di qui al 2014: e questa, di per sè, è già una pessima notizia). Manovre talmente tanto recessive che se perpetrate, ad esempio grazie alla follia della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, porteranno l’Italia dritta al default.

Giacché lascia intendere, però, che la soluzione sta per lo più in capo all’Europa. Che dovrebbe invertire rapidamente la rotta stroncando la speculazione (con la BCE a fare da prestatore di ultima istanza) e puntando su politiche di crescita e occupazione.

Giacché non si ferma all’economia e porta l’attacco anche sul piano della democrazia. Lo fa evidenziando tutta la distanza che oggi separa l’Europa dallo slogan di Willy Brandt “osare più democrazia”. E lo fa a ragione, dato che l’Europa della Merkel e della BCE è riuscita ad osare sempre e solo l’autoritarismo del mercato: impedendo il referendum in Grecia, riuscendo a cambiare il governo in Italia, imponendo l’irrilevanza delle elezioni in Portogallo (tanto il programma era scritto dalla BCE), inviando dalla BCE lettere minatorie ai governi, approvando nuovi trattati con la procedura intergovernativa senza che nessun popolo li abbia discussi e votati.

Marxista nell’analisi e nella critica all’economia politica dell’Europa, il testo di Giacché rilancia l’approccio al riformismo forte neokeynesiano per uscire dalla crisi puntando su crescita, diritti e sviluppo. Davvero un’eresia nell’Italia berlusconizzata in cui governano i professori del credo neoliberista. Giacché è un’autentica voce fuori dal coro, una boccata d’ossigeno per chi è ormai asfissiato dalla cortina fumogena dell’austerity e dello spread. Con serietà teutonica riesce a proporre soluzioni credibili e realizzabili per uscire dalla crisi. Sarà per questo che piace tanto ai banchieri “liberal”, quanto alla galassia dei partiti comunisti e della sinistra.