I giovani dalla fondazione del P.C.I. alla Resistenza (*)

di Pietro Secchia

pci giovani bandiereDiscorso pronunciato in occasione dell’anniversario della fondazione del PCd’I (21/01/1921)

da Pietro Secchia, Lotta antifascista e nuove generazioni, La Pietra, Milano, 1973, pp. 153-175

Ringrazio voi e il Partito per avermi, immeritatamente, invitato a partecipare a questa tavola rotonda trattando il tema: «Contributo del movimento giovanile dalla fondazione del P.C.I. alla Resistenza».

Ho detto immeritatamente perché, specie per i primi anni di vita del Partito e della F.G.C.I., sarebbe spettato ad altri compagni che allora erano alla direzione della Federazione Giovanile, come Luigi Polano, Edoardo D’Onofrio e Giuseppe Berti, fare questa esposizione. Nel 1920-21 io militavo nella F.G.C.I., anzi provenivo dalla Gioventù socialista, ma ero un dirigente provinciale, non facevo ancora parte degli organismi dirigenti centrali della F.G.C.I., nei quali sarei entrato soltanto nel 1924.


Quest’intervento sarà inevitabilmente incompleto per i limiti di tempo fissati. Ho scritto sull’«Unità» dell’8 luglio che nella storia del nostro Partito vi è una pagina bianca, perché anche negli studi più seri e più recenti non si parla o si accenna di sfuggita al contributo dato dalla gioventù rivoluzionaria alla fondazione del P.C.I. Certo, in articoli e discorsi celebrativi si esaltano la partecipazione, il sacrificio, lo slancio dei giovani nelle lotte del Partito dalla sua fondazione a oggi. Ma non di questo si tratta. Si tratta invece di un problema di importanza storica e politica. Se esso sfugge all’attenzione degli studiosi è un po’ per colpa nostra. I giovani in genere scrivono poco, amano i fatti; in quegli anni scrivevamo assai meno di oggi, che giovani non lo siamo più. In quegli anni, i giovani comunisti scrivevano la storia col sangue generosamente versato sulle piazze d’Italia, nelle lotte contro le squadracce fasciste.

La nascita del P.C.I. viene generalmente presentata come il confluire di due correnti fondamentali: quella dell’«Ordine Nuovo» di Torino, che faceva capo a Gramsci, Togliatti e Terracini; e quella del «Soviet» di Napoli, alla cui testa stava Amadeo Bordiga e, con lui, Ruggero Grieco e altri.

Se per frazioni e correnti ci si vuole riferire a gruppi che si presentavano con una ideologia elaborata, organica, tale presentazione può essere sufficientemente valida. Ma se vogliamo vedere le cose come stavano nella realtà, dobbiamo subito dire che a Livorno votarono per la costituzione del P.C.I., per farne poi parte come militanti attivi, altri due raggruppamenti organici, altre due forze consistenti che non facevano capo né all’«Ordine Nuovo» né al «Soviet» di Napoli. Questi furono i massimalisti unitari (comunisti unitari o più precisamente una parte di essi, e la Federazione giovanile socialista che, nella sua grande maggioranza, aderì al P.C.I. È vero che i giovani socialisti erano influenzati dall’«Ordine Nuovo» o dal «Soviet» di Napoli, ma non lo erano tutti. Una parte di quei giovani leggeva soltanto l’«Avanti!» e «Avanguardia», l’organo della Federazione giovanile socialista che, per esempio, nelle elezioni del 1919 aveva preso posizione per la partecipazione alla lotta elettorale e non per l’astensionismo bordighiano. L’adesione della grande maggioranza della F.G.S. al P.C.I. si caratterizzava non soltanto per l’apporto di energie giovani, fresche, sane e generose, cioè per il contributo dell’età che essa recava al Partito, ma anche per un suo contributo specifico di idee, di orientamento e di organizzazione.

È un fatto che la F.G.S. era la sola corrente veramente nazionale, nel senso che estendeva la sua rete organizzativa a tutto il paese. Ciò che non era per la corrente del «Soviet» e tanto meno per quella dell’«Ordine Nuovo».

Nel corso del 1920 molti giovani socialisti aderirono al P.S.I., costituendo e rafforzando in ogni regione i gruppi della frazione comunista. Senza questo forte contributo della F.G.S., noi comunisti non avremmo avuto a Livorno il risultato che abbiamo avuto e saremmo stati una minoranza ancora più piccola. Con la costituzione del P.C.I., migliaia di giovani passarono al nuovo Partito e ne furono in larga misura i quadri dirigenti di base. Ma la F.G.S. apportò anche un contributo politico. Ufficialmente essa non si era mai schierata né con l’«Ordine Nuovo» di Torino né con il «Soviet» di Napoli. Quindi costituì una specie di ponte, un collegamento tra le due correnti; esercitò in un certo senso una funzione moderatrice affinché le due correnti evitassero la polemica tra loro, smussassero gli angoli per assicurare prima, durante e dopo Livorno la più larga confluenza possibile per la costituzione del P.C.I.

I giovani comunisti subivano l’influenza di Gramsci e di Bordiga, ma essi erano di formazione diversa, in grande maggioranza operai non soltanto di origine, ma anche di professione, con una spiccata tendenza antintellettualistica (con tutto ciò che di giusto e di errato questa tendenza comportava). Appartenevano a una generazione più giovane di dieci anni rispetto ai dirigenti del P.C.I. Non erano passati attraverso le esperienze e le lotte del P.S.I., al quale si erano avvicinati solo negli ultimi anni di guerra o nel dopoguerra. Erano i figli della Rivoluzione d’ottobre più che del sindacalismo rivoluzionario soreliano, del riformismo turatiano o del massimalismo, cioè di quelle correnti che durante la guerra non avevano trovato migliore formula del «Non aderire e non sabotare». Senza dubbio le influenze dell’«Ordine Nuovo» e di Gramsci in particolare si facevano molto sentire, specie tra i giovani piemontesi. Noi (parlo di allora) fummo educati dall’«Ordine Nuovo» che aveva i suoi sostenitori e i suoi più attivi diffusori – a Torino, Vercelli, Biella, Novara, Alessandria – proprio tra i giovani. Ma l’«Ordine Nuovo» non varcava i confini del Piemonte. Inoltre la personalità di Bordiga – a cui nessuno, a cominciare da Gramsci, negò mai qualità eccezionali – affascinava e in un certo senso ipnotizzava i giovani, anche se non sempre questi lo capivano. Per di più Bordiga era stato uno dei dirigenti della Federazione giovanile socialista e direttore di «Avanguardia». Nei giovani vi erano meno preparazione ideologica, meno dottrinarismo e minore attaccamento ai vecchi schemi. Sfuggiva spesso a loro (come a molti altri) la differenza tra le posizioni di Gramsci e quelle di Bordiga, che erano diverse anche se i due dirigenti si trovavano d’accordo sulla necessità di fondare il P.C.I.

I giovani non erano inquinati né dalla pratica del riformismo né dalla mentalità frazionista che, poco o tanto, esisteva in ogni vecchio compagno militante del P.S.I.

Risultava chiaro ai giovani che la rivoluzione proletaria era all’ordine del giorno e che occorreva dare vita al più presto al P.C.I., cioè a un partito capace di dirigerla per guidare le masse all’insurrezione e alla vittoria.

I giovani portarono al Partito comunista il contributo e l’esperienza di una organizzazione di massa, di un contatto vivo con la realtà, con la vita, perché la Federazione giovanile socialista era una vera organizzazione di massa, con i suoi circoli, le sue fanfare, i ciclisti rossi, gli escursionisti, le biblioteche ecc.

Il fatto stesso che i comunisti rimanessero in minoranza al Congresso di Livorno, mentre i giovani comunisti – nel loro congresso di Firenze – furono la stragrande maggioranza, ha la sua importanza perché indica un diverso processo, un diverso grado di maturità nelle due organizzazioni e conferma che i giovani, meglio di altri, sanno cogliere il «nuovo». (Al Congresso socialista di Livorno del 21 gennaio 1921 i comunisti furono 58.783 contro 98.028 massimalisti e 14.595 riformisti, mentre al Congresso della F.G.S. a Firenze, dieci giorni dopo, i giovani comunisti furono 38.500 sui circa 48.000 votanti. Furono essi a escludere, anzi a cacciare dall’organizzazione giovanile la piccola minoranza di riformisti e massimalisti capeggiati allora da Fernando Santi). Ignorare o sottovalutare il notevole contributo dato dalla gioventù comunista alla fondazione e allo sviluppo del P.C.I. significherebbe non vedere uno dei principali elementi di forza di questo partito. Infatti, uno dei fattori (non il solo, evidentemente) che, malgrado le stolte e interessate profezie di malaugurio (i più davano al P.C.I. sei mesi di vita), assicurarono sviluppo e robustezza al nuovo partito, fu proprio quello di essere costituito in gran parte da giovani, nei suoi quadri dirigenti come in quelli intermedi e soprattutto nei suoi militanti. Nel 1921 Bordiga aveva 32 anni, Gramsci 30, Togliatti 28, Terracini e Scoccimarro 26. Se questa era l’età dei dirigenti, si può ben immaginare quale fosse quella dei compagni di base.

Alla vigilia del Congresso nazionale di Firenze, nel quale i giovani dovevano decidere se restare nel P.S.I. o andare col P.C.I., Gramsci scrisse:

“Ben venga dunque, dopo Livorno, il Congresso giovanile di Firenze. Se esso ci dirà che i giovani sono con noi, esso ci avrà dato l’assicurazione maggiore di vitalità e di forza che noi potessimo sperare.”

Era la traduzione del motto che fu di molti rivoluzionari, da, Lenin a Togliatti: «Chi ha con sé la gioventù, ha con sé l’avvenire». Oppure: «L’avvenire è della gioventù».

Occorre dire inoltre che, in tutti i tempi, i giovani si sono sempre schierati a sinistra (parlo dei giovani militanti nei movimenti della classe operaia) e occorre tener conto del fatto che noi giovani sentivamo scarsamente l’attaccamento unitario al vecchio Partito socialista, alle cui lotte partecipavamo soltanto da pochi anni. Noi giovani non sentivamo alcun dolore per la scissione che si prospettava e che a noi sembrava inevitabile, necessaria, scontata. La scissione di Livorno addolorava i vecchi militanti, tanto più che essi, seppure nell’asprissima polemica, sentivano come dal vecchio tronco si staccassero non rami secchi, ma la parte più giovane e vitale del Partito socialista.

C’era senza dubbio un po’ di leggerezza e di esuberanza giovanile nel nostro saluto portato al Congresso di Livorno:

“I destini della gioventù operaia e contadina sono strettamente legati a quelli di tutto il proletariato, e perciò questo Congresso è anche il nostro Congresso. Alle discussioni preparatorie di questo Congresso la gioventù comunista italiana ha partecipato con grande fervore, manifestandosi nella sua grande maggioranza favorevole all’adesione oggi alla Terza Internazionale, domani al Partito comunista che uscirà da questo Congresso.

Compagni! Oggi la gioventù operaia e contadina di tutto il mondo ricorda il grande campione dell’Internazionale giovanile Carlo Liebknecht. L’anno scorso la gioventù russa, per ricordare Carlo Liebknecht a Mosca, davanti al Cremlino, bruciò il fantoccio di Scheidemann. Quest’anno la gioventù socialista italiana chiede ai rappresentanti comunisti di bruciare il fantoccio dell’unità”(1)

Queste parole hanno oggi un suono strano per noi, cresciuti alla politica dell’unità: unità della classe, unità dell’antifascismo, unità delle forze democratiche e socialiste, unità del Partito. Se è vero che in un certo senso l’unità del P.S.I. era effettivamente un fantoccio, perché quel partito era diviso in diverse frazioni, ognuna con i propri giornali e un proprio orientamento, le quali finivano per neutralizzarsi a vicenda impedendo al Partito socialista di condurre una politica conseguente, è altresì vero che occorreva costituire il Partito comunista per dare unità e direzione alle lotte, per dare unità e direzione a tutte le correnti socialiste e democratiche.

Scriverà nel 1926 Antonio Gramsci:

“Noi forse, delle generazioni giovani, non abbiamo dato tutta l’importanza dovuta al dramma che allora fu vissuto. Perciò abbiamo incrudelito forse oltre misura nell’aggressione a ciò che ci pareva inutile sentimentalismo e sterile amore per le vecchie formule e per i vecchi simboli. Ma in verità la nostra generazione, appunto perché troppo giovane, appunto perché non aveva lottato per formare ciò che pure era una struttura organizzativa del partito e una tradizione, appunto perché non si era potuta appassionare per l’opera dei primi pionieri, appunto per tutto questo poteva percepire più distintamente la insufficienza della vecchia generazione a svolgere i compiti resi necessari dall’approssimarsi della bufera rivoluzionaria. Noi della giovane generazione rappresentavamo in realtà la nuova situazione, nella quale anche la classe nemica, pur di conservare il potere e di schiacciare il proletariato, avrebbe distrutto le vecchie forme dello Stato creato dalla giovane borghesia del Risorgimento.” (2)

Necessità del sorgere del Partito comunista

Si tratta di un problema ancora vivo a oltre cinquantanni di distanza. C’è chi sostiene che fu un errore dar vita al Partito comunista, rompere l’unità delle forze socialiste proprio nel momento in cui la minaccia e il terrorismo fascista incombevano. Si tratta di stabilire in primo luogo chi volle la rottura dell’unità. La frazione comunista che raccolse al Congresso di Livorno 58.753 voti, per rimanere nel vecchio partito chiese una cosa sola: che ne fossero allontanati i riformisti i quali avevano 14.695 voti, mentre la maggioranza composta dai massimalisti cosiddetti unitari disponeva di 98.023 voti. I massimalisti accettavano l’adesione del P.S.I. alla Terza Internazionale e le principali tesi politiche di questa, mentre i riformisti le respingevano. Vi fu quindi formalmente, come scriverà Togliatti, una scelta, da parte della frazione di maggioranza: questa preferì 14 mila riformisti ai 58 mila comunisti, rendendo così inevitabile la scissione. Ma il fondo del problema non è neppure questo. Per capirlo, si deve volgere uno sguardo a quella che era la reale situazione italiana e internazionale. Anche sul piano internazionale può apparire che siano stati Lenin e l’Internazionale comunista a volere la scissione del movimento operaio internazionale. In realtà il problema va posto assai diversamente.

Lenin scrisse:

“È evidente che coloro che hanno votato i crediti di guerra, che sono entrati nei ministeri e hanno difeso l’idea della patria nel 1914-1915 hanno tradito il socialismo. Solamente gli ipocriti possono negare questo fatto. Il contenuto dell’opportunismo e quello del socialsciovinismo sono identici: collaborazione delle classi, rinuncia alla dittatura del proletariato, all’azione rivoluzionaria, riconoscimento senza riserve della legalità borghese, mancanza di fiducia nel proletariato, fiducia nella borghesia. Il socialsciovinismo è la continuazione diretta e il coronamento della politica operaio-liberale inglese, del millerandismo e del bernsteinismo. Il socialdemocraticismo è l’opportunismo nella sua forma più completa. Esso è maturo per un’alleanza aperta, spesso volgare, con la borghesia e gli stati maggiori. È appunto questa alleanza che gli da una grande forza e il monopolio della stampa legale e dell’inganno delle masse” (3)

Da qui bisogna partire. Furono i socialdemocratici a rompere, a scindere il movimento operaio internazionale. Lenin non ne trasse che la logica conclusione. Occorreva dividerci per creare una nuova ed effettiva unità.

È evidente che, dopo avere spezzato di fatto l’unità del movimento operaio, gli opportunisti socialdemocratici innalzarono la bandiera dell’unità nel tentativo di mantenersi alla testa dei partiti socialisti per portarli uniti ad appoggiare le rispettive borghesie. Quella preconizzata dai socialdemocratici era quindi l’unità del proletariato con larghi strati della borghesia.

L’unità non è mai un valore assoluto. Di per sé può essere un bene o un male. Unità sì, ma con chi e per che cosa? Ecco la questione. Né ci si venga a dire che Lenin in più di una occasione sostenne la necessità di stringere accordi anche con alleati incerti o infidi, esitanti o temporanei. Senza dubbio, ma in quei casi si trattava sempre di realizzare un’alleanza o un fronte unico per determinati obiettivi. Nel caso nostro invece, era all’ordine del giorno la creazione del Partito comunista che non può essere un’alleanza, un blocco di forze eterogenee aventi un programma diverso le une dalle altre.

Forse che Lenin non aveva ragione nella sua analisi e nella sua caratterizzazione della socialdemocrazia e del fallimento della Seconda Internazionale? Forse che non aveva ragione di chiamare «socialimperialisti» e sciovinisti quei socialdemocratici che avevano difeso a viso aperto le ragioni delle rispettive borghesie favorevoli alla guerra imperialista?

Si trattava allora della necessità storica di dare vita ai partiti comunisti e al Partito comunista italiano. Si doveva o no dar vita al Partito comunista italiano? Era troppo presto o era troppo tardi? Questo è il punto. Il resto è secondario, in gran parte frutto del senno di poi.

È ovvio che sì dovesse dar vita al Partito comunista nelle condizioni migliori, ma ciò non dipendeva soltanto dai protagonisti e questo aspetto della questione e comunque era secondario rispetto al problema essenziale e primario: dare vita al Partito comunista. Su tale necessità, per quella tendenza a giudicare il passato con gli occhi del presente, anche da parte di storici seri, si sono venuti alimentando dubbi ed equivoci.

Noi ritenevamo allora necessario (e penso che i comunisti lo ritengano tuttora) dar vita al Partito comunista qualunque fossero le prospettive di sviluppo della situazione e l’azione immediata da portare avanti.

Volevamo e dovevamo fondare in ogni caso il Partito comunista. Più volte il compagno Togliatti ha scritto e affermato, ritengo con ragione, che – nel momento in cui fu creato il Partito comunista italiano – non esistevano più le condizioni per la conquista rivoluzionaria del potere, eravamo già nella fase di riflusso dell’ondata rivoluzionaria, l’offensiva aperta del fascismo contro le organizzazioni politiche, sindacali e cooperative aveva già riportato successi importanti.

Sì deve tener conto soprattutto del fatto che i dirigenti politici della grande borghesia industriale e agraria erano tutti orientati a stimolare l’impiego della violenza contro il movimento operaio. Le squadre fasciste erano armate dal governo, protette e fiancheggiate dalle forze armate dello Stato.

Anche se la situazione politica generale non appariva ancora decisa, era tuttavia già gravemente compromessa. Comunque, anche la lotta successiva contro il fascismo sarebbe stata condotta dal Partito comunista o non ci sarebbe stata affatto. Non si tratta di una supposizione, mi sembra che la storia lo abbia pienamente confermato.

In quella situazione, alla critica delle armi non si poteva opporre la critica delle parole, sulla quale si basava essenzialmente l’unità delle forze socialiste e democratiche dell’epoca. Ancora tre anni dopo, al momento dell’Aventino (la lezione non era servita), queste forze pensavano di poter rovesciare il fascismo con i «ludi cartacei» della campagna morale, con i saggi di belle lettere sui giornali, con i memoriali di Cesare Rossi e le lacrimevoli implorazioni al re, alla regina o a chi fosse.

Secondo alcuni, avremmo dovuto scinderci soltanto se fossimo stati la maggioranza. La scissione fu maggioritaria in altri paesi, e vicino a noi in Francia dove tuttavia, agli effetti della conquista del potere, le cose non andarono poi meglio. Non fu scissione di piccola minoranza quella avvenuta in Germania, eppure, malgrado la forza della socialdemocrazia tedesca e la sua partecipazione al governo, ciò non impedì al nazismo di vincere. Ci furono, è vero, anche gli errori nostri, ma questi non si possono mettere sullo stesso piano delle conseguenze e delle responsabilità che spettano alla politica condotta dalla socialdemocrazia. La scissione di Livorno fu necessaria. Era indispensabile dare vita al Partito comunista, al partito autonomo della classe operaia e dei lavoratori. Era necessario, lo ripetiamo, anche per poter condurre una lotta seria ed effettiva, seppure senza grandi prospettive di successo, contro il fascismo. Fu una necessità non soltanto di classe e per la classe (non era un obbiettivo rispondente a esigenze settarie) ma per la nazione intera. Significò dare ai lavoratori lo strumento per la loro emancipazione, per la rivoluzione socialista.

L’errore semmai consistette nel fatto che il Partito comunista venne costituito in ritardo e che non riuscimmo a conquistare la maggioranza del Partito socialista. Ma sarebbe semplicistico vedere quel mancato successo soltanto come il risultato del settarismo di Bordiga, dei gravi errori di Serrati, delle insufficienze e dei limiti dell’«Ordine Nuovo», dell’infantilismo e dell’estremismo del nostro movimento giovanile. Non esistevamo soltanto noi. I conti occorreva farli con tutte le altre forze politiche che operavano nel paese, dentro e fuori dal Partito socialista, e col peso delle abitudini, delle tradizioni tenaci, delle influenze conservatrici. Non ha senso porsi oggi il problema se sarebbe stato possibile o no, ritardando la scissione (o evitandola?), conquistare la maggioranza del Partito socialista. E neppure chiederci se le cose sarebbero andate diversamente se Lenin e l’Internazionale comunista, invece di insistere sulle 21 condizioni, si fossero accontentati dell’accettazione di 19 di esse. Il dissenso non verteva su due o tre delle 21 condizioni richieste per aderire all’Internazionale comunista (anche se così poteva apparire in superficie), non era su questioni particolari, seppure importanti: si trattava in realtà di due campi diversi, di due programmi, di due partiti. Le 21 condizioni erano un tutto, uno spartiacque tra riformismo e socialismo, la concezione del partito nuovo, avanguardia della classe operaia e dei lavoratori, con la sua ideologia, i suoi principi, la sua struttura, i suoi criteri di organizzazione e di direzione.

Con i se non si fa la storia. Occorre semmai ricordare ciò che in realtà avvenne. Bordiga sbagliava profondamente nel ritenere che fosse un successo il fatto dì non essere riusciti ad avere a Livorno la maggioranza o una adesione più consistente, ma sarebbe stato un errore mille volte più grave il lasciarsi ipnotizzare dal miraggio della maggioranza e il rinunciare a dar vita al Partito comunista.

Per quanto le posizioni errate di Bordiga possano avere influito, non furono determinanti sul modo in cui sorse il Partito comunista. È certo invece che i riformisti avevano sul Partito socialista un’influenza ben superiore rispetto a quella espressa dal numero dei voti raccolto a Livorno. Avevano nelle loro mani la Confederazione del lavoro, le più grandi amministrazioni comunali, le cooperative. L’influenza fortissima di Serrati, giustamente guadagnata con la sua tenace opposizione alla guerra, l’attaccamento all’unità, al vecchio partito e alle sue tradizioni (non tutte da respingere), esercitarono un grande peso, forse decisivo, né quella situazione avrebbe potuto essere rapidamente mutata. I fatti, ancora dopo la Guerra di liberazione, lo stanno a dimostrare. Lenin, si è detto, non considerò mai definitiva la scissione di Livorno. Effettivamente Lenin non la considerò mai definitiva come separazione di quella parte del Partito socialista che riteneva presto o tardi conquistabile (infatti nel 1923 aderiranno al P.C.I. i terzinternazionalisti capeggiati da G. M. Serrati, Maffi, Li Causi e altri). Lenin non ritenne mai definitiva questa rottura dell’unità politica della classe operaia, ma considerò Livorno come la separazione del socialismo da ciò che socialista non era più. Per Lenin, la nascita del Partito comunista in Italia era qualche cosa di conquistato e registrato, segnava il raggiungimento del punto più alto della coscienza di classe. Non c’è una sola parola di Lenin che possa fare sospettare un suo ripensamento a proposito dell’assoluta necessità di rompere con la socialdemocrazia, di dare vita al partito della rivoluzione proletaria. Nel 1921 vennero meno in Europa le condizioni che caratterizzano una situazione rivoluzionaria, ma non vennero meno le concezioni marxiste dello sviluppo della società e sulla rivoluzione. Da qui, il carattere permanente della concezione leninista del partito, senza il quale non è possibile condurre «una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società».(4)

Ma le tradizioni pesano, come pesò quell’attaccamento istintivo all’unità insito nella classe operaia che, a Livorno, diede la maggioranza ai massimalisti, almeno in parte soltanto per amore dell’unità del partito.

Se l’essere un partito di giovani, che aveva con sé la Federazione giovanile, costituiva un elemento di forza per l’avvenire, non mancavano le contraddizioni rispetto alla situazione del momento. Nei primi anni della sua vita il P.C.I. fu un piccolo partito, ristretto, settario, scarsamente legato alle masse. Ciò dipese anche dal fatto che, nelle diverse province, era rappresentato da elementi giovani i quali non portavano la dote di un patrimonio conquistato. Questi comunisti erano quasi sconosciuti alle masse lavoratrici e agli stessi militanti socialisti, influenzati dai dirigenti dei sindacati e delle Camere del lavoro, da capi politici e parlamentari che si erano guadagnati ascendente e prestigio nel corso di lunghi anni di lotta.

Fu facile lanciare contro di noi l’accusa di giovani ambiziosi e presuntuosi che non sentivano l’attaccamento al partito e che sarebbero finiti assai presto chissà dove.

Naturalmente i limiti derivanti dalla giovane età erano aggravati dall’orientamento settario della direzione bordighiana del Partito, in polemica sin dal primo momento con l’Internazionale comunista e con Lenin.

La Federazione giovanile non portava però al Partito comunista soltanto la forza degli anni verdi, ma anche un patrimonio di lotte combattute, alle quali qui posso solo accennare.

La lotta contro la guerra

Mi limito a sottolineare che, dalla sua fondazione avvenuta nel 1907 e fino al 1921 la Federazione giovanile socialista si era caratterizzata per la sua tenace, coraggiosa lotta antimilitarista contro la guerra e per la pace. Si può ben dire che questo sia stato il filo conduttore dell’azione politica della F.G.S., azione svolta non soltanto in tempo di pace, ma durante la guerra libica e nel corso della Prima guerra mondiale. Di quest’attività il P.S.I., partito d’ordine, si disinteressava quasi completamente. L’attività antimilitarista si svolgeva allora in condizioni e in forme primitive, diverse da quelle di oggi. Noi oggi lottiamo per la democratizzazione dell’Esercito e delle altre Forze armate, per eliminare dal loro seno i comandanti e gli ufficiali fascisti o asserviti allo straniero, i nemici della Repubblica e della Costituzione. Noi ci battiamo per il rinnovamento democratico di questi organismi, per l’abrogazione dei vecchi regolamenti di marca fascista, per fare di questi corpi parte essenziale della nazione e della vita del popolo. Noi sappiamo che, in questi Corpi, vi sono anche ufficiali e militari sinceramente democratici, fedeli difensori della Repubblica, della sua indipendenza e delle sue istituzioni.

In quell’epoca noi portavamo invece un attacco frontale contro le istituzioni militari, viste esclusivamente come strumenti di repressione interna, di minaccia e di aggressione verso altri popoli. Non eravamo contrari al servizio militare e neppure eravamo favorevoli alla diserzione, ma incitavamo i soldati alla disobbedienza e, in determinate situazioni, di fronte a certi ordini che contrastavano con i principi di libertà e con i diritti dell’uomo, alla «rivolta». «Non sparare sui tuoi fratelli, spara sui tuoi ufficiali che te lo ordinano», questa era una parola d’ordine di.quei tempi. Questa parola d’ordine e altre, diffuse con periodici lanci di manifestini, con il giornale «La Caserma», con riunioni di coscritti e di soldati, procurarono ai giovani socialisti numerosi processi e molti anni di carcere. Le «compagnie di disciplina» (speciali reparti di militari in punizione) erano alimentate in gran parte da giovani socialisti.

Nel 1916 la diffusione di un manifestino contro la guerra, elaborato dalla Conferenza internazionale di Berna, procurò un processo ai dirigenti della Federazione giovanile socialista. Federico Marinozzi (allora segretario nazionale della F.G.S.), Italo Toscani, Giuseppe Sardelli e Luigi Morara ebbero condanne da 5 a 6 anni di reclusione. Federico Marinozzi morirà in carcere. Durante la prima guerra mondiale i giovani socialisti italiani, data la loro immaturità, non erano arrivati alla parola d’ordine di Lenin: «Trasformare la guerra imperialista in guerra civile», ma essi lottarono attivamente contro la guerra, attaccando il social-patriottismo di Turati e dei riformisti insieme all’agnosticismo di gran parte del P.S.I., ingabbiato nella formula del «Né aderire né sabotare».

Nel corso della Prima guerra mondiale caddero i dirigenti della F.G.S. Amedeo Catenesi (segretario nazionale, succeduto a Marinozzi), Gerardo Russi, Giovanni Furlan, Engels Pulcini, e ben 800 iscritti all’organizzazione, attestando tra l’altro che, se la gioventù socialista si opponeva alla guerra imperialista, non lo faceva certo per pusillanimità davanti alla morte. I giovani socialisti lottarono contro la guerra, ma non disertarono, non si imboscarono nelle retrovie, come invece facevano molti nazionalisti e patriottardi a parole.

Sarebbe necessario approfondire le ricerche per definire il contributo di pensiero e di azione che la Federazione giovanile comunista ha dato alla fondazione del P.C.I. Certo è, comunque, che essa vi ha contribuito allo stesso modo e forse più di tutte le altre correnti che diedero vita al P.C.I. La Federazione giovanile era fortemente internazionalista, sensibile all’influenza della Rivoluzione d’ottobre, di Lenin e dell’Internazionale comunista. Qui è opportuno sottolineare ciò che alcuni storici tendono a mettere in secondo piano, quasi che dicendo la «verità» temessero di sminuire il carattere nazionale del nostro Partito. Il P.C.I. è nato in Italia, affonda le sue radici nella realtà nazionale, è frutto delle esperienze, delle lotte degli operai e dei lavoratori italiani, ma nessuno può negare che con queste si fondevano le esperienze internazionali e che il P.C.I. sorse alla luce della Rivoluzione d’ottobre, con i consigli di Lenin e con l’aiuto dell’Internazionale comunista.

Senza dubbio, nel primo dopoguerra, vi erano correnti di sinistra in tutti i partiti socialisti d’Europa, ma che cosa sarebbero riuscite a fare queste correnti senza la spinta che veniva dalla Rivoluzione d’ottobre, da Lenin, senza l’iniziativa e l’aiuto dell’Internazionale comunista? Avrebbero avuto la forza di lottare a fondo contro il riformismo, contro il socialdemocraticismo, di dare vita a partiti comunisti, a partiti autonomi della classe operaia? Comunque, sta di fatto che il 24 gennaio 1919 Lenin, Trotski, Bela Kun e altri lanciarono l’appello per la costituzione dell’Internazionale comunista, il cui primo congresso si tenne a Mosca l’1 marzo 1919. Lanciarono quell’appello e quelle direttive che in breve tempo, in tutte le parti del mondo, portarono alla costituzione dei partiti comunisti. Furono quegli appelli, quelle direttive che diedero autorità, forza, slancio alle correnti di sinistra operanti all’interno dei partiti socialisti. Tant’è che in tutti i paesi d’Europa e anche in altri continenti i partiti comunisti sorsero, si può dire, contemporaneamente, ossia negli anni 1920-1921.

Gli Arditi del Popolo

I primi anni di vita del nostro Partito furono duri e difficili. Nascemmo quando la reazione fascista si scatenava contro le organizzazioni proletarie, contro le sedi dei partiti di sinistra, delle Camere del lavoro, dei circoli democratici. Dominava nel nostro Partito la corrente estremista che, anche per reazione al vecchio andazzo socialista, era estremamente rigida, settaria, intransigente sui principi, contraria a qualsiasi alleanza o fronte unico con altri partiti e movimenti antifascisti.ù

I giovani dirigenti della Federazione giovanile, che pure si sarebbero staccati dal bordighismo soltanto nel 1924-25, erano tuttavia più elastici. Prevalse in loro l’esigenza di battersi, di agire. In contrasto con l’indirizzo del Partito, quasi dappertutto i giovani aderirono al movimento degli Arditi del Popolo e furono quelli che diedero il più forte contributo alla lotta armata contro le squadracce fasciste.

Sugli Arditi del Popolo occorre guardarsi tuttavia dal creare una leggenda, un mito a posteriori: «Forse – ha scritto Paolo Spriano – fu la più grande occasione mancata dell’antifascismo militante prima della marcia su Roma». (5)

La posizione assunta da Bordiga e da tutta la Direzione del Partito comunista di quel tempo, contraria a che i comunisti aderissero agli Arditi del Popolo per il motivo che tra i promotori vi erano elementi equivoci, che non era chiaro da chi fossero mossi e quali ne fossero le reali intenzioni, fu senza dubbio un gravissimo errore.

Con l’adesione agli Arditi del Popolo vi sarebbe stata la possibilità di realizzare un largo schieramento unitario con altre forze decise a lottare, ma la direttiva fu che i comunisti dovessero combattere con le proprie squadre armate.

Tuttavia il richiamo quasi costante che in seguito, nei documenti del P.C.I. e dell’Internazionale comunista, si fece a quel grave errore, ha sempre avuto un valore più che altro educativo, formativo; non ha mai voluto significare che il movimento degli Arditi del Popolo avrebbe potuto capovolgere la situazione allora in atto. Questa fantasiosa illusione, frutto di fertile immaginazione, contraddice tutta l’analisi della situazione del 1921-22 fatta da Gramsci, da Togliatti e dal Partito. Se è vero che la casta militare, le Forze armate, la polizia e la magistratura appoggiavano in quegli anni apertamente lo squadrismo fascista e che l’offensiva fascista, decisa in piena coscienza dai grandi industriali, dai grossi agrari, dalle alte autorità della Corte, dell’Esercito e della Chiesa,

“era apparsa a costoro necessaria. Indispensabile per creare una situazione nuova, in cui una qualsiasi possibilità di avanzata democratica e sociale fosse esclusa, e tale essa finì per apparire a tutto il personale dirigente della società italiana, dai filosofi Gentile e Croce allo statista Giolitti, al riformista Bonomi, al clericale De Gasperi, dal re al papa, senza eccezioni”,(6)

non si può dimenticare di colpo tali analisi quando si affronta un problema particolare. Né si può dimenticare che i dirigenti del Partito socialista (Matteotti compreso), decisamente contrari alla lotta armata, accusavano noi comunisti di essere «provocatori» perché combattevamo le squadracce fasciste e ci difendevamo con la lotta armata, mentre essi predicavano la rassegnazione, la non resistenza, «il coraggio di essere vili»:

“Noi continuiamo da mesi e mesi a dire nelle nostre adunanze che non bisogna accettare le provocazioni, che anche la viltà è un dovere, un atto di eroismo”.(7)

Soprattutto non è lecito dimenticare che quel tanto di lotta armata, di resistenza contro il fascismo, sotto la bandiera degli Arditi del Popolo o sotto quella di gruppi di partito di difesa proletaria, fu sostenuta in ogni località, da Trieste a Roma, da Novara a Parma, prevalentemente dai comunisti e dalla parte più avanzata dei socialisti, degli anarchici e di altri raggruppamenti. Nella difesa delle Camere del lavoro, delle sedi dei loro partiti, delle associazioni proletarie, i lavoratori d’avanguardia finirono per trovarsi uniti in molte località. Ma, per quanto eroiche, non si trattò di azioni dell’avanguardia di un grande esercito all’offensiva, bensì delle ultime resistenze dei reparti di un esercito in ritirata e sconfitto.

Le iniziative per l’unità

Fin dai primi anni, i giovani comunisti furono in disaccordo con Bordiga sul problema delle cellule di officina. Essi ritenevano, d’accordo col Partito e con l’Internazionale comunista, che queste cellule dovessero essere la base fondamentale del Partito. Inoltre, fin dal principio i giovani comunisti svilupparono un’attività di fronte unico, stabilendo collegamenti con i giovani socialisti, la cui Federazione subì, nel 1923, un nuovo forte esodo di iscritti passati alla Gioventù comunista.

Poiché la maggioranza della F.G.S. era per l’adesione alla Federazione giovanile comunista, la Direzione del Partito socialista intervenne sciogliendola. Ricostituita nel 1924, la F.G.S. trovò nuovamente i giovani comunisti pronti ad allacciare rapporti e a portare avanti iniziative comuni nella lotta contro il fascismo. Dopo la marcia su Roma, per alcuni anni i fascisti mantennero in piedi una certa facciata democratica: erano rimasti il Parlamento, alcuni giornali di opposizione, i sindacati di classe. Gli oppositori vivevano in un regime per così dire di «libertà vigilata», ma una certa attività legale, per quanto limitata, era ancora possibile, specialmente negli anni 1924-25, durante il periodo di crisi del fascismo provocata dalle difficoltà oggettive e dal delitto Matteotti.

Fu il periodo in cui Gramsci, Togliatti, Terracini e Scoccimarro lavorarono con tenacia e con decisione per conquistare il Partito al leninismo, alle posizioni dell’Internazionale comunista, e per sconfiggere la corrente estremista bordighiana. Fu il periodo in cui il P.C.I. cominciò a diventare partito di massa, a collegarsi con le masse, a sviluppare, sia pure ancora timidamente, una seria politica di unità e di alleanze.

La F.G.C.I., sotto la direzione di Luigi Longo, Edoardo D’Onofrio, Giuseppe Dozza e altri, ottenne notevoli risultati in questa direzione; organizzò nei centri industriali scioperi di giovani, particolarmente in fabbriche tessili, in vetrerie e nei cantieri navali. Si trattava di aziende in cui i giovani esercitavano un peso notevole, perché impegnati in forme di produzione che condizionavano l’attività dell’intero stabilimento.

Quelle agitazioni e quegli scioperi erano organizzati per mezzo dì conferenze di officina convocate semiclandestinamente, alle quali venivano invitati anche i giovani socialisti, i cattolici e gli anarchici. Al termine della conferenza si nominava un Comitato di agitazione, incaricato di sviluppare l’attività e di preparare la lotta in determinate fabbriche.

Le conferenze d’officina nominarono anche delegazioni, composte da giovani di ogni corrente democratica, che andarono a visitare l’Unione Sovietica e che, al ritorno, riferirono giudizi e impressioni ai loro compagni.

Nel lavoro pratico, i giovani comunisti si trovavano completamente d’accordo con l’indirizzo politico del Partito. Politicamente, soltanto nel 1924-25 l’Internazionale comunista, che dava molto importanza e molta attenzione ai giovani, riuscì a conquistare alle giuste posizioni la direzione e la maggioranza della F.G.C.I. Come si spiega questa lunga permanenza dei giovani sulla piattaforma bordighiana (anche se dissentivano da Bordiga su alcune questioni fondamentali)? Credo che, insieme alla nostra debolezza e alla nostra impreparazione politica, pesasse molto il fatto che la Federazione giovanile aveva sempre rappresentato, in seno al Partito socialista, il gruppo d’avanguardia, la forza d’urto, la corrente sempre d’accordo con le frazioni di estrema sinistra. Non a caso lo stesso nostro giornale si chiamava «Avanguardia». Noi andavamo fieri di essere all’estrema sinistra. Essere «all’avanguardia» significava per noi essere a sinistra anche in seno al Partito, cosa peraltro non sempre vera.

Il distacco da Bordiga, oltre che dall’opera paziente di Gramsci e di Togliatti, fu favorito dall’errore commesso dalla sinistra bordighiana nel 1924, con la costituzione del «Comitato d’intesa», cioè di una frazione all’interno del Partito. No, non si poteva, non si doveva ritornare ai metodi di lavoro che avevano reso impotente il Partito socialista! Fu quello il fattore che accelerò il rapido passaggio dell’intera Federazione giovanile comunista (una parte già vi si trovava da qualche tempo), alle giuste posizioni del Partito e dell’Internazionale comunista.

Le leggi eccezionali fasciste

Il fascismo, che nei primi anni aveva mantenuto una certa facciata democratica, ben presto si accorse che anche quel poco di libertà rimasta era sufficiente a permettere alle forze socialiste, comuniste e democratiche di riorganizzarsi, di guidare le lotte operaie e contadine e di lottare efficacemente contro la politica estera e interna del regime, I fascisti presero allora a pretesto alcuni attentati susseguitisi contro Mussolini, l’ultimo dei quali compiuto a Bologna il 31 ottobre 1926, per sopprimere tutte le libertà. Non si può dire che nel novembre 1926, quando con la promulgazione delle leggi eccezionali cosiddette «per la difesa dello Stato» cadde sull’Italia la pesante cappa della dittatura totalitaria, i partiti antifascisti fossero preparati a lottare nella clandestinità. Il solo partito che aveva una certa preparazione, seppure non adeguata, era il P.C.I.; gli altri non si erano neppure posti il problema di continuare a esistere e a lottare anche in periodo dì leggi eccezionali. Quindi gli altri partiti si sciolsero in obbedienza alle nuove leggi e alcuni trasferirono le loro sedi all’estero, asserendo che in Italia non si poteva più fare nulla. Non mancarono esempi di coraggio e di resistenza da parte di lavoratori di ogni corrente antifascista, ma la posizione dei partiti (ed era quella che soprattutto contava) fu di accettare, sia pure subendole, le leggi eccezionali.

Soltanto il P.C.I. dichiarò apertamente che non si sarebbe sottomesso a quelle leggi inique, anticostituzionali, e invitò i suoi militanti a continuare l’attività contro il fascismo e contro il capitalismo.

Per alcuni anni il P.C.I. rimase solo sulla breccia (posizione di forza, ma anche di debolezza, perché fino a quando era solo restava isolato) a condurre la lotta a prezzo di dolorosi sacrifici.

I giovani come fattore di resistenza

Come si spiega la capacità di resistenza del P.C.I? Innanzi tutto non si trattava di un partito come tutti gli altri, ma di un’organizzazione rivoluzionaria degli operai e dei contadini che si proponeva di lottare per la conquista del potere e per realizzare in Italia la società socialista.

In secondo luogo il P.C.I. era un partito nazionale e internazionalista. Anche se la decisione di continuare la lotta fu presa in piena autonomia, senza alcun intervento esterno, ci furono senza dubbio di guida i principi e la pratica del leninismo e la Carta dell’internazionale comunista che facevano dovere a ogni partito comunista di saper condurre la lotta contro il capitalismo in qualsiasi situazione, in tempi di bonaccia come in quelli di tempesta, adottando le forme più diverse di lotta a seconda delle situazioni; facevano obbligo a ogni partito comunista, anche nelle situazioni normali di avere, accanto a una organizzazione «legale», un apparato di lavoro clandestino predisposto per ogni evenienza. Ci servirono altresì di esempio e di guida le lotte che, ancora prima di noi, altri partiti comunisti, in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Jugoslavia ecc., avevano condotto e conducevano contro la reazione e il fascismo.

Ma un altro elemento peculiare del P.C.I, che ne spiega la capacità di lotta e di resistenza, è che si trattava di un partito di giovani che aveva con sé una robusta e combattiva Federazione giovanile. Se si fosse trattato di un partito di anziani militanti e di vecchi, col peso e le preoccupazioni delle famiglie cui provvedere e con una mentalità formatasi in una certa misura in altre epoche, in seno al Partito socialista, le cose sarebbero andate un po’ diversamente.

Citerò un solo dato: sui 4.596 condannati dal Tribunale speciale fascista tra il 1926 al 1943, ben 3.507 erano i giovani di età inferiore ai trent’anni, di cui 1.508 sotto i venticinque anni. I giovani ebbero dunque nella costruzione del P.C.I., nella sua lotta tenace durante il fascismo e poi nella Resistenza, nella lotta partigiana, una funzione di primo piano, entro certi limiti anche decisiva.

In quegli anni la Federazione giovanile comunista seppe dare al P.C.I. un grande contributo nell’azione e anche nell’elaborazione della linea politica, facendo fortemente sentire il peso della sua presenza e delle sue idee, nell’azione in Italia e nei dibattiti in seno agli organismi dirigenti del Partito. Sotto la guida di Togliatti, questi seppero recepire quanto tra urti, contrasti, immaturità ed errori, i giovani portavano di giusto e di positivo. Specialmente negli anni dal 1928 al 1932 vi furono vivaci discussioni, non soltanto in seno ai diversi raggruppamenti antifascisti e nostre nei loro confronti, ma anche in seno allo stesso P.C.I., sulla natura del fascismo, sul come sarebbe stato abbattuto, sul carattere che avrebbe avuto la rivoluzione antifascista, sulla strategia da adottare per lottare efficacemente.

Non di rado quelle discussioni assumevano toni piuttosto aspri, per il fatto che esse avvenivano sotto i colpi del nemico, talvolta dopo certi disastri che ci imponevano momentanee ritirate e il riesame della nostra attività, dei nostri metodi lavoro e di lotta, della nostra linea politica.

Per brevità mi limiterò ad accennare ad alcuni temi. Discussioni vi furono tra coloro che sostenevano che il fascismo sarebbe caduto in conseguenza della crisi economica e della crisi della sua stessa politica, in seguito all’opposizione che sarebbe sorta in seno ai gruppi dirigenti del grande capitale, e altri che invece sostenevano che il regime sarebbe stato abbattuto soltanto dallo sviluppo delle lotte di massa e dalla insurrezione armata degli operai e dei contadini.

Altra discussione fu quella sull’attività da svolgere in seno ai sindacati, al Dopolavoro e agli altri organismi di massa del fascismo. In questa direzione ci muovemmo lentamente e in ritardo. Le resistenze da vincere venivano soprattutto dalla base, dai compagni più anziani, ai quali sembrava che aderire ai sindacati fascisti (i soli che potessero esistere legalmente sotto la dittatura) fosse un tradimento e una capitolazione. Come si sa, prevalse la tesi che dovevamo operare anche in seno alle organizzazioni fasciste e cioè in ogni associazione, ovunque si trovassero le masse lavoratrici.

Vi fu anche una discussione tra chi sosteneva e chi negava che, date le difficoltà della situazione, la lotta economica e sindacale doveva diventare, se non la sola, la prima attività del Partito. Questa posizione fu battuta e respinta perché si riconobbe che il P.C.I. doveva, e ne aveva coscienza, saper organizzare e dirigere non soltanto le lotte economiche e sindacali, ma anche la lotta contro la fascistizzazione della gioventù, la lotta nelle officine e nelle scuole, la lotta in seno alle stesse organizzazioni fasciste di massa, la lotta contro la militarizzazione del paese e contro le imprese belliche aggressive che il fascismo preparava. In una parola, occorreva saper condurre la lotta contro tutti gli aspetti della dittatura e della politica fascista, contro le strutture dello Stato fascista nel suo complesso. Occorreva una lotta efficace e di massa per rovesciare il fascismo, prima che con le sue guerre e con l’alleanza al nazismo, il fascismo portasse – secondo la lucida previsione di Gramsci – il paese alla rovina.

Come si svolgeva l’attività del P.C.I. e della F.G.C.I.?

Il Partito interveniva essenzialmente con azioni di propaganda, diffusione della stampa clandestina nelle fabbriche e nei luoghi di abitazione, e con l’organizzazione di fermate di lavoro e scioperi nelle fabbriche e di manifestazioni nelle campagne contro i municipi, contro il podestà, contro gli Uffici delle imposte e altre sedi di autorità fasciste.

Era un’attività estremamente rischiosa, che portava a numerosi arresti di compagni dirigenti del Partito e delle organizzazioni di base. Un comitato federale durava in media 5 o 6 mesi, poi era spazzato via e i compagni finivano a Portolongone, a Volterra o a Civitavecchia.

Vi era chi si chiedeva allora se quell’attività servisse a qualche cosa, se il suo costo non fosse troppo alto. Vi è chi sottolinea oggi che, per il numero ristretto e la forza relativa di quelle agitazioni e di quegli scioperi organizzati a prezzo di tanti sacrifici, non si riuscì mai a spezzare la legalità fascista o a produrre rotture anche soltanto a livello locale.

Effettivamente fino al marzo 1943 questa rottura non avvenne, ma durante 17 anni quella «legalità fascista» fu continuamente incrinata, intaccata, lacerata da azioni e movimenti locali che servivano a stimolare, a risvegliare le coscienze, a portare altri lavoratori a unirsi, a organizzarsi e a scendere in lotta contro il fascismo.

Dopo quasi due anni di lotta impari, contro un nemico che disponeva di tutte le armi e di tutto il potere, nel giugno 1928 il P.C.I. e la F.G.C.I. si trovarono in crisi, in una delle crisi più gravi della loro storia. Migliaia di combattenti, i quadri più preparati, si trovavano nelle carceri e nelle isole di confino; il Partito e la Federazione giovanile avevano ricevuto durissimi colpi, le organizzazioni periferiche erano state gravemente mutilate e scompaginate. Una ritirata s’impose, ma per dei rivoluzionari la ritirata non poteva essere concepita come una sconfitta definitiva o una catastrofe, in seguito alla quale fosse giocoforza arrendersi di fronte alla realtà del fascismo; come se la realtà fosse più forte di noi e dovessimo arrenderci per non spezzarci la testa contro il muro.

Noi, la ritirata la concepimmo come una necessità per riorganizzare le forze, educare nuovi quadri, rimettere in sesto le organizzazioni, riprendere i collegamenti perduti. Nella seconda metà del 1928 e parte del 1929 fummo anche noi costretti a operare prevalentemente all’estero, a stampare i giornali clandestini in Francia, in Svizzera e a farli pervenire in Italia per le vie e i mezzi più diversi.

L’emigrazione ci servì anche per riprendere i collegamenti in Italia (inviando nel paese compagni precedentemente emigrati per ragioni di lavoro, che quindi potevano rientrare legalmente), per reclutare nuovi quadri, per ricostituire l’apparato del Partito, per organizzare scuole ed educare nuovi comunisti alla lotta in Italia. Quando questo lavoro fu compiuto e le ferite in gran parte riparate, fu decisa e compiuta la «svolta» che significava la fine della «ritirata», la ripresa del lavoro in Italia con forza e di slancio, con la presenza fisica di un centro dirigente nel paese, ossia con una parte della Direzione del Partito e della F.G.C.I. in Italia.

La svolta

Prima di arrivare a queste conclusioni, si ebbero nel centro dirigente del Partito molte discussioni. La questione è nota, se n’è parlato molto. Vi fu chi si oppose alla «svolta», sostenendo che avremmo ripetuto gli errori dei primi anni e che ci saremmo ritrovati ben presto al punto di prima, con le organizzazioni scompaginate e altre migliaia di compagni in carcere. La realizzazione della «svolta» era anche legata alle analisi e alle conclusioni dell’Internazionale comunista (VI Congresso del 1928 e X Plenum), cioè alla prospettiva di una incombente, grave crisi generale del capitalismo, di un grave pericolo di guerra, di un’acutizzarsi dei movimenti e delle lotte di massa, di una prossima nuova ondata di movimenti rivoluzionari in tutti i paesi. Tali analisi e prospettive si dimostrarono giuste soltanto in parte. La grande crisi economica del 1929-1932 venne, ma non fu accompagnata da possenti movimenti di massa tali da sfociare in una nuova ondata rivoluzionaria. Alla guerra si arrivò, ma solo nel 1939, dopo quasi dieci anni. È vero che dal 1928 in poi si ebbe un susseguirsi di conflitti locali in ogni parte dei mondo: dalla Cina alla guerra di aggressione dell’Italia all’Etiopia e all’intervento fascista in Spagna, ma in nessun paese, a eccezione della Spagna e della Cina, il movimento di lotta delle masse assunse un carattere rivoluzionario. Al contrario, in quegli anni il fascismo estese i suoi tentacoli, riuscì a vincere in altri paesi d’Europa e segnatamente in Germania. Tale sviluppo mutò profondamente la situazione, la tattica e la strategia dei partiti comunisti. Ma questo tema, trattato al VII Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1935, non può essere qui ricordato che di sfuggita. La discussione sulla «svolta» provocò comunque una grave crisi, una frattura nello stesso Centro dirigente del P.C.I., quale non si era avuta prima e quale non si ebbe più in seguito. L’Ufficio politico si spezzò in due e metà dei suoi componenti dovette essere esclusa dal Partito. Il voto di maggioranza alle giuste posizioni politiche di Longo e di Togliatti fu dato dal rappresentante della Federazione giovanile.

Il Comitato centrale della F.G.C.I. fu unanimemente a favore della «svolta» e diede un notevole aiuto al Partito. Qui ancora una volta si rivelarono il temperamento combattivo della gioventù e la sua tendenza a voler assolvere una funzione di avanguardia. Personalmente sono sempre dell’opinione che, indipendentemente dalle analisi e dalle prospettive dell’Internazionale comunista, dimostratesi giuste solo in parte, noi in Italia avremmo dovuto compiere ugualmente la «svolta» se volevamo salvare il Partito e ilsuo avvenire. Se fossimo rimasti durante 15 anni a operare soltanto o prevalentemente all’estero, non saremmo il partito che siamo oggi. Si dirà che il P.S.I., pur avendo durante 17 anni operato soprattutto all’estero, all’indomani della Liberazione si trovò con una influenza elettorale superiore alla nostra. Si deve però tener conto che il P.S.I. aveva un patrimonio di lotte e di tradizioni risalenti al 1880 e al 1892; si era conquistato un’influenza, aveva messo profonde radici in larghi strati di lavoratori. Non così era per il nostro Partito che, nel 1929, aveva appena otto anni di vita e non era mai stato un vero partito di massa.

Il grande valore della «svolta» non consistette soltanto nel fatto che il P.C.I. e la Federazione giovanile riuscirono a essere fisicamente presenti con molti militanti e quadri dirigenti attivi in Italia, ma anche nell’aver fatto conquistare a tutto il partito e alla gioventù comunista alcune posizioni ideologiche e politiche che non si sarebbero più perdute: in primo luogo, la persuasione che le situazioni non si creano spontaneamente, da sole, che il fascismo non sarebbe caduto come cade una mela matura, che non sarebbe stato sufficiente attendere. Anche allora, come durante la Guerra di liberazione e dopo, fummo decisamente contrari a ogni forma di «attesismo». Non si attende l’ora X, la si prepara. Le situazioni si preparano e si mutano soltanto con la lotta. In secondo luogo, ci convincemmo che il Partito deve essere sempre alla testa delle masse, all’avanguardia e non al seguito delle masse. Certo, non ci si deve mai staccare dal grosso dell’esercito, perché un’avanguardia isolata non è più un’avanguardia. (E’ il caso di certi «gruppuscoli», dei quali nessuno nega facciano parte giovani generosi e combattivi, ma che isolandosi dalle grandi masse, staccandosi dal grosso della classe, senza una chiara e giusta visione della realtà e delle possibilità, sono destinati alla sterilità, a non fare nulla dì positivo).

In terzo luogo, capimmo che per assolvere alla loro funzione, il Partito e con esso la F.G.C.I. non potevano limitarsi a condurre la lotta dall’estero, ma dovevano essere attivamente presenti in Italia, nelle officine, nei campi, nei cantieri, perché era in Italia che gli operai, i tecnici, i contadini, gli studenti lavoravano e vivevano sotto il tallone di ferro del fascismo. Fummo persuasi che un partito rivoluzionario non può essere politicamente presente in una situazione se non lo è anche fisicamente, se non opera laddove ci sono le masse. Il Partito non può essere presente soltanto con l’idea, ma deve esserlo con l’azione e per guidare l’azione delle masse.

II valore della «svolta» deve essere visto non soltanto nei suoi riflessi nel P.C.I. e nella F.G.C.I., ma anche per l’importante stimolo che esercitò nei confronti degli altri partiti e movimenti antifascisti. Fu in quegli anni 1931-1932 che sorse il movimento di «Giustizia e Libertà», il quale si propose di operare in Italia; e in quegli stessi anni i socialisti Lelio Basso, Lucio Luzzatto, Eugenio Colorni, Rodolfo Morandi e altri (Alessandro Pertini aveva già dato l’esempio con l’azione ed era stato condannato dal Tribunale speciale a 10 anni e 9 mesi) diedero vita in Italia ad un Centro interno del Partito socialista. E ancora in quegli anni anche i cattolici, sfruttando la rete dell’Azione Cattolica, diedero vita al movimento cosiddetto «neoguelfo» che, nel 1934, porterà il Malvestiti, il Malavasi e altri davanti al Tribunale speciale. Tra tutti i partiti, il Partito comunista (e con esso la F.G.C.I.) riuscì a essere il più presente in Italia, anche se non lo fu sempre in tutte le regioni e in tutte le province, e non sempre con la stessa forza, ma con interruzioni e con periodi «vuoti». I colpi della polizia cadevano e colpivano duramente, strappando quella rete che, con tenacia, ogni volta si riprendeva a tessere. Bisognava fare i conti anche con l’Ovra. Eppure, nonostante tutto, il Partito comunista fu presente con una continuità che non ebbe riscontro in quella di nessun altro partito.

Se i comunisti si trovarono così numerosi a combattere in difesa della Repubblica spagnola e nella Resistenza francese, se si trovarono il 5 marzo 1943 all’appuntamento delle ore 10, alla testa dei grandi scioperi di Torino e di Milano, è perché quell’ora non l’avevano attesa, ma preparata giorno per giorno, con lunghi anni di lavoro e di lotta che erano costati dolori e sacrifici. A quel lavoro e a quelle lotte i giovani comunisti avevano partecipato con slancio e in prima linea.

E se l’8 settembre 1943 i comunisti si trovarono a essere i primi e tra i più preparati organizzatori della Resistenza, se essi riuscirono a farsi ascoltare e seguire da quegli stessi giovani educati nelle scuole e nelle guerre del fascismo, fu perché il P.C.I. e la F.G.C.I., malgrado tutto, non avevano mai cessato di essere attivamente presenti in Italia.

Queste cose le ho volute ricordare nel momento in cui molto si discute dei giovani e dei loro problemi. La lotta di classe costituisce la base fondamentale dei conflitti sociali e la forza motrice della società, ma gli uomini non sono divisi soltanto in classi contrapposte, bensì anche nel tempo. Gli uomini, come affermava Marc Bloch, somigliano più al loro tempo che ai loro padri. Di questa stessa opinione era anche Lenin, il quale scrisse:

“Una cosa sono gli adulti che ingannano e sviano il proletariato pretendendo di guidare e di educare gli altri. Altra cosa sono invece le organizzazioni giovanili, le quali dichiarano apertamente che stanno ancora studiando e che considerano come loro compito principale la formazione di militanti per i partiti socialisti. Dobbiamo quindi aiutare questi giovani in ogni modo, essere quanto più possibile pazienti quando commettono errori, sforzandoci di correggerli gradatamente con la persuasione soprattutto, e non con la lotta. Non è raro che gli uomini di una certa età o i vecchi non sappiano trattare come sarebbe necessario questa gioventù che necessariamente è costretta a venire al socialismo per vie, in forme e in condizioni diverse da quelle dei padri. Dobbiamo quindi essere favorevoli, senza riserve, a una organizzazione indipendente dell’Unione giovanile [oggi noi diremmo Federazione giovanile] e questo non solo perché gli opportunisti ne temono l’indipendenza, ma per principio. Senza una completa indipendenza, infatti, la gioventù non potrà formare nel proprio seno buoni socialisti né potrà prepararsi a farà progredire il socialismo».*

Note

*) Rapporto tenuto a Livorno il 10 luglio 1971, nel corso di un convegno promosso dal Comitato per il 50° del P.C.I. sul tema «Le giovani generazioni nella storia del Partito».

1) Secondino Tranquilli (Ignazio Silone). dal Resoconto stenografico del XVII Congresso nazionale del Partito socialista Italiano, Roma 1921.

2) In Stato operaio del maggio 1927, citato in Trent’anni di lotta del P.C.I. Quaderno di «Rinascita». pag. 80.

3) V. I. Lenin, L’opportunismo e il crac della II Internazionale, Opere Scelte, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948, vol. I, pag. 609.

4) Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, op. cit., pag. 568.

5) Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I, pag. 139, Torino 1967.

6) P. Togliatti, in Quaderni di Rinascita -. n. 2, pag. 27.

7) Giacomo Matteotti, Discorso alita Camera dei deputati 10 marzo 1921.

8) Lenin, L’Internazionale giovanile, In Sulla gioventù e la scuola. Editori Riuniti, Roma, pag 63