Rifondazione Comunista ad un bivio

falcemartello warhol 2di Bruno Steri | da www.ricostruirepc.it

Le elezioni regionali e la Conferenza d’organizzazione sono i due significativi banchi di prova che hanno da ultimo certificato l’allarmante stato di salute di Rifondazione Comunista, confermando il sostanziale disinteresse dei soggetti sociali cui essa dovrebbe rivolgersi, il disorientamento (ed anche l’abbandono) di molti suoi pur generosi militanti, l’andar a tentoni del suo attuale gruppo dirigente. 

La recente scadenza elettorale ha fatto registrare l’ennesimo esito negativo. Pur in presenza di una significativa battuta d’arresto del Pd di Renzi, che in cifra assoluta perde oltre due milioni di voti, la lista Tsipras e le coalizioni in cui è inclusa conseguono risultati deludenti, perdendo dappertutto voti in cifra assoluta (anche dove si riesce ancora ad eleggere, come in Liguria e Toscana). In ogni caso, nessun comunista entra nei consigli regionali delle sette regioni andate al voto. Il crescente malumore per le politiche promosse dal Segretario Pd/Presidente del Consiglio ha continuato a trovare sfogo nel non voto (caratterizzante ormai la meta’ dell’elettorato), nella parziale tenuta del M5S e, in termini inquietanti, nel poderoso avanzamento della destra leghista.

A sinistra del Pd, nel complesso non solo non si intercetta il dissenso ma addirittura si va indietro.

Quanto all’altra importante scadenza interna, la Conferenza d’organizzazione, anche qui dobbiamo registrare note dolenti: dovrebbe infatti risultare allarmante che una grossa fetta del partito, circa i due terzi, sia risultata assente (in particolare il Sud, largamente desaparecido) e che, anche per la parte presente, il numero dei partecipanti sia stato assai ridotto (quota-parte di un numero di iscritti esso stesso in costante diminuzione). A ciò aggiungo la percezione di un gruppo dirigente oggettivamente distratto (con la testa volta al contestuale percorso dell’Altra Europa, più che agli assetti organizzativi del Prc): ne sono prova le conclusioni del segretario, tese a rintuzzare dubbi e critiche concernenti la linea politica, più che ad approfondire i temi specifici della Conferenza.

Va riconosciuto che l’attitudine “distraente” di cui si è appena detto trova una sua parziale giustificazione nell’individuazione della peculiare temperie storica in cui si situa oggi Rifondazione: i fatti dicono che le risorse (soggettive e oggettive) che per tutta una fase l’hanno supportata vanno esaurendosi e che quindi si pone il problema di aprire una nuova fase politica alla luce delle esigenze e delle difficoltà odierne. A scanso di equivoci, dico questo essendo convinto che le motivazioni di fondo che hanno animato la rifondazione comunista sono tutte perfettamente in piedi: si tratta ora di capire dove guardare e verso dove indirizzare la rotta. Detto per inciso, in ciò consiste la differente condizione in cui ad esempio ci troviamo rispetto a Syriza, al di là dell’evocazione di parallelismi enfatici quanto affrettati: vedremo quale sarà l’esito del duro scontro in sede Ue (speriamo positivo per la popolazione greca ma anche per tutti noi), ma è evidente che, mentre il partito di Tsipras è nel vivo di un ciclo politico da poco avviato, noi ne abbiamo uno pluridecennale alle spalle ed è per noi decisivo costruire le condizioni per avviarne uno nuovo.

Il fatto è che – in particolare a partire dal 2008, anno in cui fu varata in occasione delle elezioni politiche la prima aggregazione delle forze alla sinistra del Pd, la cosiddetta Sinistra Arcobaleno – siamo risultati sempre meno visibili, sempre meno riconoscibili sulla base di determinate idee-forza. Certo, nel frattempo, le ripetute scissioni non hanno aiutato. La qualità del partitoè andata via via appannandosi: la sua discussione interna, la capacità di tradurre i (rari) momenti di approfondimento in comunicazione, la relazione tra centro (organismi nazionali) e territori. In una parola, l’operare come un collettivo articolato ma nel contempo organico. In ogni caso non v’è dubbio che, a scandire questa sin qui inarrestabile marcia all’indietro, vi siano state scelte elettorali rivelatesi nei fatti fallimentari (la cui responsabilità va ovviamente ripartita su tutto il gruppo dirigente che in questi anni ha, con diversi gradi di responsabilità, contribuito a guidare il partito).

L’attuale maggioranza di Rifondazione indica nel passaggio alla fase del capitalismo globalizzato e nelle conseguenti peculiari difficoltà oggettive (ad esempio, nel sistema elettorale) l’origine esclusiva dei nostri problemi. Io penso invece che vi sia dell’altro. Il punto è che in questi anni, nonostante non sia mai venuta meno un’impagabile generosità militante, vi è stato un progressivo indebolimento della nostra identità. Vorrei dire, più specificamente, della nostra identità comunista. Vale appena la pena ricordare che per “identità” non si intende meramente lo sventolio di bandiere rosse e l’esibizione di simboli: anche se, vorrei sommessamente aggiungere che una cosa è dire che i simboli non sono sufficienti a far guadagnare consenso; altra cosa è lasciare che progressivamente essi siano depotenziati o addirittura cancellati. “Identità” è l’insieme composto dai propri simboli, dal proprio sistema di valori e dai propri contenuti, dalla propria capacità operativa. Questo intreccio simbolico, concettuale-valoriale e politico-operativo fa l’identità di una forza politica. Questo è venuto progressivamente meno o, comunque, si è fortemente indebolito.

Sento parlare di scissione strisciante. Con ciò non ci si riferisce (e sarebbe invece opportuno farlo) allo stillicidio di compagni che tornano a casa o che non ci votano più; piuttosto si fa riferimento a quanti hanno lasciato il Prc per approdare ad altre forze politiche, in particolare a Sel. Bene, in questo secondo caso, perché ciò avviene? Consiglierei di evitare le categorie del “tradimento” e dell’ “opportunismo”, categorie che restano in una mera dimensione psicologico-individuale, e mi concentrerei piuttosto sulla sostanza politica del fenomeno. Come non vedere infatti che, alla base di esso, c’è uno slittamento concernente l’attitudine nei confronti della questione comunista? La verità è che per alcuni dirigenti politici (molti?) non funziona più il riferimento a un’identità comunista; ed anzi esso è controproducente nella battaglia per la conquista del consenso. Nel merito, il caso italiano è emblematico e si distingue da quel che succede in altri importanti Paesi (dell’Occidente capitalistico e non) dove, nonostante il passaggio d’epoca del 1989 e l’inabissarsi del “socialismo reale”, continuano oggi ad esistere – e in qualche caso a prosperare – partiti comunisti o che, al di là delle denominazioni, mantengono un impianto politico-ideale di tipo marxista o assimilabile a quello comunista. In Italia (non altrove) abbiamo invece avuto la Bolognina, cioè una rottura ideologica verticale che ha fatto e continua a fare la differenza.

Attorno al tema dell’identità non si agita solo un punto di principio; si tratta nel contempo di una questione squisitamente pragmatica, che riguarda il conseguimento di risultati concreti. Alla lunga in politica idee e fatti non divorziano mai: questi si producono nel brodo di coltura che quelle contribuiscono a creare e diffondere. Per questa stessa ragione il fermento sociale, il conflitto di classe è condizione necessaria ma non sufficiente per consolidare una progettualità egemonica: occorre la percezione di un orizzonte politico-ideale perché quel fermento arrivi a porre la questione del potere (nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, nel governo della società). Da qui mi viene una convinzione che è per certi versi in controtendenza rispetto al piano inclinato su cui di fatto siamo scivolati in questi anni: abbiamo bisogno di ritrovare e rendere immediatamente visibile un’identità forte. Ciò significa che non è per noi sufficiente un cammino che aggreghi in estensione, per mera e generica contiguità: destinando le nostre residue forze alla costituzione di un soggetto genericamente di sinistra (la “costituente della sinistra”). Nostro prioritario compito dovrebbe esser quello di agire sull’intensità del nostro profilo politico-ideale, provando a porre Rifondazione come traino di un processo costituente delle comuniste e dei comunisti, ad oggi dispersi o variamente collocati e tuttavia potenzialmente uniti da un’affine cultura politica. Solo su queste basi, eventualmente e a partire da specifici contenuti politico-programmatici, si potrebbe verificare la possibilità di un’unità d’azione larga che sia in grado di contrastare la pesante involuzione sociale e politica del nostro Paese.

D’altra parte, mi pare che l’odierna scena politica includa la possibilità del quadro sopra delineato. Di fatto, a sinistra del Pd, vanno configurandosi due poli d’attrazione. C’è chi legittimamente ritiene di dover puntare alla costruzione di un nuovo e vero centrosinistra: in tal senso si sono ad esempio ripetutamente espressi sia Nichi Vendola che Pippo Civati, i quali hanno sostenuto di non voler semplicemente unire la sinistra di alternativa ma di guardare al Paese (e al Pd). Poi ci siamo noi, che dovremmo essere chiamati a costruire un polo d’attrazione comunista: va da sé, distinto dal precedente. Un polo d’attrazione comunista che – per usare una formulazione di Maurizio Landini – non si lasci dislocare “alla sinistra” di nessuno, ma ambisca anch’esso a guardare al corpo grosso del Paese e al conflitto di classe in esso crescente, con il suo impianto analitico e le sue proposte.

Nelle conclusioni fatte al termine del recente Comitato Politico Nazionale del Prc, Paolo Ferrero ha dichiarato sbagliata e respinto questa prospettiva, sostenendo che a sinistra del Pd c’è spazio per un solo soggetto: secondo il segretario del Prc, due poli non reggerebbero alla sfida e il più debole, quello comunista, sarebbe destinato a soccombere, essendo privo di risorse economiche, senza una rappresentanza parlamentare, fuori dal sistema mediatico. Di qui l’inevitabile cessione di sovranità in fatto di scadenze elettorali all’unico soggetto possibile.

Non nego le suddette difficoltà e, come ho detto, non penso che la cura dell’identità sia sufficiente a garantire automaticamente il consenso (ancorchè la ritenga necessaria e non aggirabile con scorciatoie politicamente fragili). Ma la posizione del segretario presenta due punti di debolezza assai gravi. In primo luogo, rassegnandosi a cedere al nuovo soggetto la cabina di comando in tema di elezioni, si sottrae alla sovranità decisionale dei comunisti quello che rimane comunque un aspetto essenziale dell’attività politica, dislocando la loro concreta operatività lungo una temporalità indefinita e scissa dai tempi politici dell’impegno istituzionale. In proposito, c’è un’ulteriore elemento problematico e a mio giudizio essenziale. Al contrario di ciò che pensa Ferrero, trovo inaccettabile il metodo  “una testa un voto” qualora dovesse caratterizzare il “nuovo soggetto”: per il semplice motivo che considero non barattabile l’autonomia decisionale del partito comunista. Non sarei disposto a gettare alle ortiche l’autonomia e l’efficacia degli organismi decisionali del Pc (nel caso, del Prc) in vista di un terno al lotto decisionale appaltato a un altro soggetto politico (non più comunista). Come dovrebbe essere del tutto chiaro, e come hanno sottolineato tutte le opposizioni alla proposta ferreriana, qui è in gioco ne’ più ne’ meno che l’esistenza di fatto del Prc.

In secondo luogo, non penso sia così scontato che quell’unico soggetto della sinistra cui dovrebbe approdare la stessa Rifondazione abbia alla lunga tutte le potenzialità di consenso che oggi Ferrero gli attribuisce. Vedo anzi che quel che resta della sinistra di alternativa, con i suoi rissosi gruppi dirigenti e i suoi logorati leaders, non offre poi tutto questo appeal. Ma allora è poi così scontato che un’agguerrita formazione comunista unificata, rinnovata e rigenerata nei gruppi dirigenti – nonostante il prevedibile ostracismo che subirebbe – sia destinata a vita grama? Io penso di no.