I comunisti e il governo giallo-verde

governo 2018di Bruno Steri

Ringraziamo il compagno Bruno Steri, della Segreteria nazionale del PCI, per avere concesso a Marx21.it l’esclusiva della pubblicazione della sua Relazione per il Convegno su “Il nuovo governo italiano e gli interessi del movimento operaio. Per una vera lotta anticapitalista contro l’euro e l’Unione europea”. Roma, 22 giugno 2018

Il paradosso di un governo di destra votato anche dai lavoratori

Il Pci ha già avuto modo di esprimere in diverse sedi la propria netta opposizione nei confronti dell’attuale governo Conte, nato a seguito di un patto politico tra Movimento 5 Stelle e Lega: un esecutivo scaturito da un’alleanza “post-ideologica” ma che, sin dai primi passi, non ha potuto mimetizzare il suo carattere reazionario e la sua scelta di classe, in particolare includendo nel suo programma la cosiddetta flat tax

(tassa piatta) – divenuta più propriamente dual tax – un sistema fiscale con cui si restringe drasticamente, anziché aumentarla, la progressività della tassazione, a vantaggio dei contribuenti più ricchi e in controtendenza con lo stesso dettato costituzionale. Il fatto che siano ad oggi in questione le modalità di applicazione o la stessa praticabilità economica di tale opzione nulla toglie all’esemplare gravità di quest’ultima, concepita all’insegna di un approccio per nulla nuovo e che si è rivelato tanto iniquo socialmente quanto fallimentare economicamente: è la cosiddetta “teoria dello sgocciolamento”, che prescrive di ingrassare in alto (cioè elargire risorse a profitti e rendite) così che qualche goccia possa arrivare verso il basso. Tradotto: elemosinare investimenti produttivi incrementando il privilegio e affidandosi alla buona volontà dei ricchi. La presenza di questa proposta all’interno di un variegato e stucchevole elenco programmatico sancisce le gerarchie tematiche di tale elenco e la dice lunga su quale sia il suo carattere di fondo. Le vicende più recenti hanno poi ulteriormente evidenziato l’orientamento di destra del governo, smascherando il carattere ondivago (“né di destra né di sinistra”) dello stesso Movimento 5 Stelle: il quale è arrivato a votare nel consiglio comunale romano la proposta di intitolare una strada della capitale al fascista mai pentito Giorgio Almirante.

Tutto ciò costituisce l’ineludibile punto di partenza per una valutazione dell’attuale preoccupante stato delle cose. Tuttavia non ne può costituire il punto d’arrivo. Né basta a risolvere i nostri problemi ripetere all’indirizzo del governo l’evocativa espressione di “fascio-leghista”. Per porre le premesse di una risposta organizzata e consapevole dei comunisti manca all’appello un’analisi seria e compiuta delle ragioni che hanno indotto milioni di proletari a dare il proprio mandato elettorale a Di Maio e Salvini. Di più: occorre indagare a fondo il contrasto di opinioni che nel merito si è prodotto nel campo della sinistra di classe (basta farsi un giro attraverso la rete per verificare quanto ricorrenti e profondi siano i dissensi tra compagni, anche tra coloro che fino al giorno prima si erano scambiati attestati di stima). Penso che non si tratti di fenomeni di superficie, che anzi l’emergenza determinata da quello che è stato definito il primo governo “post-ideologico” insediatosi nel nostro Paese abbia fatto uscire allo scoperto tensioni profonde e contraddizioni di carattere strutturale presenti da tempo nel sottosuolo della sinistra. E’ bene dunque nominarle e farci i conti.

Innanzitutto va detto che il voto delle ultime politiche e in particolare l’ascesa della Lega di Salvini, con ampio sfondamento all’interno di settori popolari, testimonia dello sgretolamento del cosiddetto “zoccolo duro” della sinistra. In assenza di riferimenti credibili, si rinuncia a votare; oppure, al di là di precostituite appartenenze politiche e ideali, si vota scegliendo a 360 gradi e senza vincoli ideologici, direzionandosi verso chi, avendo dalla sua i rapporti di forza numerici, si presenta sul mercato della politica come in grado di risolvere qualcuno dei tanti problemi quotidiani che affliggono la vita materiale (senza ovviamente toccare il cuore del sistema vigente). Di tale esito pragmatico e “post-ideologico” possiamo graziosamente ringraziare il Pds/Ds, che in questi anni ha distrutto un intero impianto politico, etico e concettuale, finendo per essere identificato con l’establishment e con l’unica ideologia rimasta, quella dominante. Da questo punto di vista, la battuta che mi è stata fatta recentemente da una compagna disoccupata offre una sintesi ruvida ma efficace: “Il Pd ormai lo votano solo i benpensanti benestanti”. Per converso, risulta perfettamente credibile il disperante racconto che mi faceva un altro compagno, impiegato in un’azienda metalmeccanica piemontese: “Se Salvini reintroduce l’art.18 e vara la ‘quota 100’ per andare in pensione, il grosso dei miei colleghi, dei lavoratori, gli confermerà il voto a vita”. Da ciò discende una prima importante lezione, che riassumo riportando quanto ho detto concludendo una recente assemblea romana del Pci sul lavoro:

“Per il nostro partito il tema lavoro non è un tema tra gli altri. Esso oggettivamente costituisce e per noi deve costituire una priorità assoluta. Nella percezione diffusa vi sono anche altre emergenze, vedi la questione immigrazione: ma noi dobbiamo sapere che, se non si riesce a invertire la rotta sulle questioni del lavoro, tutto il resto si fa ancora più difficile. Non a caso, per restare sull’esempio dell’immigrazione, sin dalle tesi della Costituente bolognese, il Pci ha collegato la drammatica vicenda dei migranti alla questione sociale: certo, solidarietà; ma soprattutto, costruzione di un nuovo blocco sociale anticapitalista, di cui l’immigrazione può e deve far parte. Questo è il compito specifico dei comunisti. Da questo punto di vista mi è parso importante il riferimento, fatto qui oggi dal segretario della Usb Pierpaolo Leonardi, relativo alla presenza di lavoratori immigrati nel settore della logistica, del carico e scarico merci: non forza-lavoro a basso prezzo e disponibile a tutto, giunta ad ingrossare l’esercito lavorativo di riserva e pronta a esercitare una concorrenza al ribasso a danno delle condizioni generali del lavoro. Questo rischio c’è e dobbiamo sventarlo; ma non c’è solo questo. Oggi si è parlato di nuovi lavoratori venuti da fuori, ‘che non hanno conosciuto la sconfitta storica vissuta dalla classe operaia europea’, che sono arrivati con nuove speranze e voglia di lottare. In essi possiamo intuire l’alba di un nuovo mondo del lavoro, che mette in mostra nuove energie e nuova combattività.”

Su tutto questo dobbiamo inflessibilmente tallonare il governo giallo/verde ed esser pronti a denunciarne le inevitabili contraddizioni sul terreno a noi più congeniale: quello della contraddizione tra capitale e lavoro. Sapendo che, per un verso, occorre restituire ai lavoratori italiani quanto è stato loro tolto e che, per altro verso, bisogna operare per far passare il tema dell’immigrazione dal registro della compassione (sentimento peraltro del tutto comprensibile) a quello della lotta.

Un imbroglio che viene da lontano

Per avere il massimo di efficacia in una battaglia politica che si annuncia difficile è bene tuttavia sgombrare il campo da un insidioso fraintendimento ideologico che con questo governo rischia di trovare una sua concretizzazione politica e di massa: il superamento delle categorie di sinistra e destra e della relativa distinzione. Oggi è bene tornare con grande attenzione su questo punto. Beninteso, l’inconsistenza della suddetta opposizione è sempre stata una tesi tipica della destra; ma, com’è noto, in questi anni essa ha trovato spazio anche a sinistra. Giustamente, la rivista on line Contropiano ha recentemente evidenziato e stigmatizzato la partecipazione di Giulietto Chiesa, già giornalista de L’Unità, ad un convegno organizzato da CasaPound, che non a caso ha visto la partecipazione dell’intellettuale russo Aleksandr Dugin, massimo teorico “di quella mutazione ideologica che mischia la dottrina marxista e il fascismo”. Il fenomeno viene da lontano. In un’intervista di qualche anno fa (Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra, ottobre 2009) Domenico Losurdo, in aperta polemica col filosofo Costanzo Preve, definiva “una sciocchezza” sostenere che la distinzione tra destra e sinistra non avesse più senso: egli riconosceva che circoscrivere tale distinzione non fosse facile e che in ogni fase storica occorresse ridefinirla, ma che comunque il suo abbandono sarebbe assolutamente sbagliato e pericoloso. Per tutto il ‘900 il senso comune ha continuato a distinguere tra una “sinistra” e una “destra”, condensando in modo sufficientemente chiaro il significato di un’opposizione introdotta almeno a partire dalla Costituente del 1789 nella Francia rivoluzionaria, quando veniva dislocata su un piano orizzontale la contrapposizione tra il “basso” (il terzo stato) e l’ “alto” (il re, la nobiltà). In altre parole, la distinzione tra l’eguaglianza e il privilegio. Il successivo ancoraggio alla storia del movimento operaio ha legato questa distinzione alla contrapposizione tra operai e capitalisti, tra gli interessi del proletariato e quelli dei proprietari, espressione dell’assetto socio-economico capitalista. In Italia il termine “destra” ha altresì inglobato il riferimento al regime fascista e all’azione post-bellica delle forze politiche che a quel regime si sono richiamate. Questo dice la storia. Tuttavia, quanto più si è appannato il taglio di classe impresso alla distinzione tra destra e sinistra, tanto più è andato confondendosi il suo senso. A ciò ha contribuito ad esempio l’introduzione, all’indomani dell’89, dell’assetto bipolare: innovazione istituzionale “normalizzante” perseguita puntando alla sterilizzazione delle ali estreme dello schieramento politico, con relativa emarginazione/addomesticamento dei comunisti da un lato e sdoganamento dei post-fascisti dall’altro. E con conseguente logoramento della bipolarità sinistra/destra, svuotata così di contenuti sociali e conflittuali e ridotta a neutro avvicendamento di governo.

In queste acque limacciose ha pescato una destra che si è detta “nuova”, che ha assecondato la confusione giungendo perfino ad assumere qualche connotato accattivante: una “nuova destra” di cui Matteo Salvini è un degno e consapevole erede. Questa nuova destra ha inteso relegare tra le anticaglie della storia le opposizioni che hanno contraddistinto la Modernità, a cominciare appunto dalla distinzione tra sinistra e destra: una Modernità presentata come esposta all’influenza delle “ortodossie ideologiche”, all’unilaterale rigidità dei guardiani delle “burocrazie di partito” e degli “statalismi novecenteschi”. Non a caso Alain de Benoist, filosofo di questa nuova destra nonché maÎtre à penser della Lega, tuona contro il mondo dei totalitarismi, contro “i dogmi dell’universalismo massificante e egualitario”: in definitiva, contro i regimi totalitari del ‘900 (nozione in cui sono inclusi comunismo e nazifascismo), ma anche contro la mercificazione globalizzata che brutalizzerebbe l’individuo e soffocherebbe le radici culturali dei diversi popoli, distruggendo il senso di appartenenza delle singole comunità. Di simili suggestioni comunitariste e localistiche si è ovviamente nutrita la Lega, quella di Bossi e quella di Salvini. Ma occorre subito aggiungere che l’enfasi antiborghese e la denuncia apocalittica di questa “catastrofe della modernità” hanno strizzato l’occhio al trasversalismo post-moderno e hanno finito per trovare ascolto anche a sinistra, incrociando il gusto “no global” per le invettive contro la “mitologia produttivistica” e la “religione della crescita”. Più a fondo, non è forse stata Hannah Arendt ad aver centrato la critica dei totalitarismi? Non è Marcuse che ha messo da parte la contraddizione dialettica e gli aspetti materiali dello sfruttamento capitalistico per mostrare dispositivi di esclusione non connotati dal punto di vista del conflitto di classe? E non è di André Gorz l’enfasi critica contro il produttivismo e l’ideologia del lavoro, così come la perorazione della gratuità del dono, caratteristica dell’epoca premoderna?   Non v’è dubbio quindi che le propensioni ondivaghe di alcuni intellettuali collocati “a sinistra” abbiano contribuito ad accrescere la confusione, favorendo involontariamente le pulsioni che da sempre caratterizzano le posizioni e la letteratura reazionaria: dietro l’enfasi sull’individuo e la sua comunità, spuntano infatti il disprezzo nei confronti di chi ricerchi un senso progressivo della storia e la repulsione per qualunque progetto di radicale trasformazione sociale, per qualsiasi condotta razionale che metta consapevolmente in questione l’ordine sociale costituito. Su questo Salvini, al di là delle mance che potrà riuscire ad offrire, raccoglie in pieno (e rivendica) l’eredità di De Benoist. Così come di Spengler: il quale un secolo fa polemizzava con il razionalismo intellettualistico che vuole “sottomettere la realtà alle astrazioni” (traduzione: l’immodificabile realtà capitalistica alle improbabili astrazioni socialisteggianti). Tutto questo – non dimentichiamolo – fa parte del retroterra politico-ideale dell’attuale governo, costituitosi nel nostro Paese su un terreno che la stessa sinistra ha contribuito a desertificare.

L’insidiosa spregiudicatezza del governo giallo-verde a trazione Salvini

Sin qui, a scanso di equivoci, abbiamo ribadito cose che dovrebbero essere note. Ma non basta ancora, occorre indagare più nel dettaglio la capacità di convinzione che l’attuale governo ha dato prova di possedere. Nel merito, ancora su Contropiano, Dante Barontini ha scritto:

“Una tentazione che va evitata come la peste è pensare che questo governo sia fatto solo di deficienti-ignoranti (che pure non scarseggiano…), incapaci di elaborare una strategia vincente. Intanto perché hanno vinto, fin qui. Dunque, nemici odiosi sì, ma proprio fessi non sono”. E poco dopo aggiunge: “(…) non sarà possibile fare un’opposizione vincente a questo governo se ci si limita solo a condannarne i tratti più apertamente fascisti, razzisti ecc. Questi tratti, purtroppo, non sono più percepiti come un problema repellente da buona parte della popolazione, compresa una larga fascia del nostro stesso blocco sociale. E’ gravissimo, ma è così. Meglio saperlo…”

Sottoscrivo tali avvertenze. Nell’aprire varchi per il superamento dell’opposizione destra/sinistra, accanto a nefandezze tipiche della “vecchia destra”, Matteo Salvini ha anche esibito un’insidiosa spregiudicatezza. E’ lui ad aver proposto l’incarico di Primo ministro a Giulio Sapelli, autorevole storico dell’economia distintosi a sinistra per le sue posizioni anti-Renzi e anti-Ue. Sempre lui ha perorato l’inclusione di Alberto Bagnai nella compagine di governo. In occasione del suo insediamento, quest’ultimo ha rilasciato la seguente dichiarazione di intenti (trascrivo dal parlato): “Dopo ciascuna delle due guerre mondiali del secolo scorso, ci sono voluti 10 anni per ripristinare i livelli di reddito precedenti. Oggi stiamo attraversando la depressione più lunga dell’intera storia dell’Italia unita: secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, occorreranno 16 anni perché l’Italia torni ai livelli di reddito precedenti la crisi, quelli del 2007. Una governance basata unicamente sulle regole, come quella imposta dalla Ue, ci ha costretto a deprimere ulteriormente la nostra attività economica nel momento in cui il Paese era già piegato da una grave recessione. Ciò ha comportato una riduzione del 38% del flusso degli investimenti pubblici. Le suddette regole esprimono i rapporti di forza vigenti: nell’Ue esse diventano uno strumento con cui cristallizzare ingiustizie e asimmetrie”.

Sono temi nostri? Certo che sì ! Non a caso Bagnai nel recente passato è stato tra gli ospiti di iniziative del Pci dedicate al tema europeo. Oggi siamo al paradosso per cui ascoltiamo parole condivisibili dette da chi è diventato ministro di un governo di destra. Affare di Bagnai? Ovviamente sì; ma sono anche affari nostri, paradossi che dobbiamo tenere ben presenti. La verità è che Matteo Salvini negli anni scorsi ha combattuto e vinto una battaglia politica interna al suo partito tesa ad aggiornarne l’immagine e a renderne più potabile la proposta politica. A rinverdire il ricordo di quel che era la Lega, un tempo Lega Nord, mi sono imbattuto nella requisitoria tenuta in Parlamento nel 2003 da Alessandro Cè, allora capogruppo leghista: il quale se la prendeva con il “colonialismo globale del pensiero unico”, con “l’universalismo illuministico” dell’Occidente, ergendosi a difensore delle appartenenze etnico-comunitarie e delle differenze tra i popoli. Concetti eleganti, per intendere più prosaicamente chiusura delle frontiere e cannoneggiamento di extracomunitari. Quanto all’ispirazione di fondo e al trattamento riservato ai migranti, è cambiato ben poco: la Lega, pur avendo lasciato cadere la qualifica di “Nord”, è rimasta legata ad un’ispirazione brutalmente “differenzialista”. Alla volontà livellatrice del totalitarismo liberal-comunista i leghisti contrappongono “la forza della diversità” (Julius Evola: “Il buon razzista ama le differenze”): una diversità fondata non più sul sangue, come per il razzismo biologico del secolo scorso, quanto piuttosto sulla più sofisticata nozione di irriducibile diversità delle culture, sulla differenza specifica che caratterizzerebbe nelle loro incommensurabili identità gli insiemi culturali, le civiltà, i popoli. Poco importa che un tale orientamento – in un mondo unificato quale è quello attuale – costituisca un vero e proprio assurdo storico, oltre che obbrobrio a-scientifico; l’importante è che convinca a che ciascuno se ne stia a casa propria, con la sua cultura, la sua comunità. Sin qui Lega Nord e Lega, Lega di Bossi e Lega di Salvini, sono in perfetta continuità: all’insegna del neorazzismo differenzialista e del neocomunitarismo reazionario.

Dall’Europa delle “piccole patrie” alla “nazione” anti-Ue

Tuttavia l’avvento di Salvini ha introdotto un’importante innovazione. Oggi non ci si rivolge più alle valli lombarde e venete, ma all’intera nazione. Il localismo e la chiusura autarchica restano il segno distintivo, ma è cambiata la dimensione di tale imprinting. Non è roba da poco: con ciò l’attuale gruppo dirigente leghista ha di fatto archiviato il mito “padano” e la relativa secessione. Personalmente sono convinto che questo cambiamento sia il frutto di un esplicito patto politico teso a sdoganare la Lega riconoscendole legittimazione politica e ruolo istituzionale. Non sarà sfuggito agli osservatori più attenti il fatto che da un certo momento in poi, quando ancora la Lega di Salvini era inchiodata a percentuali elettorali da prefisso telefonico, il leader leghista ha iniziato a imperversare su tutte le reti televisive, di giorno, di pomeriggio e di notte. Queste cose non avvengono a caso: si sa che l’affinamento dell’odierna costruzione del consenso prevede la costituzione di “opposizioni compatibili”. Non credo di andare lontano dal vero se immagino che “quelli che contano” abbiano a un certo punto proposto: noi vi garantiamo accesso illimitato al circo mediatico; voi mollate la secessione, la Padania e le ampolle con l’acqua del Po. Probabilmente non avevano previsto che la Lega potesse raggiungere addirittura responsabilità di governo.

Questa innovazione salviniana ha comportato un altro essenziale mutamento nella strategia leghista, un mutamento concernente l’Europa. La Lega “padana” condivideva una delle istanze politiche più ambiziose delle destre europee: l’attacco alla cosiddetta “Europa delle nazioni” , in vista della destrutturazione degli Stati nazionali multietnici e del contestuale potenziamento di entità etnicamente omogenee, di un’Europa di Stati regionali monoetnici (quell’ Europa der Regionen che ha costituito il titolo di un manifesto etnoregionalista edito nel 1993, a firma di Guy Héraud, con la partecipazione del nazista austriaco Jörg Heider e di Umberto Bossi). Federalismo etnico e tutela delle “piccole patrie” dovevano costituire gli assi portanti del progetto europeo, secondo un modello “imperial-federale”. La Lega di Salvini è andata invece sostituendo alle requisitorie secessioniste contro “Roma ladrona” un’impostazione più marcatamente anti-Ue. Qui si spiegano la vicenda Savona e le aperture di credito a economisti anti-Ue come i citati Sapelli e Bagnai. Dalla chiusura localistica lombardo-veneta si è quindi passati ad una chiusura autarchica nazionalistica, più consona alle aspirazioni e agli interessi di un settore importante del padronato italico: quello medio-piccolo, non integrato nelle filiere produttive del capitalismo globalizzato. Si tratta dunque di un conflitto interno al blocco di potere delle classi dominanti, la cui posta in gioco riguarda la natura e il futuro della stessa Unione Europea.

Quanto al governo Conte, gli iniziali propositi di contrapposizione frontale con Bruxelles sembrano aver lasciato il campo ad atteggiamenti più compatibili con lo status quo e, in qualche caso, del tutto opposti (vedi le rassicurazioni dell’attuale Ministro del Tesoro). Del resto, la stessa composizione del governo – stante l’autorevole mediazione del Capo dello Stato – ha evidentemente dovuto contemplare precise concessioni alla cabina di comando continentale. Una cosa è comunque certa: senza il “patriottismo laburista” auspicato da Giulio Sapelli – cioè: rispetto delle promesse elettorali fatte e attuazione di quelle provvidenze sociali che solo un allentamento della morsa di Bruxelles sul bilancio nazionale e sulla spesa pubblica può garantire – senza questo, la vita del governo giallo-verde sarà assai dura e a costante rischio di implosione. Matteo Salvini lo sa; e proprio per questo prende tempo spostando l’attenzione generale sul tema a lui più congeniale: l’istigazione alla guerra tra poveri, più precisamente tra ultimi e penultimi. Una vera bomba a orologeria che rischia di trascinare all’indietro, nelle pieghe più oscure della storia, l’intero continente.

L’intransigente opposizione dei comunisti

Su tali contraddizioni i comunisti e i loro alleati hanno il dovere di agire: sottraendo alla demagogia della destra temi che erano e continuano ad essere di loro competenza. A cominciare dall’opposizione a questa Unione Europea e alla contestuale presa in carico di una connessa “questione nazionale”.

Nel merito, talvolta capita di imbattersi in chi, alla sinistra del Pd, mischia la giusta critica all’ideologia nazionalistica delle destre al governo, votata all’autarchia e alla chiusura localistica, con un’astratta e generica critica al “rossobrunismo” di chi torna a guardare alla “patria” e alla “nazione”. A proposito di questa che considero una pericolosa confusione, recentemente annotavo quanto segue in un commento ad un bel libro di Domenico Moro: 

“L’argomentazione (di Moro) si sofferma sulla natura ‘ambigua’, polivalente, del concetto di ‘nazione’. E’ profondamente sbagliato dare a tale nozione un’accezione esclusivamente negativa, identificandola con la propaganda nazionalistica (come fa ancora Antonio Negri). Essa la si può infatti intendere in termini reazionari o progressivi: lo stesso Lenin – ricorda opportunamente Moro – invita a ‘valutare caso per caso se l’aspetto nazionale sia un fattore di promozione o di disgregazione degli interessi della classe lavoratrice’. Del resto, la storia recente conferma clamorosamente una tale asserzione. E’ vero che, dopo la prima guerra mondiale, l’idea di nazione è stata a lungo egemonizzata dal nazi-fascismo. Ma è anche vero che tra gli anni 50 e gli anni 70 essa è stata la bandiera dell’antimperialismo e delle lotte di liberazione: in Asia, in Africa, nell’America Latina. E Stalingrado rimane superbo emblema di una ‘grande guerra patriottica’; così come ‘patriottica’ è stata in Italia la Resistenza al nazi-fascismo. Ciò fa giustizia di un grave fraintendimento: è l’ideologia cosmopolita che tende ad abolire gli Stati-nazione; non certo l’internazionalismo proletario, il quale al contrario ha sempre sostenuto contro l’imperialismo l’autodeterminazione dei popoli, cercando di costruire solidarietà tra le classi subalterne di diverse nazioni. All’europeismo astratto e di maniera di certa sinistra deve contrapporsi un rinnovato patriottismo costituzionale, appunto in quanto si oppone all’espropriazione della volontà popolare prodottasi con la mondializzazione capitalistica e, in Europa,con l’Unione europea.”

L’irriducibile opposizione tra la nostra Costituzione e i Trattati Ue esemplifica bene il profilarsi di una nuova, attualissima “questione nazionale”: “questione” che la sinistra comunista ha il compito di assumere collegandola all’iniziativa di classe, evitando di parlare a vanvera di “rossobrunismo”, recuperando tale terreno e sottraendolo all’iniziativa (esclusivamente propagandistica) dei Salvini e dei ‘né di destra né di sinistra’. Domenico Moro annota, a mio giudizio correttamente, che oggi l’ideologia dominante è prevalentemente cosmopolita (globalista) ed europeista, essendo l’europeismo un’articolazione diretta del cosmopolitismo. Le élites non sono prevalentemente nazionaliste. Egli ricorda che la grande accumulazione capitalistica non avviene più su base nazionale: il principale mercato della Volkswagen non è la Germania ma la Cina; quello della Fiat, il Brasile. E oggi che è diventata Fca, il 75% dei profitti li realizza nell’area Nafta (Usa, Canada e Messico).Il capitalismo globalizzato è interessato agli investimenti esteri (di portafoglio e diretti), alle economie di scala e a quote di produzione in Paesi a basso costo di manodopera; oltre al comando sull’approvvigionamento energetico, sui movimenti di capitale e di merci. Per questo si è dissolto il blocco keynesiano, il patto tra imprese e classe operaia, sostituito da un “vincolo esterno” (“ce lo chiede l’Europa”) che assicura governabilità bypassando i parlamenti. Così l’élite capitalistica globalizzata si contrappone al grosso della popolazione nazionale: questa dinamica strutturale spiega più di tante metafore il crollo del Pd e l’ascesa del governo giallo-verde, espressione di un’unità interclassista tra i settori capitalistici non globalizzati e una parte dei ceti popolari. Noi sappiamo che una tale unità è per definizione precaria, esposta alla frizione di diversi interessi di classe solo momentaneamente pacificati, alla provvisorietà di promesse solo propagandistiche. Su tali contraddizioni dobbiamo agire e tallonare senza tregua il governo.

Nel frattempo, dobbiamo dire cose precise sul tema immigrazione. Innanzitutto denunciando i dati fasulli veicolati al fine di creare allarme sociale e reazioni xenofobe di massa. Il sito lavoce.it ha opportunamente rispedito al mittente i numeri diffusi da Salvini nei suoi twitter: dove il leader leghista enfatizza un “record di sbarchi di clandestini in gennaio, il 15% in più rispetto all’anno scorso”, occultando, grazie ad un riferimento parziale al primo mese dell’anno, l’unico dato attendibile per una valutazione corretta, quello su base annua, secondo il quale non solo non c’è alcuna “INVASIONE, organizzata e finanziata per cancellare la nostra cultura” (sic!), ma c’è una flessione degli sbarchi del 34%. Simili falsificazioni vanno diffusamente e fortemente denunciate. In secondo luogo, i comunisti devono dire di essere contrari al blocco totale degli arrivi perseguito dalle destre e di essere invece favorevoli ad un loro flusso regolato che sia all’altezza di una capacità di accoglienza vera. Ciò in omaggio ad una posizione non strillata, socialmente sostenibile, che il compagno Fosco Giannini ha ben sintetizzato in un suo recente contributo al sito del Pci:

“Non possiamo regalare alla destra la concezione della sicurezza: essa rappresenta un cardine sociale e civile positivo, non reazionario. Anche i comunisti sono per la sicurezza sociale, ma al contrario delle destre contemplano tale concezione all’interno di un quadro di solidarietà sociale e, soprattutto, all’interno di un quadro che preveda l’unità sociale e politica, di classe e rivoluzionaria del proletariato ‘bianco e nero’ ”

Da questo punto di vista, dobbiamo respingere con nettezza il vergognoso tentativo di criminalizzare l’intera realtà organizzata per il salvataggio in mare, lasciando ovviamente alle Procure il compito di indagare – sulla base dei dati provenienti da Frontex, dalla Marina e dalla Guardia costiera – laddove si profilassero eventuali zone d’ombra, con canali di comunicazione tra Ong, scafisti e criminalità organizzata. Da ultimo, ma non per importanza, è compito prioritario dei comunisti denunciare il barbaro atteggiamento di chi ritiene di trovare soluzioni finali sulla pelle di chi è vittima, di chi è costretto ad emigrare (donne e bambini compresi). Se si vuole condizionare l’Unione Europea, ci si confronti a muso duro e senza esclusione di colpi con l’Unione Europea stessa e non mettendo a rischio la vita di innocenti. Si ponga un ultimatum sulla modifica del Trattato di Dublino, con l’attivazione della responsabilità condivisa nella gestione delle domande di asilo e con sanzioni per i Paesi che rifiutassero il programma, sotto forma di limitazione di accesso ai fondi Ue. E da subito si denunci il fatto che Salvini preferisca prendersela con imbarcazioni di poveri disgraziati piuttosto che imporre sanzioni al suo amico Viktor Orban, il Primo ministro ungherese che, contrariamente ad altri Paesi dell’Unione, ha sin qui rifiutato integralmente i ricollocamenti di migranti da Italia e Grecia.

Concludendo: il piombo nelle ali del governo giallo-verde

In politica tutto può succedere, tuttavia io penso che questo governo sia destinato a perdere la sua partita. Seppure su opposti versanti, sia questo governo che noi comunisti e con noi la sinistra di classe giochiamo la nostra carta più importante sul tema dei diritti sociali e del lavoro. Per essere credibili occorre indicare risorse a cui attingere. La destra sta giocando la carta tutta propagandistica dell’immigrazione: “prima gli italiani”, dicono. Ma anche loro sanno che, al di là dell’uso di “armi di distrazione di massa”, non è questa la vera materia del contendere. Il governo di destra, per mantenere anche solo una delle promesse fatte in merito a ripresa economica e provvidenze sociali, cioè per toccare anche solo di striscio quel “patriottismo laburista” auspicato da Giulio Sapelli, deve infrangere o attenuare sostanzialmente i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. A tal fine, non mi pare che la compagine di governo si presenti come una macchina da guerra. Si aggiunga a ciò la comparsa all’orizzonte di nubi nerissime: a cominciare dalla fine del Quantitative Easing con cui la Bce guidata da Mario Draghi ha sin qui garantito una tenuta dei conti sul piano degli interessi sul debito, grazie all’acquisto dei titoli italiani. L’aumento del prezzo del petrolio e la guerra commerciale tra Usa e Ue potrebbero aggiungere guaio a guaio. E tuttavia non sta qui, a mio parere, il punto principale.

Noi comunisti e la sinistra di classe possiamo contare su di un grandissimo vantaggio rispetto a Di Maio/Salvini &C. Noi sappiamo dove si dovrebbe andare a prendere le risorse necessarie per invertire la tendenza involutiva in atto ai danni dei soggetti sociali cui intendiamo rivolgerci. Occorre cioè un travaso di ricchezza da profitti e rendite verso il grosso delle retribuzioni da lavoro: quelle dirette, quelle indirette (il welfare) e quelle differite (le pensioni). “Prima gli sfruttati”, appunto. E’ precisamente ciò che il duo Di Maio/Salvini non può e non intende fare. Per questo io penso che sono destinati a perdere. Quanto a noi, dipende da noi. Dunque, compagne e compagni al lavoro e alla lotta.

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