Storia del Tibet di Chen Qingying

Copertina Una storia del Tibet Intera 1 470x260di Marco Pondrelli

Il libro di Chen Qingying andrebbe letto da tutti coloro che parlano di Tibet senza la minima conoscenza della storia, della cultura e della realtà di questa regione. Chen Qingying non è tibetano essendo nato nella provincia del Sichuan ma trasferitosi nel Qinghai (in Tibet), ha iniziato lo studio della lingua, della storia e della cultura di quello che è conosciuto come il ‘tetto del mondo’.

L’Autore ripercorre la storia del Tibet e del suo rapporto con la Cina, che nella narrazione semplificata e fallace contemporanea viene presentata come una nazione autonoma occupata dopo la Rivoluzione del ’49. Questa versione appartiene alla lotta ideologia, l’unica capace di presentare menzogne (oggi si direbbe fake news) come verità inoppugnabili.

Il libro parte con la storia delle prime civiltà documentate in questa regione e descrive successivamente il Regno Tubo, per poi condensare in poche ma brillanti pagine i rapporti con la Cina avviati con la dinastia Yuan; è da qui che occorre partire se si vogliono capire i rapporti fra Cina e Tibet. Questi rapporti sono complessi ed articolati, è scorretto parlare di occupazione o di colonialismo perché essi sono alla base di ciò che Wang Hui[1] ha definito l’unità plurale, questo rapporto, come scrive Sabrina Ardizzone, non si dispiega fra due nazioni e non è neanche riconducibile ad una occupazione imperialista, questo rapporto si determina e va analizzato nella sua dimensione storia e geografica[2], basandosi su un’ampia autonomia riconosciuta alla regione unità alla Cina sotto lo stesso cielo.

È stato il colonialismo, è non la Rivoluzione del ’49, ha soffiare sul fuoco dell’indipendentismo. Gli inglesi intervennero in Tibet identificandolo come uno spazio strategico fra Cina e India.

Successivamente, dopo il ’49, il Tibet è diventato il cavallo di Troia dell’imperialismo occidentale. Dopo la rivoluzione comunista si pose il problema del rapporto fra la Repubblica Popolare e il Tibet. L’accordo raggiunto nel maggio del 1951 fra il Governo Popolare centrale ed il Governo Locale del Tibet, il cosiddetto accordo dei 17 articoli, riconosceva una grande autonomia alla regione affermando fra l’altro all’articolo 7: ‘le credenze religiose, i costumi e le abitudini del popolo tibetano devono essere rispettati’. Questo rispetto dell’identità locale si univa alla tutela della sovranità nazionale cinese, fu questa simbiosi e questa condivisione di obiettivi che portò all’abolizione delle odiose strutture feudali fra cui la servitù della gleba (pag. 238).

Gli Stati Uniti hanno fomentano, in chiava anti-cinese ed anti-comunista, le forze peggiori presenti in Tibet. Durante la rivolta, sostenuta dagli Usa, avvenuta alla fine degli anni ’50 un sedicente ‘Governo Provvisorio Indipendente’ affermò che il Tibet si era costituito come ‘teocrazia indipendente’ (pag. 238). Come è avvenuto ed avviene in altre parti del mondo, dal Medio Oriente all’Africa, dall’America Latina ai Balcani l’Occidente si trova sempre a fianco la parte politica più conservatrice se non addirittura reazionaria, bloccando così ogni tentativo di emancipazione politica e sociale delle popolazioni locali.

L’idealizzazione di un Tibet puro e libero e non più soggiogato ed umiliato da Pechino ha le sue radici in questa politica anti-comunista. In questo Hollywood ha giocato un ruolo rilevante, ad esempio portando sullo schermo (sette anni in Tibet) il libro dell’ex SS Heinrich Harrer. Come scrisse Domenico Losurdo pur volendo presentare una società idilliaca e pacifica in realtà Harrer raccontava un sistema feudale violento ed oppressivo, scrive Losurdo citando il libro: ‘ma cosa avviene per i crimini considerati più gravi? “Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio” (p. 75)[3]’.

Se si vuole capire il Tibet uscendo dai banali luoghi comuni il libro di Chen Qingying è un ottimo strumento. La politica di Pechino sempre attenta a riconoscere e preservare l’autonomia tibetana, è altrettanto solerte nel costruire le condizioni per lo sviluppo di questa regione la cui popolazione non sogna, a differenza di qualche sinistrato nostrano, il ritorno alla teocrazia.

Note:

Wang, Hui; La questione tibetana tra est e ovest, manifestolibri, Roma, 2011, pag. 82

Wang, Hui, op. cit., pag. 9

Losurdo, Domenico; La Cina il Tibet e il Dalai Lama, L’ernesto, N.°6 del 2003