Nel mondo “democratico” uno Stato sempre più autoritario

di Ascanio Bernardeschi

La pulsione presidenzialistica di questo governo non è sorprendente perché rientra nel disegno di portare a termine il processo di attuazione del “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Tutte le altre indicazioni sono state realizzate nel tempo dai governi sia di centrodestra che di centrosinistra: il concentramento in mani sicure dei grandi media, il sistema elettorale maggioritario, l’eliminazione o lo snaturamento dei grandi partiti di massa, la deriva corporativa dei maggiori sindacati, lo stesso cambiamento della natura della Repubblica, ridotto a uno Stato minimo di tipo ottocentesco che rinuncia a intervenire nel governo dell’economia, o meglio torna a essere il comitato d’affari della borghesia intervenendo sì, ma solo per redistribuire la ricchezza e il potere a favore del capitale. Insomma si è avuto lo stravolgimento della nostra costituzione materiale e di buona parte di quella formale. La legge viene scritta in funzione del “diritto” del Governo a governare e non, come invece dovrebbe, della garanzia contro lo strapotere del Governo. Le opposizioni vengono marginalizzate insieme al ruolo del Parlamento. Pertanto si tratta di un progetto pericoloso e da contrastare con ogni mezzo perché comporta l’ulteriore abbattimento dei già ridottissimi spazi di partecipazione delle classi lavoratrici e una nuova compressione della stessa democrazia.

Prima di analizzare il le cause strutturali di queste trasformazioni sovrastrutturali è opportuno dare un’occhiata al senso della proposta del Governo Meloni. Intanto un elemento non secondario di gravità è sul piano del metodo che segna una torsione di tipo autoritario: la Costituzione, cioè il patto fondativo della nostra Repubblica fra diverse forze antifasciste, verrebbe a essere cambiato profondamente non attraverso un nuovo patto ma su proposta di un governo installatosi a seguito di una legge elettorale che gli ha conferito una larga maggioranza parlamentare pur non godendo esso della maggioranza assoluta dei consensi.

Venendo al merito, la democrazia di tipo parlamentare viene trasformata in una democrazia presidenziale di natura plebiscitaria, generalizzando la nefasta esperienza della concentrazione dei poteri sulle persone dei sindaci nei comuni. Non a caso si parla anche di “Sindaco d’Italia”. Poco conta se il nuovo capo si chiami premier o presidente della repubblica. L’articolo 92 della Costituzione viene infatti sostituito con uno nuovo che prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente del Consiglio. Il Parlamento diviene un ornamento del Governo in quanto l’elezione di entrambi i suoi rami avviene contestualmente a quella del premier in un’unica scheda e viene assicurata una maggioranza di almeno il 55% alla coalizione collegata al premier eletto. Il nuovo monarca avrà quindi assicurata una maggioranza parlamentare a prescindere dai voti che le forze a lui collegate riusciranno a ottenere. Organi legislativi e capo dell’esecutivo saranno eletti contestualmente, i primi eletti in subordine al secondo, alla barba della divisione dei poteri.

La “legge truffa” contro cui si batté strenuamente il Pci, riuscendo a vanificarla e successivamente a farla sopprimere, prevedeva un premio di maggioranza che sarebbe scattato solo se una lista avesse raggiunto il 50% più uno dei voti. La legge elettorale in vigore oggi, il rosatellum è ancor più grave, in quanto pur non prevedendo formalmente un premio per la coalizione maggioritaria, a causa della quota prevista di parlamentari da eleggere col sistema maggioritario uninominale, si assicura di fatto la maggioranza assoluta dei seggi a una lista o a una coalizione qualora abbia ottenuto una percentuale di circa il 40% dei suffragi o poco meno. Tuttavia anche il rosatellum è migliore di quanto proposto oggi dal Governo il quale non prevede alcun quorum l’attribuzione di una maggioranza in Parlamento. L’inserimento in Costituzione di questo principio non permetterà più di impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge elettorale che ne scaturirà, come è avvenuto, con successo, nel caso del porcellum e dell’italicum e come alcuni costituzionalisti si apprestavano a fare nei confronti della legge attuale. Il principio costituzionale di un voto libero e uguale rimane scritto ma contraddetto dalla prescrizione di una legge elettorale iniqua.

In genere le repubbliche di tipo presidenziale prevedono dei contrappesi per limitare il potere del presidente o del premier. Per esempio il Presidente degli Stati Uniti Biden non ha attualmente la maggioranza in entrambi i rami del parlamento e da anitra zoppa deve negoziare alcuni provvedimenti tra i più importanti con quella camera che ha una diversa maggioranza, come sta avvenendo in merito al finanziamento della guerra in Ucraina e di quella di Israele contro il popolo palestinese. Secondo la proposta del nostro Governo, invece, il premier avrà automaticamente, per legge, la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento il quale nella sostanza sarà chiamato a ratificare le proposte di un governo che a sua volta risponde solo al nuovo re.

Altri sistemi che prevedono l’elezione diretta del premier, vedono, oltre che nel parlamento, un contrappeso nei poteri del presidente della repubblica. La proposta governativa prevede invece l’eliminazione di ogni funzione di garanzia che la nostra Costituzione assegnava al Presidente. La più importante di queste attribuzioni era il potere di scioglimento delle camere che solo formalmente gli viene mantenuto ma che in sostanza dovrà essere esercitato obbligatoriamente e non a suo giudizio solo in casi ben stabiliti. Nella sostanza si tratta quindi un potere nullo o puramente notarile. Anche la nomina del Presidente del Consiglio non fa più parte dei suoi poteri in quanto è il corpo elettorale che effettua questa scelta e al Presidente della Repubblica resta solo di conferire formalmente questo incarico. Inoltre il Presidente della Repubblica è vincolato, ai sensi del nuovo art. 94, alla scelta del premier perfino nel caso che quello eletto vada a cessare le sue funzioni.

Per ribadire ancora di più il ruolo puramente notarile del Presidente della Repubblica, gli viene negato perfino il potere di nominare i senatori a vita. Si tratta di un potere di per sé poco significativo, ma che comunque in alcuni casi, abbinato a quello di nomina del premier, è stato utilizzato per incidere nelle decisioni politiche. Basti rammentare la nomina a Senatore a vita, da parte del non compianto Giorgio Napolitano, dell’economista Mario Monti, il quale poco dopo venne nominato capo del Governo a seguito di un golpe dei poteri finanziari europei, in combutta con lo stesso Napolitano, contro Berlusconi.

Non sorprende che il PD, responsabile di buona parte dei precedenti stravolgimenti costituzionali, non respinga in blocco la proposta governativa ma solo alcuni meccanismi, dicendosi implicitamente disposto a sostenere un diverso tipo di presidenzialismo e perorando soprattutto il suo eterno amore del maggioritario a doppio turno.

Il costituzionalista ed esponente del PD Stefano Ceccanti ha infatti così commentato: “Hanno fatto un guazzabuglio: c’è l’elezione diretta ma non dicono quanti turni ci sono; non hanno messo il limite ai mandati – che è una delle cose fondamentali quando c’è un’elezione diretta – e non si sono dati i poteri che sono previsti per gli altri capi di governo e questo può generare una serie di conflitti. Insomma, era un terreno potenzialmente condivisibile, su cui la maggioranza avrebbe potuto cercare un dialogo con l’opposizione, purtroppo hanno prevalso le loro logiche di parte, peraltro con un testo scritto anche male e pieno di incoerenze […] Hanno tenuto il premio di maggioranza al 55%, ma non hanno precisato il numero dei turni con cui sarà eletto il Premier: è un’anomalia piuttosto grave, perché in tutte le Costituzioni in cui c’è un’elezione diretta – parlo di Costituzioni europee – si fa esattamente il contrario, cioè si stabilisce esattamente il numero di turni e c’è un ballottaggio tra i primi due […] È evidente che una proposta del genere, se andrà avanti, potrà essere votata solo dalla maggioranza. Non mi pare proprio ci siano le condizioni, che in astratto ci sarebbero state, per raggiungere due terzi in Parlamento”.

Non sarebbe quindi da escludere che il PD, di fonte alla promessa di una legge elettorale da esso gradita, possa accingersi ad approvare anche questo obbrobrio. Il motivo è evidente. Quel partito aspira a essere il rappresentante del grande capitale e non può inimicarselo opponendosi alle trasformazioni che i poteri finanziari invocano. Per esempio la società finanziaria statunitense J.P. Morgan, tra i maggiori responsabili della crisi dei mutui subprime, espose con chiarezza il suo punto di vista nel 2013 asserendo che “i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza delle idee socialiste”. Né, sempre secondo questo gruppo capitalistico, è possibile tollerare “la tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori” o i “limiti alle azioni degli esecutivi”. Sarà bene quindi fare poco affidamento agli elementi di facciata del Pd, riverniciati un po’ con l’avvento della Schlein, e non contare troppo sull’opposizione di quel partito perché vi sono profonde cause strutturali di questa torsione autoritaria e una vera opposizione dovrebbe risalire a queste cause per contrastarle.

Il sistema capitalistico occidentale è caratterizzato da una sensibile frenata dello sviluppo, da un’anarchia sia nei mercati interni che in quelli internazionali, da corruzione, da una sorta di inedia della sfera pubblica, e da un accentuato processo di centralizzazione dei capitali, che comporta anche l’accentramento oligarchico dei poteri politici, al punto di considerare con esso incompatibile perfino una democrazia di tipo liberale, figuriamoci quella di tipo sociale che era disegnata dalla nostra Carta, solo parzialmente attuata fino agli anni 70 del ‘900, a seguito di importanti lotte della classe operaia e dei suoi alleati.

Oggi siamo ancora in pieno nella crisi profonda manifestatasi in maniera eclatante nel 2007, ma che stava lavorando sotto traccia da decenni. Questa crisi ha modificato profondamente gli assetti economici, sociali e gli stessi assetti istituzionali. La caduta del saggio del profitto è stata contrastata mettendo in azione alcune delle “cause antagoniste” individuate da Marx nel terzo libro del Capitale. Il principale fattore messo in campo è stato l’abbattimento del costo del lavoro, reso possibile eliminando l’indicizzazione dei salari, riducendo le tutele e il potere delle classi lavoratrici organizzate, ponendo argini alla contrattazione, precarizzando il lavoro e ricattandolo con le rilocalizzazioni dei siti produttivi in luoghi in cui il costo del lavoro è assai minore, contenendo anche i costi indiretti e differiti della forza-lavoro (servizi essenziali e pensioni), sancendo, col jobs act, la libertà di licenziamento e il dominio incontrastato del padronato. Lo stesso pressoché unanime consenso al taglio del cuneo fiscale, che tende a ridurre il costo del lavoro e ad abbattere i diritti sociali, rientra in questa logica.

L’altro corno della reazione del capitale è stato la sussunzione sotto il suo dominio, di settori di socialità che precedentemente, almeno in buona parte, non rispondevano alla sua logica: quali alcuni aspetti riproduttivi della forza-lavoro o allargando il proprio dominio, attraverso le privatizzanzioni, su servizi essenziali e beni comuni. Ciò è avvenuto, platealmente, anche contro la volontà popolare, come nel caso dei referendum sull’acqua e sui servizi pubblici. Altro esempio è l’annientamento del diritto all’abitare: l’edilizia popolare è stata pressoché abbandonata in quanto non rispondente alla logica del capitale e il libero mercato, con correttivi irrisori, si è sostituito all’equo canone.

Anche il pesante intervento sull’ambiente rientra nella logica di conformare quanto più possibile alle esigenze del profitto il rapporto tra l’uomo e la natura, mentre la green economy, lungi dal costituire una soluzione all’emergenza ambientale, rappresenta piuttosto un’occasione per fare profitti green. Sono intuibili anche i motivi dell’insistenza sulle grandi opere, gli inceneritori dei rifiuti ecc., col loro portato, oltretutto, di corruzione e clientele.

Un ulteriore sostegno ai profitti è assicurato dall’impulso dato alla velocità di circolazione del capitale, che già Marx, nel libro II del Capitale, aveva indicato come un fattore di elevamento del saggio del profitto. Lo si è fatto, sfruttando sia le tecnologie informatiche che la flessibilità estrema del lavoro, con l’attivazione di tecnologie produttive “snelle” e just in time, in base alle quali la produzione per il magazzino è stata superata e si tende invece a ottenere la validazione del plusvalore da parte del mercato possibilmente ex ante, cioè ancor prima di mettere in atto il processo lavorativo. Questa esasperazione ha determinato lo sviluppo incessante della logistica ed è una concausa dei colli di bottiglia verificatisi nel corso della pandemia e della disorganizzazione verificatasi a seguito delle sanzioni economiche alla Russia e alla Cina, che paghiamo con un’elevata inflazione, associata al ristagno e alla mancanza di indicizzazione dei salari. Quindi inflazione, disoccupazione, sotto occupazione e salari bassi, il massimo dei desiderata del capitale.

Nel contempo si è sviluppata la finanziarizzazione, che non si è limitata a oliare tutti questi meccanismi ma ha teso a dare vita a profitti di carta che, almeno fino allo scoppio delle bolle, riescono a celare gli incagli dell’economia reale. Il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, ha risposto, oltre che all’esigenza di tagliare servizi – e quindi il costo della forza-lavoro – e di aprire nuovi spazi per la loro privatizzazione, anche alla necessità che una fetta di risparmi venga dirottata dal finanziamento del debito pubblico alla finanza.

Tutti questi processi sarebbero andati incontro a fortissime resistenze nel quadro istituzionale delineato dalla nostra Costituzione. Da qui la necessità di nuove regole, l’accantonamento sia dei diritti sociali che delle garanzie democratiche. Non sono più compatibili con il capitalismo i limiti all’iniziativa privata e l’intervento pubblico ogni qualvolta la prima non è in grado di assicurare i diritti sociali, i diritti inviolabili del lavoro, un salario decoroso e un reddito altrettanto decoroso per la vecchiaia, il diritto alla salute, all’istruzione e tutti gli altri aspetti della nostra Costituzione definiti “programmatici” dalla giurisprudenza proprio per non renderli immediatamente esigibili. Serve quindi anche una torsione sul piano dei diritti politici e sindacali per disinnescare ogni possibile reazione contraria dei lavoratori. E cosa c’è di meglio a tal fine di un capo supremo che risponda solo ai grandi poteri economici e non sia condizionabile dal potere legislativo, dal fattore di garanzia, costituito dal Presidente della Repubblica, e neppure dal potere giudiziario alla luce dei tentativi di contrastare l’autonomia della Magistratura con la separazione delle carriere dei giudici.

Se poi completiamo il panorama con la proposta di autonomia differenziata, definita a ragione “secessione dei ricchi”, che prevede minori tutele sociali ai residenti nelle regioni più povere, la non esigibilità dei diritti sociale diviene piena.

Quanto fin qui illustrato a proposito del nostro Paese, vale anche, mutatis mutandis, nel contesto internazionale. Intanto gli stessi trattati europei, ispirati dal più estremo liberismo, sono in pieno contrasto con i principi della nostra Costituzione. Questa circostanza era ben chiara anche alla giurisprudenza costituzionale, al punto di elevare i trattati europei al di sopra della nostra Carta perché un eventuale e assai probabile annullamento delle norme di ricezione di questi trattati per incostituzionalità avrebbe comportato l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Ecco perché la proposta del Governo Meloni è solo la conclusione di un processo che aveva visto già in larga parte smantellata la nostra Costituzione sia sul piano sostanziale, con le politiche liberiste, che sul piano formale.

Se tutto l’Occidente è interessato dalle politiche liberiste, e quindi ha analoghe esigenze di contenere l’opposizione sociale, si comprende allora la spinta verso regimi autoritari caratterizzante molte società, da quelle di paesi dell’ex blocco comunista in cui si vanno affermando governi in alcuni casi apertamente filo fascisti e comunque reazionari, alle tradizionali “democrazie” liberali che, anche sulla spinta delle guerre, sempre meno tollerano il dissenso. Il mondo “democratico”, il “giardino” che ambisce affermare la propria superiorità culturale, morale e civile e che si pretende di dover difendere contro i “barbari” che lottano per affrancarsi dai residui del colonialismo o dalla dipendenza economica di fatto, si mostra sempre meno incline a tollerare la democrazia e cerca di porre argini alla contestazione del massacro sociale in atto realizzando una società passivizzata, escludendo la partecipazione popolare perfino fin dal momento del voto, che costituisce una delega in bianco al premier, e a maggior ragione in altri momenti partecipativi quale l’organizzazione nei partiti e negli altri corpi sociali. Si trattano i cittadini come sudditi incapaci di scegliere e che quindi debbono essere ingabbiati con leggi elettorali che impediscano alternative di sistema, come ha ben illustrato, a proposito del liberalismo, il compianto Domenco Losurdo in più di un suo saggio. Scoraggiando la partecipazione alla vita politica si alimenta il qualunquismo e l’egoismo in alternativa alla resistenza sociale e alla solidarietà di classe.

La nostra Costituzione è sta definita da alcuni – definizione non infondata – come keynesiana, in quanto sanciva l’intervento dello Stato in diversi ambiti e condizionamenti alla libertà delle imprese, pur anch’essa sancita. Per i comunisti, tuttavia, era anche un terreno sul quale sfidare il riformismo premendo verso uno spostamento dei rapporti di forza fra le classi in favore di quella lavoratrice e per introdurre elementi di socialismo. Ma il capitalismo, come conformatosi dopo la seconda guerra mondiale, ha avuto suo malgrado bisogno del supporto di queste politiche in un arco di tempo tutto sommato assai breve rispetto alla storia del capitalismo: il periodo in cui era necessario il confronto con il blocco socialista. Con il crollo del muro di Berlino e il venir meno di questa necessità le politiche keynesiane sono divenute un peso e sono diventate incompatibili con le esigenze attuali del capitalismo, quelle di salvaguardare a ogni costo i profitti e di avere mano libera in tutti i campi della società. Per questo il compromesso keynesiano non è più compatibile con gli assetti politici ed economici attuali e sarebbe a questo punto una lotta di retroguardia quella per ripristino della Costituzione del 1947 non connessa all’impegno per un cambiamento dei rapporti di forza fra le classi, fino all’apertura della questione del potere.

Naturalmente l’opposizione al premierato deve essere la più vasta possibile intercettando anche forze riformistiche, se ancora esistono, in quanto il Pd ormai non è più tale. Tuttavia per i comunisti deve essere chiaro che l’obiettivo, per quanto difficile da raggiungere, non può che essere il cambiamento dei rapporti di forza fra le classi, l’affrancamento dalla gabbia dell’Unione Europea e dall’imperialismo americano, il passaggio armi e bagagli al fronte montante dei paesi che si contrappongono all’unipolarismo a guida statunitense. Esistono le condizioni internazionali per questo passaggio, come le condizioni oggettive date da una crisi in cui il capitalismo è immerso da decenni e da cui non riesce ad affrancarsi. Mancano le condizioni soggettive. Manca un partito in grado di guidare la classe lavoratrice verso questi obiettivi. L’impegno prioritario dei comunisti dovrebbe essere quindi lavorare alla formazione di questo partito.

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