Vorrei che…

di Luca Rodilosso, coordinatore FGCI Milano | da www.ridottiallosso.it

prospettivepericomunisti bannerVorrei che rimanesse un partito comunista in Italia, aperto, interlocutore, che si interfacciasse costruttivamente con le opzioni politiche tutte, che partecipasse alle alleanze locali su cose concrete, e ricostruisse lentamente il senso di una presenza a livello nazionale. Un Partito, non una corrente, non una tendenza di pensiero. Desidero un Partito Comunista che in Europa guardi alle sinistre di trasformazione sociale, che sappia ridisegnare su basi completamente nuove l’Europa, superando questi trattati europei, che sappia scovare le verità negate su quello che succede nel mondo. Che esista in quanto tale e non dentro altri nomi e dietro altre facce.

Per chi fa scelte diverse, tipo “grande sinistra” con Vendola e Barca (sempre ammesso che questa opzione avvenga, perché Barca ha detto che dal PD non se ne va), ho il rispetto politico. Ma mi sovvengono dubbi sull’intenzione reale, concreta, sulle capacità operative di un certo pezzo del gruppo dirigente del PdCI: sembra quasi di assistere ai buoi fuggiti dalla stalla, all’incendio della fattoria e alla successiva discussione su a quale altra fattoria sia meglio rivolgersi per continuare ad allevare e coltivare.


Sono quei dubbi ripetutamente manifestatisi in 10 anni di sufficienza, di mancato ascolto, di imposizioni dall’alto e mancata volontà di coordinare e armonizzare le proposte dei territori.

Io ho sempre avuto posizioni critiche su chi il PdCI lo guidava, non sul partito in sé. Il Partito è nostro, di chi ci crede; chi farà altri percorsi li faccia, ma non si porterà dietro il Partito. In passato mi hanno detto di non rispettarlo perché eccessivamente critico su certe scelte della dirigenza… ora sarebbe da valutare chi non lo sta rispettando. Il rispetto parte anche dall’ammettere di non sentirsi adeguati per un compito, dal dire che in questi anni, anche se ci abbiamo creduto tutti, c’è chi era in una posizione dove doveva ascoltare di più e imporre di meno. Ora è troppo facile dire ai compagni che ci hanno creduto “ricominciamo a ricostruire un nuovo pensiero forte rivolgendosi a uomini, donne, ragazzi e ragazze, in carne ed ossa, per una sinistra nuova”.

Sono bellissime parole, che però sono il mitico velo di Maya sulla realtà, anche su quella realtà del come è stato gestito il partito. Si dice che non si incide più nella realtà, che bisogna mescolarsi e far sopravvivere le idealità; ma così facendo, questo è il modo migliore per far perdere le tracce, per rendere impossibile valutare quello che è stato fatto e quello che non è stato fatto. Perché poi, alla fine, le persone e i loro modi di pensare e fare permangono anche nelle nuove forme organizzate, e permangono i difetti e le disfunzioni, proprio perché quelle persone che hanno rifuggito il percorso di analisi interna riproducono le stesse dinamiche relazionali, magari a livelli di funzionariato, nei nuovi soggetti politici. Sarebbe cosa ben diversa, invece, se la stessa persona ammettesse gli errori e si impegnasse nello stesso soggetto politico per riparare i problemi, riallacciare rapporti, riaffermare credibilità: sarebbe un percorso di maturazione che non coinvolgerebbe solo gli individui ma l’intera comunità organizzata chiamata Partito.

Una cosa penso di aver capito da questi convulsi mesi: la strada che sembra più facile nello sconforto diventa la verità apparente. Ed è ancora peggio, e persino il sottoscritto ha rischiato di cascarci. La ripetitività trentennale dei discorsi di cui sopra, guardata da un occhio esterno e informato, è impressionante e terribilmente similare. Dai miglioristi del Pci, passando per la retorica della “nuova sinistra” di Lotta Continua e Dp, passando poi per il PDS, per la svolta movimentista di Rifondazione, per le tentazioni governiste a priori del PdCI stesso, e infine concludendo in bellezza con Sinistra Ecologia e Libertà, che è la sintesi di tutti questi discorsi in un unico soggetto, la ripetitività concettuale della “ridefinizione” che scivola inesorabilmente nel senso dell’individuo che rifugge l’ideologia, è tremenda e incredibilmente calzante ai nostri tempi.

Qua, nei momenti peggiori dove il sistema cambia se stesso per riaffermarsi con più forza, quasi hegelianamente in maniera dialettica (dal suo punto di vista) per i suoi avversari storici – i comunisti – occorre probabilmente ingoiare il boccone più amaro di tutti: l’elaborazione del lutto. Tale elaborazione può essere affrontata in due modi: il primo è il pentimento o ravvedimento, quasi una sintomatica richiesta inconscia di “perdono” alla società, che è foriera delle situazioni prima menzionate; il secondo modo, molto più impegnativo, è la ridefinizione. A volte può essere scambiato il primo per il secondo, ma il secondo è molto più faticoso e porterà via molte più energie intellettuali e fisiche del primo. Nella nostra realtà italiana, tornare a parlare di sinistra nuova per risolvere il problema dell’irrilevanza dei comunisti non è molto originale e non richiede grandi sforzi se non pentirsi – noi – di molte nostre convinzioni. Paradossalmente, pur nella sua devianza para-reazionaria, ha molta più originalità ridefinitoria il Movimento 5 Stelle.

Quindi, finché non ci sarà una discussione vera, analitica e profonda, che guardi un pò più alla permanenza di una strategia stabile, di una visione complessiva tra idealità-prassi e comunità, usare le storiche posizioni cardinali destra-sinistra non ci sarà di aiuto alcuno. Nel frattempo teniamo e curiamo ciò che di valido c’è, ovvero il partito comunista nella sua forma organizzata.