Quel comunista di Henri Cartier-Bresson

cartierbressondi Laura Baldelli

A Roma, al museo dell’Ara Pacis, la mostra su tutta l’opera e il pensiero di Harri Cartier Bresson, curata ed allestita da Clement Cheroux per conto della Fondazione Cartier Bresson e del Centre Pompidou, già inaugurata a Parigi nel dicembre 2013. Sono esposti solo gli originali delle foto, per la sezione colore la visione digitale e grande novità anche dipinti e disegni. L’intento è quello di presentare un autore che si è dedicato a molti aspetti espressivi-culturali: un Cartier Bresson fatto di tanti Cartier Bresson, perchè sempre attento e curioso a quello che accadeva nel mondo.

Fu definito infatti “l’occhio assoluto” del ‘900, perché ha testimoniato un secolo, è stato pittore, regista e per caso fotografo-reporter, ma talmente poi impegnato in questo ruolo, che fondò la cooperativa Magnum Photo, dove sono passati i maggiori fotografi del secolo. Egli considerò sia il disegno che la fotografia, non un lavoro, ma “un duro piacere” e con queste parole ha descritto la sua opera di fotografo: “Fare fotografie è trattenere il respiro quando tutte le proprie facoltà convergono di fronte alla realtà che fugge. E’ in quel momento che eseguire alla perfezione un’immagine diventa una grande gioia fisica ed intellettuale.”

I suoi scatti, quasi esclusivamente in bianco e nero, sono immediati, emozionano, ma dietro c’è un pensiero, nato dalla conoscenza che si fa cultura e stile di vita, e la mostra non vuole solo mostrare, ma accompagnare il visitatore dentro il pensiero del grande maestro per una profonda ed autentica comprensione: le foto sono infatti affiancate da riflessioni dell’autore

“La fotografia è un mezzo di comprensione che non può essere separato dagli altri mezzi di espressione visiva. E’ un modo di urlare, di liberarsi, non di dimostrare o affermare la propria originalità. E’ un modo di vivere.” Una delle citazioni del fotografo, che delinea la sua formazione culturale nata con lo studio e la passione per la pittura e la frequentazione del movimento Surrealista.

La pittura infatti fu determinante per la costruzione del suo sguardo: “Amo la pittura, l’ho studiata con Andrè Lhote. E’ stato lui che mi ha insegnato a vedere.” Di A. Lhote disse che fu suo maestro di fotografia senza macchina fotografica.

Lo sorico inglese Eric Hobwsbawm, nel saggio “Il secolo breve”, afferma che i linguaggi espressivi principali della cultura del XX secolo sono stati la fotografia e con Harri Cartier Bresson pittura, cinema e fotografia non smettono mai di intersecarsi, integrarsi: dalla pittura apprende lo sguardo, dal cinema il movimento perché nell’atto di scattare egli danzava attorno al soggetto, creava come una coreografia, che spesso i suoi amici registi hanno ripreso a sua insaputa, mentre fotografava e rubava istanti per strada. Lo stesso Cartier Bresson chiamò questa modalità di fotografare “Images à la sauvette”, cioè “immagini prese alla svelta di nascosto”, titolo del suo libro, testo chiave della storia della fotografia contemporanea, uscito con la copertina disegnata apposta da Matisse. Con quegli “istanti decisivi”, metteva “sulla stessa linea di mira il cuore, la mente, l’occhio”. La mostra divide l’opera dell’artista in 3 grandi periodi: il primo è quello surrealista dal 1926 al 1935, in cui iniziò a viaggiare e si avvicinò approccio alla macchina fotografica; dal 1936 al 1946 gli anni dell’impegno politico, la collaborazione con la stampa comunista e l’esperienza cinematografica; l’ultimo dal 1947 al 1970 cioè dalla nascita della cooperativa Magnum Photo fino alla cessazione dell’attività di reporter per dedicarsi di nuovo al disegno fino alla sua morte.

Nel primo periodo, fondamentale fu lo studio dell’arte, l’avvicinamento alle teorie del Surrealismo e al pensiero di Andrè Breton; furono anni proficui anche per la scrittura, gli aforismi e la riflessione sulla libertà dell’artista che definì per se stesso come “un quadro di norme rigorose all’interno delle quali tutte le varianti sono possibili”. Partecipò al movimento fin dai 17 anni, frequentando le riunioni surrealiste al caffè di Place Bianche, ma non aderì ufficialmente, lo affascinò soprattutto l’atteggiamento surrealista: il gusto della libertà e della rivolta, la giocosità, la carica esplosiva. Le foto di questo periodo ne sono la testimonianza: gli oggetti diventano “oggetti di ritratti” e c’è tutto il sogno surrealista. Del Surrealismo disse: “mi ha segnato in profondità e per tutta la vita mi sono sforzato di non tradirlo”.

Le affermazioni dell’artista sono segmenti che compongono una filosofia dello sguardo come uno Zibaldone leopardiano e meritano di essere citate: “La fotografia è per me il riconoscimento della realtà di un ritmo di superfici, di linee, di valori. L’occhio ritaglia il soggetto e alla macchina non resta che fare il suo lavoro, cioè imprimere sulla pellicola la decisione dell’occhio.”

“A mio parere la fotografia ha il potere di evocare e non solo di documentare. Dobbiamo fare astrazione dal vero.”

“La composizione si basa sul caso. Io non calcolo mai. Intravedo una struttura e aspetto che accada qualcosa. Non ci sono regole. Non bisogna sforzarsi troppo di spiegare il mistero. E’ meglio essere disponibili, con una Leica a portata di mano.”

Infatti per Cartier Bresson il gesto fotografico rivela una filosofia di vita: la fotografia è intesa come istante spontaneo colto al volo, un vero e proprio colpo di fortuna e diceva: “Il fotografo, e pazienza se è maleducato, deve prendere la vita di sorpresa alla sprovvista. Deve tendere agguati, fare la posta alla sua preda; prevedere cosa accadrà quando lei sarà presente, a portata di sguardo, rendersi invisibile per poi sferrare l’attacco.” “L’istante decisivo” è nella celeberrima foto dell’uomo che salta la pozzanghera alla stazione di Parigi, che non poteva essere scattata né un momento prima, né quello dopo.

Gli anni ’30 furono quelli dei lunghi viaggi: in Africa, dove rimase un anno munito della Leica con l’obbiettivo di 50 mm, da cui sarà inseparabile e sperimentò la fotografia, influenzata dal Costruttivismo russo e del continente africano colse i ritmi della quotidianità, priva di sguardo etnografico. La Leica fu l’estensione del suo stesso occhio. A convertirlo dalla pittura alla fotografia, affascinato dalla potenzialità espressiva, fu uno scatto del fotogiornalista ungherese Martin Munkacsi, intitolato “tre ragazzi sul lago Tanganyka”.

In Messico fotografò “senza fare rumore, evitando qualsiasi ostentazione personale, invisibile, evitando di predisporre e mettere in scena, limitandosi ad esserci, a passo felpato”; è così che fotografò le due lesbiche in una famosa foto, che definì un colpo di fortuna. Fu il perfetto interprete “dell’azzardo obbiettivo” teorizzato dai surrealisti.

Dal ’36 la sua fotografia fu dedicata all’impegno militante per i comunisti, contro il colonialismo e l’imperialismo, di cui aveva visto le conseguenze in Africa, a sostegno dei democratici nella guerra civile spagnola, contro il Franchismo e il Fascismo. Cartier Bresson vide nel Comunismo l’antagonista dei fascismi europei; dopo gli anni ’50 cercò di nascondere la scelta comunista per ottenere i visti in tutto il mondo per andare a fotografare, e come afferma il curatore della mostra Clement Cheroux, non venne però mai meno l’impegno comunista nel produrre immagini che hanno un grande valore documentaristico, oltre che artistico.

Cartier Bresson sapeva tagliare nel vivo la vita, e giudicava con un certo disprezzo “le belle fotografie” con la seguente espressione: “manca di spessore”, in quanto inutili, perchè solo belle. Famosissimi i suoi primi reportages per la stampa comunista francese, che documentano le questioni sociali, la conquista delle prime ferie pagate nel 1936, e la serie “Infanzia”, dove colse come pochi la giocosità dei bambini. Fotografò anche eventi storici come la celeberrima incoronazione di GiorgioVI, in cui immortalò gli spettatori con il binocolo, invece del sovrano.

Già giovanissimo Cartier Bresson aveva rinunciato al ruolo sociale di capitano dell’industria tessile di famiglia, perchè amante della letteratura, della musica e della pittura, studiò anche letteratura inglese all’Università di Cambridge. Non fu un figlio di papà, perchè il padre gli assegnò una modesta rendita e nient’altro. In famiglia comunque respirò un’aria culturale molto ricca, a cui si deve la sua passione per la musica, la conoscenza dei grandi della letteratura e naturalmente la pittura.

Alla fine degli anni ’30 e nei primi anni ’40 privilegiò il cinema, perchè vide nel cinema una forte struttura narrativa che poteva arrivare ad un pubblico più vasto. Sul rapporto tra fotografia e cinema disse: “Per me il cinema non ha la minima relazione con la fotografia. La fotografia ha qualcosa di visivo che si guarda su un piano come un disegno, una stampa, un quadro. Il cinema è un discorso”.

Negli USA frequentò la cooperativa militante Nykino, lavorò come assistente per Jean Renoire nei film “La vita è nostra” e “La scampagnata”, girò in Spagna durante la guerra civile diversi documentari come “Victorie de la vie” e durante la II guerra mondiale fu assegnato alla sezione “Film e fotografia” della 3 armata dell’esercito francese, fu prigioniero in un campo di concentramento tedesco per 3 anni, da cui riuscì ad evadere al terzo tentativo e si unì alla Resistenza francese: filmò e fotografò di nascosto l’occupazione e poi la liberazione di Parigi.

Nel 1947 il Mo.MA di New-York gli dedicò una retrospettiva: una consacrazione istituzionale del suo genio creativo e nello stesso anno fondò sempre a New-York sul terrazzo del Museo of Modern Art, l’agenzia Magnum Photo, assieme al fotografo ungherese Endrè Friedmann, meglio conosciuto come Robert Capa, al fotografo polacco David Szymin, anche lui noto come Chim Seymour, William Vandivert e George Roger. Cartier Bresson raccontò che Capa gli disse: “ Non avere l’etichetta del fotografo surrealista. Fai il fotogiornalista. Atrimenti cadrai nel manierismo. Conserva il Surrealismo nel tu cuore, caro amico. Non agitarti. Muoviti.”

Furono i proficui anni del fotogiornalismo, che lo portò in tutto il mondo, soprattutto in oriente dove fu presente nel teatro degli eventi più importanti della storia del secolo: dall’apertura dei campi di concentramento nazisti, al disgelo dell’URSS, dall’arrivo dei comunisti di Mao a Pechino alla morte di Gandhi. Fu il primo fotogiornalista in URSS dopo la morte di Stalin, nel ’63 a Cuba, fotografò il Maggio francese nel ’68 e alcune di queste immagini hanno segnato l’immaginario collettivo. Sul fotogiornalismo scrisse: “ per me il reportage è lo scatto unico, la scorciatoia capace di esprimere una situazione. Per catturarlo ci vuole un’attenzione costante, bisogna scendere in strada, essere sempre presenti, guardare…L’aneddoto, l’effetto choc, la fotografia documentaria esplicativa servono a poco. Non c’è bisogno di spiegare niente. Basta suggerire.” Sul suo modo di lavorare scrisse: “La cosa che mi riusciva meglio era “il saggio fotografico” su una città o una regione, quando non sta succedendo niente di particolare. In quel caso mi sento tranquillo, posso muovermi piano, senza farmi notare, fiutare l’aria e, op!, colpire.”

La sua fotografia si avvicina alla scrittura poetica, il suo non fu mai un approccio saggistico e antropologico, ma i suoi reportage sono straordinari per la forza di penetrazione di alcune insuperabili immagini, in cui ha raccontato non solo il teatro dei grandi avvenimenti storici, ma anche la quotidianità della vita delle anonime persone, ovunque abbia vissuto e viaggiato; ha fotografato L’Oriente e l’Occidente, i contadini e gli operai, la città e la campagna, i ricchi borghesi e i disperati del mondo: ha rotto la gerarchia delle cose, dei fatti, degli uomini meritevoli di essere guardati, visti, considerati, messi in valore, sconvolgendo la scena culturale mondiale con novità estetica, tecnica, ma anche etica.

Magnum Photo è stata la più importante, storica ed autorevole agenzia fotografica del mondo, una palestra di talenti, un incontro di autori, un mito visivo in grado di rinnovarsi continuamente: significò inaugurare un nuovo modo di vivere e lavorare con la fotografia, dove ognuno rispecchiava la propria natura indipendente d’individui e di fotografi. Fu un peculiare incontro tra “il reporter e l’artista”, caratterizzato da non solo da “ciò che si vede”, ma anche “dal modo con cui lo si vede”, un percorso tra documentazione e ricerca personale. I fotografi rimasero sempre proprietari delle loro opere e sempre liberi di scegliere con chi lavorare. Ciò che avvicinava i primi fondatori era l’essere stati reporter di guerra, desiderosi di diventare reporter di pace, e la passione per le duttili macchine fotografiche di piccole dimensioni: “piccole macchine…grandi menti.” Il modo di muoversi di Magnum Photo può riassumersi in questa frase di Cartier Bresson: “Noi spesso fotografiamo eventi chiamati news, ma qualcuno racconta la notizia passo, passo, nel dettaglio, come si trattasse di un bilancio contabile: questi fotografi sfortunatamente hanno una modalità di approccio banale nella maggior parte dei casi. Non c’è una maniera standard di avvicinarsi a una storia. Noi dobbiamo evocare una situazione, una verità. Questa è la poesia della realtà della vita.”

Rifiutò i vincoli imposti dalla stampa, realizzando inchieste tematiche e trasversali in giro per il mondo, cercando la rappresentazione del potere nello spazio pubblico, le macchine industriali, i segni e i protagonisti della società dei consumi, le folle, l’incarnazione degli spiriti rivoluzionari, sostenuto dal perfetto senso della forma, mantenendo fede a quel suo principio: “osservo, osservo, osservo. Sono uno che comprende attraverso gli occhi.”

Riguardo a tutti gli avvenimenti e i cambiamenti nel corso del ‘900, affermò profeticamente: “Per me i grandi cambiamenti risalgono al 1955…..E’ stata la vittoria della società dei consumi e tutte le conseguenze di questo mondo in crescita esponenziale, in cui il pianeta viene saccheggiato senza pietà.”

Una parte della mostra è dedicata ai ritratti e Cartier Bresson scrisse questa riflessione: “Fare foto per strada è una gioia. Ma per me la cosa più difficile è il ritratto. Non ha niente a che vedere con l’istantanea scattata per strada: la persona deve accettare di essere fotografata: è come un biologo con il microscopio. Quando si studia una cosa, questa non reagisce allo stesso modo di quando non viene studiata: bisogna cercare di collocare la macchina tra la pelle di una persona e la sua camicia, e questo non è facile.”

Egli sosteneva che nel ritratto, il fotografo, non è più testimone invisibile come il reporter, perchè occorre reciproca disponibilità e le regole per fotografare cambiano di volta in volta. Nel ritrarre rifuggì la spontaneità, cercò di cogliere il soggetto in un misterioso “momento di silenzio”, quella era per lui “la folgorazione”.

Nella numerosa galleria di ritratti di umili sconosciuti e famosi c’è lo stesso approccio rispettoso e la stessa attenzione, ma non ci sono politici perchè disse che non era mai riuscito a comprendere la misteriosa passione per il potere. Ha fotografato i suoi amici artisti, pittori, letterati, filosofi, ritroviamo un secolo intero di cultura.

Negli anni ’70 smise di fare il reporter, ma sempre con l’inseparabile Leica, diventò più posato e contemplativo, fotografò paesaggi e persone care e ritornò al disegno, da dove era partito ed ancora una volta una sua frase è davvero esplicativa: “La fotografia è l’azione immediata. Il disegno la meditazione. Nel primo caso, si tratta d’impulso spontaneo di una continua attenzione visiva. Nel secondo caso, l’azione del disegnare elabora quello che la nostra coscienza ha potuto afferrare di quell’istante.”

Cartier Bresson per ottenere l’immobilità delle istantanee, non ha mai smesso di muoversi e qualche volta ha cambiato strumento: il pennello, la matita, per offrire sempre uno sguardo alla condivisione.

Negli ultimi anni della sua lunga vita ha dedicato 5 ore al giorno al “duro piacere di disegnare”, le sue opere sono oggetto di mostre, perchè importanti quanto quelle fotografiche.

Qualcuno si è chiesto se Cartier Bresson avrebbe usato lo smartphone per le istantanee, e il curatore della mostra Cheroux ha risposto che sicuramente ci avrebbe provato, ma non sarebbe stato soddisfatto del risultato, perchè il tempo dello scatto è troppo lungo.

In questo proliferare di immagini fotografiche nei social network, risultato dell’acquisizione di competenze tecniche alla portata di tutti, nel tempo dell’estrema superficialità, dell’edonismo di massa, dell’autocompiacimento dei selfie, quasi nessuno pensa che bisogna insegnare ed imparare a guardare, per costruire uno sguardo capace di vedere. Quello sguardo si costruisce, non con le competenze, ma con la conoscenza che profondamente si fa cultura dentro di noi. Senza più quello sguardo il capitalismo ha potuto diffondere nuovi canoni estetici senza valore, illudere che usare uno smartphone ed usarlo per comperare on-line significhi padroneggiare la tecnologia, far credere di essere liberi nel mettere in scena senza pudore la propria vita, i propri affetti pubblicando foto su Facebook: tutto questo è volgare massificazione, non è socialità, non è democrazia, non è crescita umana, non è gettare semi per un futuro migliore.

Quanto siamo lontani dalla discrezione di Harri Cartier Bresson, discreto anche nell’impegno politico, ma attivo e capace di cooperazione, lontano dall’esibizionismo estetico, dalla sterile competizione professionale dettata dallo scoop. Si può essere comunisti anche con l’arte, lui ne è stato un esempio.

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