L’intellettuale collettivo

di Andrea Catone | Editoriale del numero in corso di distribuzione della rivista MarxVentuno

 

bandiere fdsSPONTANEITÀ E DIREZIONE CONSAPEVOLE

 

Nel Quaderni del carcere di Gramsci vi è una nota (quaderno 3, § 48) intitolata esplicitamente al binomio “spontaneità e direzione consapevole”, con un esplicito riferimento alla “dottrina di Ilic”, al Che fare? di Lenin del 1902. È la grande questione del rapporto tra movimenti di massa e organizzazione e direzione politica di essi. Gramsci, al pari di Lenin, individua l’unità inscindibile «della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della “disciplina”», indispensabile perché si abbia una «azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa». È un grave errore, che «può avere spesso conseguenze molto serie e gravi», «trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti “spontanei”, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica», poiché «avviene quasi sempre che a un movimento “spontaneo” delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo».

 

La questione che Gramsci pone non ha perso un briciolo di attualità: come far diventare “fattore politico positivo” i sentimenti e i movimenti di indignazione e protesta contro le ricette lacrime e sangue che le classi dominanti stanno imponendo ai popoli dei paesi europei travolti dalla grande crisi capitalistica, che si manifesta ora principalmente nella forma della crisi del debito sovrano? Direzione consapevole significa essere presenti attivamente nei movimenti di massa, contribuire alla loro costruzione e organizzazione, con una proposta politica di indirizzo, con una linea di massa, che non è certo partorita dal cervello di Minerva, ma nasce dalla sintesi dialettica di pratica sociale e di elaborazione teorica di un “intellettuale collettivo”. Di questo intellettuale collettivo, capace di elevare i movimenti “ad un piano superiore inserendoli nella politica”, c’è oggi assoluto bisogno, pena un pesantissimo arretramento del quadro politico-sociale, una soluzione di destra alla crisi, come avvenne già negli anni Venti-Trenta con l’affermarsi dei fascismi.

 

RICOSTRUIRE L’INTELLETTUALE COLLETTIVO

 

La straordinaria accelerazione che negli ultimi mesi ha avuto la grande crisi capitalistica, soprattutto nei paesi europei dell’area euro, richiede il massimo sforzo per accelerare i processi di ricostruzione e riorganizzazione del partito comunista, quale perno di un rinnovato “fronte po – polare” anticapitalista e di una più ampia alleanza democratica, che consenta al paese di liberarsi di Berlusconi; obiettivo questo che necessita nell’attuale situazione dell’accordo elettorale con il centro-sinistra. Il congresso, che il Pdci tiene a fine ottobre con l’obiettivo dichiarato di “ricostruire il partito comunista”, e tutti i compagni che tale obiettivo condividono, non potranno non tener conto di questa accelerazione della crisi italiana ed europea, che grava i comunisti di ulteriori grandi responsabilità di fronte alla classe operaia e ai movimenti popolari, di fronte all’intero paese. Non siamo in una situazione di “normale amministrazione”. Rispetto al precipitare della crisi occorre saper superare le piccole logiche di bottega, settarismi e particolarismi, e unire le forze alla ricostruzione dell’intellettuale collettivo. In proposito, non appare lungimirante la scelta del documento politico congressuale del Prc – per diversi aspetti condivisibile in alcune analisi – di rimuovere la questione dell’unità dei comunisti in un unico partito. Ci auguriamo che i compagni di Ri – fon dazione sappiano, nel corso del congresso, rivedere questa posizione e superare una chiusura non giustificata né supportata da alcun ragionamento esplicito, fatto alla luce del sole.

 

L’ACCELERAZIONE DELLA CRISI IN EUROPA

 

Bisogna avere piena consapevolezza di questa accelerazione dei ritmi della manifestazione della crisi: solo pochi mesi fa, quando le massime autorità bancarie inviavano messaggi rassicuranti e moderatamente ottimisti, sarebbe stato impensabile sentirsi dire dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet, in un’audizione al Parlamento europeo l’11 ottobre, che la crisi è “sistemica”, “la situazione è molto grave” e tende al peggio, con la Ue quale “epicentro della crisi mondiale”. Solo pochi mesi fa non erano all’ordine del giorno della politica italiana “manovre” economiche a raffica, che im – pongono decurtazione di stipendi pubblici, tagli pesantissimi alla spesa sociale e l’imposizione di nuove tasse che gravano principalmente sulle classi medio-basse (come l’aumento dell’Iva), senza peraltro che questi sacrifici aprano un qualsivoglia spiraglio di liberazione dalla morsa del debito pubblico: il rapporto tra i tassi pagati per l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano e di quelli della Germania – il paese sedicente “virtuoso”, dominante nell’Unione europea – rimane sostanzialmente inalterato (oscilla di poco sotto i 400/100) dopo due supermanovre da oltre 100 miliardi di euro, prospettando l’avvitarsi di una spirale greca, dove il denaro risparmiato sui tagli alla spesa sociale e ai salari non basta a pagare gli interessi sul debito, giunti a un livello più che usuraio.

 

CARATTERE POLITICO DELLA CRISI DEL DEBITO SOVRANO

 

Il carattere e gli aspetti di questa crisi sono analizzati in diversi articoli di questa rivista esplicitamente dedicati al tema, o tra i contributi sul documento congressuale del Pdci che abbiamo chiesto ad alcuni compagni. Qui interessa sottolineare un aspetto che ha un diretto e immediato rapporto con l’azione politica: la crisi del debito pubblico ha un carattere politico, richiede scelte politiche dei governi. La crisi di sovrapproduzione capitalistica ha cercato una prima via d’uscita nell’espansione a dismisura del credito, sfociata in una gigantesca bolla creditizia e il conseguente fallimento di alcuni grandi istituti di credito (nel settembre 2008 la statunitense Lehman Brothers ne è divenuta il simbolo), cui si è cercato di porre riparo con l’intervento diretto degli Stati e delle banche centrali, che hanno “immesso liquidità” nel sistema. La crisi si trasferisce sul debito pubblico, cresciuto già notevolmente nel corso dei decenni passati in tutti i paesi capitalistici per sostenere la domanda interna (anche attraverso la crescente spesa per armamenti) e remunerare il capitale in difficoltà di realizzazione di plusvalore, oltre che per comprare consenso e relativa pace sociale. Nel 2009 la forte caduta del prodotto interno lordo in tutti i paesi capitalistici dell’Occidente riduce le entrate fiscali e accentua la crisi del debito pubblico. La questione del debito pubblico interpella la solidità – non solo economica, ma politica, di tenuta sociale, di sistema – dei singoli stati e implica anche il manifestarsi della concorrenza e competizione intercapitalistica come concorrenza tra aree valutarie e tra stati, che sfocia in una vera e propria guerra tra “alleati” per la sopravvivenza. Delle tre grandi aree della triade imperia- listica (che chiamiamo “Occidente”, senza alcuna connotazione geografica), USA, Giappone, Ue, nessuna gode di buona salute sul fronte del debito pubblico: quello del Giappone è il doppio del pil; quello Usa, declassato dall’agenzia di rating S&P che ne prevede un ulteriore forte aumento nei prossimi anni, si avvicina alla cifra immensa di 15.000 miliardi di dollari (con l’aggravante di un enorme debito estero); la media dell’area euro nel rapporto debito/pil non si discosta significativamente da quella degli Usa.

 

FRAGILITÀ STATUALE DELLA UE

 

Ciò che cambia però per la Ue è la sua fragilità statuale, l’essere un’unione che non è divenuta uno stato a tutti gli effetti, l’essere rimasta a metà del guado, senza almeno una politica fiscale centralizzata e unitaria, valida per tutti gli stati membri. E l’euro – come da tempo ha scritto, tra gli altri, Samir Amin – è “una moneta senza stato”, che trova il suo paradossale risvolto nella trasformazione degli stati che l’hanno adottata in “stati senza moneta”, avendo ceduto la loro sovranità monetaria col passaggio all’euro. Nella guerra interimperialistica tra aree valutarie, che la grande crisi rende question de vie ou de mort, l’euro si è trovato ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, che hanno cominciato ad attaccare gli anelli più deboli di questa catena di coccio, a partire dalla Grecia, per passare ad Irlanda e Portogallo, azzannare la Spagna e poi l’Italia, per guardare infine anche alla Francia. Nella guerra senza esclusione di colpi tra fratelli/coltelli, la crisi è stata trasferita dagli USA all’Europa. A differenza che negli anni trenta essa manifesta tutto il suo carattere politico: non si tratta solo delle tante imprese che chiudono e rovinano la vita di milioni di lavoratori, in un destino che viene fatto apparire ineluttabile. Coinvolgendo gli stati, la crisi dell’economia capitalistica diviene non più mediatamente, ma direttamente, crisi politica.

 

STATO E CAPITALE

 

Siamo ben lungi dal ritirarsi dello stato dal mercato capitalistico, ma siamo di fronte a un sostegno diretto dello stato al capitale, e ad un intrecciarsi fortissimo di stato e banche. Le banche e i grandi fondi pensione, o i fondi monetari, sono pieni nei loro portafogli di titoli di stato, il cui deprezzamento per la crisi del debito pubblico incide direttamente sul patrimonio delle banche. Lo stato si pone al servizio delle banche, è sussunto dalle banche, mettendo a repentaglio se stesso. Ma ciò significa anche che il capitale ha bisogno di ricorre alla coercizione extraeconomica dello stato per mantenere il suo livello di profitto. Questa situazione, in cui la crisi capitalistica si manifesta direttamente, senza mediazioni, come crisi del debito pubblico e quindi crisi dello stato – e del sistema di stati –, crisi politica, è relativamente nuova nella storia del capitalismo: mentre di fronte alla crisi economica il capitale poteva invocare l’ineluttabilità oggettiva della crisi e l’impossibilità di farvi fronte, ora si presenta di fronte alle masse una questione direttamente politica. Una delle chiavi della soluzione risiede nel potere politico, nelle scelte politiche dei governi, e questo appare evidente, al di là del mantra che parla continuamente di anonimi “mercati” che speculano sui titoli di stato e possono determinare la salvezza provvisoria o l’affossamento di un paese. Ma ciò rende più individuabile l’obiettivo politico di una mobilitazione sociale di resistenza contro la crisi capitalistica: si tratta di operare scelte nette per il recupero della sovranità nazionale, nel duplice senso di nazionale e popolare, sulla direzione dell’economia; si tratta di imporre misure per il governo pubblico, nell’interesse pubblico, dell’economia.

 

CENTRO E PERIFERIE, DOMINIO E DIPENDENZA NELLA UE

 

La questione della sovranità nazionale significa ridisegnare radicalmente i trattati europei e i rapporti interni tra i paesi dell’area Ue e dell’euro. Uno dei limiti nella lettura della crisi del debito italiana è nel vederla esclusivamente come crisi interna, nazionale, dovuta a un governo inetto e incapace, dominato dall’ormai ingombrante figura di un capo corrotto e corruttore, interessato principalmente a difendere i propri interessi personali, più che screditato a livello internazionale, sostenuto da una maggioranza parlamentare composta da un buon numero di condannati passati in giudicato o inquisiti. Tutto vero. Il discredito di Berlusconi e l’incapacità di assumere una linea chiara sul versante della crisi da parte di un governo stretto tra interessi lobbistici e corporativi contrapposti facilita certamente l’attacco al debito pubblico italiano. L’incertezza sulle prospettive politiche rende più esposto e più fragile il nostro paese. Ma bisognerebbe anche guardare – e nessuno nell’opposizione parlamentare antiberlusconiana sembra farlo – alle relazioni internazionali di questa crisi, al fatto che non è solo in corso una guerra di classe, ma anche una guerra economico-politica tra aree valutarie e tra stati all’interno della stessa area. Da un lato la Grecia, il Portogallo, l’Italia sono sottoposti ad attacco in quanto paesi, dall’altro i rispettivi governi agiscono come quisling più o meno ossequiosi che impongono alle proprie popolazioni i dettami dell’invasore. Non si possono ignorare il ruolo del capitale e del governo tedesco nell’attuale crisi e i diktat e veti imposti attraverso la Bce ai governi dell’area euro, a cominciare dalla Grecia per finire all’Italia (con la lettera della Bce dei primi di agosto che interviene persino sul contratto nazionale di lavoro). Sarebbe miope vedere solo la dimensione nazionale e non quella internazionale della crisi e non coglierne le relazioni reciproche. Non si può far finta di non vedere che si è costituita un’Europa a diverse velocità e diverse aree periferiche, sottoposte alle imposizioni di un centro costituito dal direttorio franco-tedesco (più tedesco che francese), di fatto istituzionalizzato da diversi summit tra la Merkel e Sarkozy nell’ultimo anno.

 

UNA GERMANIA “TEDESCA” E NON “EUROPEA”?

 

Non si può non vedere che c’è, oltre alla profondissima crisi italiana, una non meno grave crisi accelerata della Ue e dell’euro. Questa crisi è ad un tempo economica e politica e riguarda in particolare le scelte del più forte paese della Ue (1/4 del pil complessivo), la Germania, che, dal primo apparire della crisi del debito greco nella primavera dello scorso anno, ha tenuto una politica miope e altalenante, ora chiudendo drasticamente, ora allargando i cordoni della borsa per finanziare il debito greco, e per salvare le banche tedesche che ne detengono buona parte. Il capitale tedesco appare diviso tra il mantenimento di un’opzione europea, che implicherebbe l’assunzione di una politica ferma e decisa, nella consapevolezza che il collasso di uno stato membro avvierebbe uno straordinario ripiegamento e la disgregazione di un’area che fino al 2007 (ingresso di Romania e Bulgaria) si presentava come aggregante e inclusiva, e l’idea di una Germania che, emancipatasi definitivamente con l’annessione della DDR nel 1990 dalla sindrome della sconfitta del 1945, può fare a meno della Ue e dell’euro, mantenendo l’area europea come proprio mercato di sbocco e subfornitrice per l’industria tedesca. (Sono utili a questo proposito alcuni articoli del volume di Limes dedicato alla “Germania tedesca”). Dall’inizio della crisi del debito sovrano greco nella primavera dello scorso anno, la politica della Germania, paese dominante e determinante delle politiche europee, è stata caratterizzata da un’oscillazione deleteria, che ha aggravato la crisi, fino a mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Unione europea, aprendo la possibilità di un altro terremoto geopolitico in Europa, dopo quello del 1989. La crisi incide e inciderà profondamente anche sugli equilibri tra stati. La cosa è già evidente nel ruolo mondiale assunto dalla Cina, dall’India e dagli altri paesi emergenti rispetto alla triade imperialistica. Ma questo era già in agenda nel 2007-2008. Non lo era invece la possibile deflagrazione della costruzione europea.

 

POCHEZZA DELLE CLASSI DIRIGENTI EUROPEE

 

Vi è nella crisi europea anche un altro aspetto, non secondario, che è politico, ma anche culturale: è la fortissima caduta di livello dei gruppi dirigenti europei, la pochezza della loro statura politica, rispetto a quella di una generazione precedente. Su versanti politici opposti, Brandt, Schmidt o Kohl appaiono dei giganti rispetto alla ondivaga Angela Merkel; Sarkozy è la caricatura della grandeur francese. Verrebbe da pensare che con la fine dell’antagonista rappresentato dall’URSS e dal campo socialista europeo tra il 1989 e il 1991 sia venuto meno anche lo stimolo a confrontarsi e a elaborare una cultura politica capace di guardare oltre il proprio naso. Non è un dato di secondaria importanza la caduta di un pensiero strategico borghese. È un aspetto di non poco peso di quella “crisi sistemica” del capitale riconosciuta (molto probabilmente non in questo senso) anche da Trichet. Le classi dirigenti europee, e non solo il degradato e degradante ceto politico berlusconiano-leghista, mostrano un’inusitata miopia e incertezza di fronte alla crisi; si mostrano ancora dominanti, ma non dirigenti, perché incapaci di svolgere un ruolo egemonico, incapaci di progettualità strategica. Lasciando aggravare la crisi greca oltre ogni limite e preparando con essa un’implosione dell’Europa, segano il ramo stesso dove sono sedute.

 

LA CRISI ITALIANA

 

La crisi dell’Italia nel contesto europeo appare ancora più grave, è crisi nella crisi. La debolezza della sua struttura economica, caratterizzata – dopo lo smantellamento della grande industria di stato (in gran parte opera di Amato, Ciampi, Prodi) – da imprese che, sottodimensionate per capitale e per numero di addetti, patrimonializzano i profitti e non reinvestono in nuovi mezzi di produzione e tecnologie, la porta anno dopo anno sempre più indietro nelle classifiche mondiali. L’enorme debito pubblico (1900 miliardi di euro) la espone più di ogni altro paese ai possibili attacchi e scorrerie della speculazione finanziaria. Il suo governo si rivela chiaramente incapace – perché non vuole e perché non può – di adottare misure che evitino il rischio della spirale perversa della Grecia. Il governo Berlusconi galleggia, naviga a vista, tenuto in piedi da una maggioranza risicatissima e divisa su tutto, fuor che sull’obiettivo di tirare a campare, danzando sul Titanic. Ma non rinuncia a muoversi sul terreno della corruzione pubblica di massa per cementare un blocco sociale di piccoli e grandi speculatori, agitando la possibilità di un nuovo condono, né a smantellare definitivamente quel che resta di diritti dei lavoratori e contrattazione nazionale. È significativo che nel il contrasto tra la Confindustria di Marcegaglia e la Fiat guidata da Marchionne, che lascia definitivamente l’associazione industriali e tira la volata ad altre possibili defezioni, il governo sostenga quest’ultimo, poiché Confindustria (cfr. F. Giavazzi sul Corriere della sera del 18.10.2011) giustifica la sua esistenza in quanto firma contratti nazionali coi sindacati, mentre la linea Marchionne è la deregulation assoluta, il contratto singolo tra capitalista e operaio, come se due secoli di lotte operaie non fossero mai esistiti. Il blocco berlusconiano si sfalda sotto i colpi della crisi. Berlusconi è diventato ingombrante per i capitalisti industriali di Confindustria, disposti persino a sdoganare l’idea di una moderata imposta patrimoniale e colpire le rendite per avere sgravi fiscali per le imprese e i lavoratori (in modo da avere un aumento del salario percepito senza esborso per le imprese, scaricandolo sulla fiscalità generale). Ma Berlusconi è ingombrante anche per la piccola impresa, oggi in grande affanno, privata delle commesse che la Germania, di cui era subfornitrice, sposta altrove e messa in ginocchio dalla stretta creditizia. Ad essa il governo non ha saputo offrire che aria fritta. Di qui anche i malumori e il dissenso all’interno della Lega nord, che sulla piccola impresa ha fondato, con l’accordo corporativo tra pa – dron cini e salariati, parte della sua fortuna elettorale. Alla crisi di consenso nella loro base, i dirigenti leghisti rispondono, in assenza di una proposta per i problemi economici, agitando la bandiera del separatismo come diversivo eversivo e pericoloso nella situazione di crisi profonda in cui versa il paese.

 

ASSENZA DI UN BLOCCO SOCIALE E POLITICO ALTERNATIVO

 

Ma se il blocco berlusconiano si decompone, tanto a livello sociale, quanto politico – con l’emergere di fronde democristiane, col malessere manifesto del presidente lombardo Formigoni o del sindaco di Roma Alemanno, con un rinnovato protagonismo dei vescovi e del mondo cattolico, alla ricerca di una fuoriuscita moderata e non traumatica dal berlusconismo –, stenta a formarsi sul versante opposto un blocco politico e sociale in grado di essere classe dirigente del paese nella crisi più grave che esso attraversa dalla nascita della Repubblica; in grado cioè di proporre non solo la semplice fuoriuscita dalla scena politica del sempre più ingombrante Berlusconi, ma un programma economicosociale e politico in grado di fronteggiare la crisi e di evitare la catastrofe del paese. (Catastrofe che, è bene dirselo con estrema chiarezza, nello stato attuale – politico e organizzativo – in cui si trovano le forze comuniste e di sinistra anticapitalista, non può essere foriera di un governo popolare rivoluzionario, ma di un ulteriore pesante peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, come è avvenuto nei paesi sfasciati dal Fondo monetario internazionale o bombardati dalla Nato).

 

RILANCIARE LA COSTITUZIONE DEL 1948

 

Perché si possa esercitare la necessaria azione di “direzione consapevole” dei movimenti di protesta contro la crisi capitalistica, occorre l’elaborazione collettiva di un programma di transizione, di una proposta politica al paese, che tenga conto di entrambi i lati della crisi, internazionale e nazionale, che si muova sul versante dei rapporti intereuropei rispetto al direttorio franco-tedesco e alla politica imposta dalla Bce, e su quello della politica interna, dove diviene fonda – men tale una politica di programmazione economica e di intervento pub blico in economia. La riattualizzazione dei principi e dei dettami della costituzione di democrazia sociale del 1948, difendendo e rilanciando gli articoli sull’economia sociale del titolo III, potrebbe essere una buona base di partenza. Alla quale va accompagnato il recupero pieno del sistema elettorale proporzionale integrale (senza sbarramenti) che ne innervava l’intera ossatura, come propone anche l’appello che pubblichiamo.