La nozione di internazionalismo nella storia del PCI

Intervento di Fosco Giannini – segreteria nazionale PdCI al Seminario di Fermo sulla storia del PCI del 28 gennaio 2012

pci tessera 1923DA LIVORNO ALLA BOLOGNINA: ASCESA E DECLINO

Il tema che mi è stato affidato – “ da Livorno alla Bolognina: ascesa e declino della nozione di internazionalismo” – è particolarmente pregnante, denso; un tema nel quale si deposita l’intera storia del Partito Comunista italiano; un tema, di per sé, capace di evocare l’intero tragitto storico del PCI; un tema come specchio sicuro dei cambiamenti, delle mutazioni profonde – politiche e teoriche –, sino alla mutazione genetica, sino al rifiuto di sé, della propria natura antimperialista, anticapitalista, rivoluzionaria di quello che è stato il più grande partito comunista dell’Occidente e il più grande al mondo non al potere: il PCI, appunto.

Affrontare un tema di questo rilievo non è affatto facile; a pensarci, manca – su tale questione – uno studio definito, organico, un excursus storico teoricamente, ideologicamente strutturato e capace di mettere a fuoco, appunto, la parabola evolutiva ed involutiva che ha segnato, in relazione ad una categoria chiave, per ogni forza rivoluzionaria, come quella dell’internazionalismo, la storia del PCI. Anzi, il fatto che manchi uno studio organico sulla questione che oggi affronteremo è il segno stesso della drammatica, teoricamente e politicamente, incapacità, la non volontà che vi è stata, nel movimento comunista italiano che ha tentato di ricostituirsi dopo la caduta dell’URSS e dopo il nefasto processo della “Bolognina”, di studiare scientificamente la propria storia, analizzare i propri errori, al fine di rilanciare, con più consapevolezza politica e densità teorica, il proprio progetto rivoluzionario.

Ci pare razionale, al fine di avviare la nostra riflessione, tentare – seppure in modo rozzamente sintetico- di portare alla luce le antiche radici – storiche, filosofiche – della categoria di internazionalismo.

E tali radici possiamo asserire affondino nell’antichissimo concetto del cosmopolitismo, presente già presso i filosofi cinici e stoici, un concetto che fu alla base dell’avversione e il rifiuto degli ordinamenti politici statali, intesi come rigide sovrastrutture conformistiche volte alla violenta limitazione della libertà individuale. Un concetto, quello del cosmopolitismo, che assume tuttavia l’attuale significato e il moderno afflato universalistico segnato da una pulsione culturale ed esistenziale sovranazionale, solo a partire dall’illuminismo, quando i filosofi, in nome di una Ragione comune e uguale per tutti, iniziarono a sostenere, con Voltaire, che “ le philosophe n’est ni francais, ni anglais, ni fiorentin; il est de tout pays” e da ciò trassero l’impegno di costruire un nuovo ordine universale in grado di affratellare tutti gli uomini in un sistema comunitario illuminato dalla Ragione. E sarà, poi, soprattutto Kant a far divenire il cosmopolitismo il luogo dell’incontro tra gli ideali politici e quelli filosofici dell’illuminismo europeo. Nel suo celebre saggio “ Per la pace perpetua”, del 1795, Kant propone l’idea di una Lega dei popoli che dia origine ad un ordinamento giuridico globale, universale, internazionale. E se poi la degenerazione del romanticismo, nel corso dell’Ottocento, tenderà a connotarsi di caratteri nazionalisti e a divulgare una concezione nazionalista pericolosa e gravida di tragedie storiche imminenti, sarà il movimento socialista, apparso da poco nella storia, che lotterà contro il nazionalismo del romanticismo e supererà di slancio il cosmopolitismo illuminista e borghese ( che concepiva l’universalismo soprattutto come moto nobile dello spirito) attraverso la concezione dell’internazionalismo proletario, che risponde all’internazionalizzazione del capitale, al suo violento e universalistico progetto di spoliazione e sottomissione dei popoli, all’espansione su scala globale della legge del valore, attraverso la concezione di un proletariato mondiale reso “popolo del mondo”, classe internazionale, dalla stessa estensione planetaria dello sfruttamento oggettivo dell’uomo sull’uomo, dell’estrazione scientifica del plus valore sulla forza lavoro mondiale.

E le ultime parole de Il Manifesto del Partito Comunista, di Marx ed Engels, del 1848, sintetizzano solennemente questa svolta storica e filosofica, questo superamento del cosmopolitismo borghese. E le parole sono quelle, famose, che dicono : “ Proletari di tutto il mondo unitevi!”.

Poiché la storia, tuttavia, non segue un arco positivista, sappiamo che sarebbe stato lo stesso movimento socialista, i partiti socialisti della Seconda Internazionale a tradire la concezione e la pratica dell’Internazionalismo proletario, ad ammainarne la bandiera, prima e durante la prima guerra mondiale, quella del 1915-1918, tradendo l’internazionalismo attraverso il sostegno alla guerra imperialista e attraverso il voto favorevole, nei parlamenti europei, ai crediti di guerra. Tradimento tanto profondo, da parte dell’Internazionale socialista, da spingere i comunisti a dotarsi di una loro organizzazione sovranazionale, la Terza Internazionale, l’ Internazionale comunista – appunto – , fondata a Mosca nel marzo del 1919 e conosciuta col nome di Komintern, dalle parole tedesche ( poiché il tedesco era la lingua ufficiale della Terza Internazionale) Kommunistische Internationale.
 

Ed è necessario ricordare, rispetto al tema da svolgere, che i partiti comunisti del XX secolo prendono forma e si costituiscono proprio su una base rigorosamente internazionalista, sia scindendosi dall’opportunismo dei partiti socialisti che avevano sostenuto la prima guerra mondiale, che attraverso l’adesione ai 21 punti stabiliti al Secondo Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca nel luglio – agosto del 1920.

A dimostrazione di come l’internazionalismo fosse uno dei cardini centrali del movimento comunista, dei suoi partiti, si possono rileggere tre dei 21 punti dettati da Lenin al Secondo Congresso del Komintern:

Punto 6: Ogni partito che desideri entrare nell’Internazionale comunista deve abbandonare non solo ogni dichiarato social-patriottismo, ma anche l’insincerità e l’ipocrisia del social-pacificismo, per convincere sistematicamente i lavoratori che senza il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo nessuna corte d’arbitraggio internazionale, nessun accordo inteso a limitare gli armamenti, nessuna riorganizzazione democratica della Società delle Nazioni, sarà in grado ai prevenire altre guerre capitaliste.

Punto 8: Un atteggiamento particolarmente esplicito e chiaro sulla questione delle colonie e dei popoli oppressi s’impone a quei partiti nelle cui nazioni la borghesia possiede delle colonie ed opprime altre nazioni.

Ogni partito che desideri far parte dell’Internazionale comunista è tenuto a denunciare i trucchi e gli artifici dei “suoi” imperialisti nelle colonie, nell’intento di aiutare ogni movimento di liberazione coloniale non solo a parole ma coi fatti, ad esigere l’espulsione dei suoi imperialisti da queste colonie, ad inculcare nei lavoratori del loro Paese un atteggiamento sinceramente fraterno verso i lavoratori delle colonie e delle nazioni oppresse e a condurre agitazioni sistematiche tra le truppe del loro Paese contro ogni oppressione dei popoli delle colonie.

Punto 14: Ogni partito che desideri entrare nell’Internazionale comunista deve dare appoggio incondizionato alla repubblica sovietica nella sua lotta contro le forze controrivoluzionarie. I partiti comunisti debbono svolgere una propaganda decisa per prevenire ogni invio di armi ai nemici delle repubbliche sovietiche; essi debbono altresì svolgere con ogni mezzo legale o illegale, propaganda tra le truppe mandate a strangolare le repubbliche dei lavoratori.

Il comunismo, dunque, è internazionalismo e nelle stesse Tesi di Lione ( le Tesi del Terzo Congresso del Partito Comunista d’Italia di Antonio Gramsci) tale consapevolezza è così profonda che l’ancora non totale coscienza internazionalista dei militanti del PCd’I genera una certa inquietudine nelle Tesi stesse. Recita infatti la numero 28 delle Tesi di Lione : “ Elemento dell’ideologia del Partito è il grado di spirito internazionalista penetrato nelle sue file. Esso è assai forte tra di noi come spirito di solidarietà internazionale, ma non altrettanto come coscienza di appartenere ad un unico partito mondiale…”.

Lo stesso nome del PCd’I ( che in verità si chiama PCd’I – Sezione della Terza Internazionale), indica in modo netto l’inclinazione totalmente internazionalista del Partito di Gramsci, Togliatti, Terracini. Un nome che cambierà definitivamente in PCI, solo nel 15 maggio del 1943, in seguito allo scioglimento della Terza Internazionale e mentre il gruppo dirigente comunista italiano operava ancora clandestinamente tra Mosca e Parigi. Il cambiamento del nome – che avviene anche nella fase di lotta finale contro il regime fascista italiano – e l’assunzione dell’acronimo PCI indica naturalmente un più accentuato ruolo nazionale del Partito. Ruolo che non contraddice comunque, e per decenni, lo spirito e l’azione internazionalista del PCI. Ruolo nazionale che, tuttavia, prevale, degenera, sino ad appannare e poi svuotare l’azione internazionalista, sino a concorrere a mutare in profondità la natura stessa del PCI in senso moderato, socialdemocratico, quando la politica di “solidarietà nazionale” della seconda metà degli anni ’70 inizia a vincolare di fatto il PCI alle compatibilità capitalistiche, agli interessi della borghesia italiana.

Peraltro sono gli anni, questi, del più grande successo elettorale del PCI, che nel 1976 tocca il suo massimo storico (34,4%), dopo che, l’anno prima, aveva conquistato le principali città italiane. Il PCI che diviene anche il primo partito italiano alle elezioni europee del 1984, quando ottiene il 33,33% dei consensi contro il 32,97% della DC.

E ricordiamo questi dati, questa coincidenza tra massimo consenso elettorale e inizio della caduta della tensione internazionalista e, tout court, comunista, per notare e far notare come il consenso elettorale – benché decisivo, importante, in nessun modo, se non in quello massimalista, sottovalutabile – non sia però l’unico metro di misura per una forza comunista che opera all’interno di un paese capitalista e imperialista.

La degenerazione che è insita nella politica di “ solidarietà nazionale”, che accelera processi già in corso, così come è stata praticata dal PCI nella seconda metà degli anni ’70, non stabilisce, tuttavia, una legge secondo la quale il ruolo nazionale di un Partito comunista è destinato a sfociare in moderazione socialdemocratica. E’ il PCI di quegli anni, in virtù di quell’acceleratore politico dato dalla degenerazione del compromesso storico ( che si trasforma rispetto al suo progetto originario) che si apre, si offre, a quel lungo, contraddittorio processo di mutazione ( genetica, la chiamarono), di socialdemocratizzazione che andava già incubando dentro le proprie strutture per una molteplicità di ragioni, tra le quali ( certo non l’unica, ma che ricordiamo perché è tra le più rimosse) l’emarginazione, nei primi anni ’50, di quell’ala leninista – del suo afflato politico e teorico – che aveva segnato di sé tanta parte del Partito, che faceva capo a Pietro Secchia e ai quadri leninisti del dopoguerra, come Giuseppe Alberganti, Alessandro Vaia e tanti altri del “vento del nord” e che fu sacrificata sull’altare di un nuovo processo, politico, culturale, organizzativo ( quello del “ partito nuovo”) che, seppur seppe svolgere un grande ruolo nella costruzione del partito di massa, che seppur seppe collocare il partito nuovo tra le pieghe della nuova realtà sociale, politica e culturale italiana, eppure dovette pagare prezzi che si sarebbero rivelati non secondari sul piano dell’essenza rivoluzionaria, leninista, antimperialista del PCI.

Uno per tutto, di questi prezzi, quello – certo non da poco – della struttura organizzativa: sino a quando è Pietro Secchia, infatti, ad essere responsabile dell’organizzazione, il PCI è una forza – sul piano organizzativo e non solo – prettamente leninista, gramsciana. Essa è strutturata sia in sezioni territoriali ( che pulsano in ogni città, in ogni paese, sotto ogni “campanile”) ma anche in cellule di lavoro – quelle che secondo Lenin e Gramsci potevano radicare il Partito comunista direttamente nei luoghi alti del conflitto capitale-lavoro, che determinavano una delle essenziali differenze tra partiti comunisti e socialisti riformisti – cellule di lavoro che giungono, con Secchia, al numero di 53 mila, un partito nel partito, un partito operaio, rivoluzionario, dentro il partito. Mentre, con la sostituzione brutale di Secchia con Amendola, il PCI si avvia a smantellare – negli anni – la propria, robustissima organizzazione in cellule di lavoro, tornando – all’inizio degli anni ’70, ad un’organizzazione incentrata solo sulle sezioni territoriali, rinunciando di fatto a quel segmento organizzativo – il radicamento diretto nelle fabbriche, negli uffici, nelle università, nei posti di lavoro e di studio – che, per Lenin e Gramsci, faceva la differenza tra un partito comunista ed uno socialdemocratico.

Ma torniamo all’accentuato ruolo nazionale che il PCI decide di svolgere dopo il 1943, dopo la fine dell’esperienza del Komintern e la caduta del fascismo in Italia. Torniamo al rapporto tra comunisti e questione nazionale. E, sulla scorta dell’elaborazione più alta del pensiero comunista su questo punto (Lenin, Stalin, Dimitrov, Gramsci, Togliatti), affermiamo: l’internazionalismo, nella visione materialistica della storia che hanno in dote culturale i comunisti e affinché non retroceda su posizioni cosmopolitiche, non significa affatto annullamento delle specificità nazionali. Anzi, esso può essere effettivamente tale solo se le rispettive sezioni dell’Internazionale sono radicate nei contesti sociali e politici del loro Paese. Una celebre nota di Gramsci dei Quaderni dal carcere, a proposito delle diverse concezioni sull’internazionalismo formulate da Stalin e da Trockij è illuminante. Scrive Gramsci: “La filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore ( Marx, n.dr.) ma specialmente nella precisazione del suo più recente, grande teorico ( Lenin.n.d.r) ci dice come la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici ( Trockij, n.d.r.) e Bessarione (Stalin, n.d.r.) come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D’altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l’iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro”. (pp. 1728-29 dei Quaderni. Edizione critica curata da V.Gerratana. Einaudi, 1975).

Ed è in quest’ottica non idealistica e non cosmopolita che l’internazionalismo entra profondamente nella cultura del PCI, segnandone nettamente anche la prassi. Ed è nella Guerra di Spagna ( 1936-1937) che l’internazionalismo dei comunisti italiani si manifesta in modo corposo: sono oltre 3 mila i militanti e i quadri dirigenti del PCI che partecipano alla lotta rivoluzionaria contro le truppe di Francisco Franco, a fianco della Repubblica e nelle file della Brigate Internazionale. Tra i dirigenti comunisti italiani gli stessi Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Alessandro Vaia.
Negli anni trenta la Terza Internazionale gioca un ruolo essenziale nella costituzione e nello sviluppo della politica dei Partiti comunisti. In essa si elabora la politica del Fronte Unico ( elaborazione politica che oggi, sotto i colpi della reazione, sotto il dominio iperliberista che va estendendosi in tutta l’area dell’Unione europea, di fronte all’espandersi inquietante delle varie destre fasciste in tutta Europa, dovrebbe essere – certo non acriticamente- riassunta nel suo spessore politico e teorico dal movimento comunista e dall’intera sinistra europea) una concezione, quella del Fronte Unico che, tenendo ben chiara la prospettiva rivoluzionaria, rifugge da settarismi e dogmatismi, da chiusure e arroccamenti. I comunisti fanno politica unitaria. Preso atto della sconfitta delle rivoluzioni in Occidente e superata la fase del “social fascismo” ( una definizione della sinistra riformista europea degli anni ’20 che aveva segni dogmatici ma anche ragioni, nella misura in cui prendeva materialmente atto del ruolo subordinato al capitale e anche antioperaio della socialdemocrazia dell’epoca), il VII congresso dell’Internazionale comunista vara la politica dei fronti popolari, che si svilupperà ulteriormente in quella dei fronti antifascisti. E anche la “svolta di Salerno”, esposta da Togliatti nel 1944, va inquadrata in una visione internazionalista: la guerra antifascista non è solo un problema nazionale, ma mondiale, il fronte antifascista non passa solo nei singoli paesi ma in tutto il mondo. I comunisti italiani – e il movimento partigiano – si sentono parte di una lotta mondiale. Ed è innegabile che Stalingrado e Stalin vengano sentiti come il cuore della resistenza antifascista.

Tre erano le parole d’ordine essenziali con le quali Togliatti, sviluppando nella fase storica data l’analisi gramsciana sul rapporto tra internazionalismo e ruolo nazionale dei partiti comunisti, sintetizza il suo discorso di fronte ai quadri comunisti napoletani, l’11 aprile del 1944: “ Tutto per la guerra contro la Germania hitleriana; tutto per la distruzione del fascismo; unità della classe operaia, dell’antifascismo e della nazione per riconquistare la libertà e l’indipendenza d’Italia, per creare, finita la guerra, quell’ Italia democratica e progressiva che è il sogno di tutti noi; un governo democratico che faccia la guerra e soccorra i bisogni del popolo”.

Nel discorso del ’44 a Napoli, Togliatti sintetizza al meglio l’afflato internazionalista dei comunisti e i loro compiti nelle lotte nazionali: “ Prima di cominciare la mia esposizione – dice Togliatti – permettetemi di ricordarvi che oggi abbiamo avuto la notizia di una grande vittoria! Odessa è stata liberata! La grande città del Mar Nero, la città delle indimenticabili tradizioni rivoluzionarie è libera finalmente dal giogo tedesco, grazie ad una nuova, impetuosa avanzata di quell’eroico Esercito rosso che insegna a tutto il mondo come si deve condurre la guerra per la patria e per la libertà”. E più avanti : “ La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo nostra…Quando noi difendiamo gli interessi della nazione, quando ci mettiamo alla testa del combattimento per la liberazione dell’ Italia dall’invasione tedesca, noi siamo nella linea delle vere e grandi tradizioni proletarie. Siamo nella linea della dottrina e delle tradizioni di Marx e di Engels, i quali mai rinnegarono gli interessi della loro nazione, sempre li difesero, tanto contro l’aggressore e l’invasore straniero, quanto contro i gruppi reazionari che li calpestavano. Siamo nella linea di Lenin…che ha dato ai popoli della Russia un’elevata coscienza nazionale…”.

Gli assetti postbellici e il rapido rovesciamento dell’alleanza antinazista in scontro tra blocchi ( la Guerra Fredda) imposto dagli anglo-americani determinano, dopo la fase antifascista, un quadro storico nuovo, in cui si muovono i partiti comunisti in un Occidente (nozione, questa di Occidente, che acquista in questa fase tutto un nuovo e specifico peso economico e politico). Il PCI, dopo essere stato violentemente cacciato dal governo post-bellico dagli USA e dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi, nella fase del Piano Marshall, sviluppa, in Italia, una straordinaria linea di massa, estendendo e sostenendo, da una parte, il conflitto sociale degli operai, dei contadini, nel nord e nel sud d’Italia, nelle metropoli e nei paesi dell’interno, continuando a porsi, d ’altra, quale cardine nazionale della democrazia e dell’antifascismo. Continuando nel contempo la sua azione internazionalista, manifestando, sostenendo e intrecciando sempre più tutti i suoi legami con la patria del socialismo e in difesa del campo socialista che da Oriente ( con la vittoria della rivoluzione cinese del 1949) all’Europa centrale e balcanica si andava formando, sviluppando, allargando.
 

A differenza dal periodo dell’Internazionale comunista (fino al 1943), il quadro internazionale vede la presenza di un vasto territorio mondiale fortemente influenzato dal movimento comunista e da numerosi Stati guidati da partiti comunisti. Ciò comporta, in virtù di una paura crescente, da parte degli USA e dell’Occidente capitalistico, della grande crescita di forza e prestigio internazionale dell’Unione Sovietica, del suo sviluppo sociale, che l’attacco imperialista al movimento comunista mondiale miri anche a rompere l’unità del mondo comunista, facendo leva su nazionalismi e interessi statuali. La scissione di Tito del 1948 dal campo socialista costituisce il primo grande problema del movimento comunista internazionale del secondo dopoguerra. La questione è complessa, ma non si può negare che alla base di essa vi fossero interessi statuali e regionali (l’area balcanica), con una contrapposizione (che non fu solo ideologico – politica, ma territoriale: il Kosovo) tra Jugoslavia e Albania e il progetto di federazione balcanica, accarezzato da Tito e malvisto da Stalin, che vi leggeva una tendenza nazionalista.
Il PCI si schiera allora col campo socialista e contro Tito.

La guerra fredda di fatto finirà solo nel 1991, con la sconfitta-disfatta dell’URSS e del campo socialista, ma in essa si possono distinguere fasi diverse a seconda del modo in cui si definiscono i rapporti tra i due campi. Negli anni ‘50 lo scontro è molto acuto, e la guerra di Corea mostra che la guerra tra i due blocchi non è solo fredda.

La morte di Stalin, la successiva ascesa di Chrusciov e il XX Congresso del PCUS (con il dossier “scientificamente” pubblicato in USA sui cosiddetti “crimini di Stalin” e sulla scorta di una regia nordamericana anticomunista che iniziava a dare vigorosamente corpo all’attacco contro il nemico principale dell’ imperialismo e delle sue pulsioni di guerra, l’URSS, e che trovava adepti anche in certa sinistra europea) producono un mutamento nel campo socialista. La cui tenuta incontra difficoltà e problemi, sia nelle modalità di “costruzione del socialismo” (assumere quanto accaduto in URSS come modello unico della transizione al socialismo? Pensare, riflettere su vie diverse al socialismo?), che nella valutazione delle specificità nazionali, il rapporto con la cultura nazionale, la religione, la piccola proprietà contadina, ecc.

Le forze anticomuniste – interne ed esterne ai paesi del blocco socialista (che diviene alleanza militare ben sei anni dopo la nascita della NATO) – fanno leva su di un nazionalismo anti-russo (specie in Polonia e Ungheria) sostenuto dalla Chiesa cattolica e dal Vaticano. Oltreché dalle forze imperialiste.

Vi è, dunque, la difficile crisi del 1956 (Polonia, ma soprattutto Ungheria, dove intervengono le truppe sovietiche). Togliatti valuta che in Ungheria è in corso una controrivoluzione e il Pci (col dissenso di Di Vittorio) si schiera con l’URSS. Da notare il coraggio col quale Togliatti, per coerenza internazionalista e difesa del campo socialista, si schiera anche contro Di Vittorio, che aveva in mano la più grande organizzazione sindacale di classe d’Europa: la CGIL. Da notare anche, rispetto al rapporto gerarchico che in quegli anni vi è tra la Cgil e il PCI, sia il coraggio che il senso della disciplina che segna un uomo come Di Vittorio, contrario all’intervento sovietico in Ungheria ma fedele al proprio Partito: il PCI. Ricordando il comportamento di Pietro Ingrao, direttore, in quella fase, de “L’Unità”, tanto lacerato dai dubbi circa la posizione da assumere sull’intervento sovietico a Budapest da rivolgersi a Togliatti, chiedendo al segretario il da farsi. Ricordando, infine, la risposta di Togliatti a Ingrao: “ Sei tu il direttore de “l’Unità”. E tu devi assumerti la responsabilità della scelta”. E la scelta che Ingrao assunse fu quella – chissà quanto sofferta- di adeguarsi alla linea del Partito, intitolando il proprio editoriale “ Da una parte della barricata”. La barricata scelta da Ingrao era quella sovietica, era il campo socialista. Il nemico era l’imperialismo nord americano. E chissà quanto tale scelta – alla luce delle sue riflessioni future – costò a Pietro Ingrao…

Alcuni intellettuali, dopo l’Ungheria, lasciano il PCI, aderendo al PSI, partito che si avvia a rompere il patto di unità col Pci e che alcuni anni dopo varerà l’alleanza del centro-sinistra, lasciando il Pci all’opposizione e assumendo anch’esso – pur con una posizione diversa espressa, al suo interno, da Lombardi e De Martino – la concezione e la prassi filoamericana della conventio ad excludendum.
 

Ma i problemi nel campo socialista non sono affatto finiti dopo la fine della rivolta ungherese. Si prepara uno scisma ben più profondo tra due giganti, Cina popolare e URSS.

Lo scontro è al contempo tra i due partiti comunisti – sulla concezione del socialismo, sulla storia comunista, sul ruolo di Stalin, sulla politica di coesistenza pacifica – e tra stati (ritiro dei tecnici sovietici dalla Cina, contrasti sul dotare la Cina dell’atomica). Lo scontro è anche il riflesso di una dura contrapposizione che si apre all’interno del Partito Comunista Cinese.

La posizione del PCI rispetto a tale scontro è duplice: da un lato vi è una critica forte alle posizioni cinesi, considerate estremiste e di rottura (alle quali critiche il PCC risponde attaccando la strategia della via italiana al socialismo. Critiche cinesi che vengono sistematizzate in vari documenti e articoli, di cui il più noto è : “Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, 1963). Una critica ai comunisti cinesi attraverso la quale, Togliatti, non solo rilancia “ la via italiana al socialismo”, ma propone anche la formula dell’ “unità nella diversità”, per governare i rapporti interni a un movimento comunista e antimperialista ormai troppo cresciuto per avere una guida unica.

D’altra parte, il PCI di Togliatti prova a ricucire i rapporti tra i due grandi paesi e i due partiti comunisti. Il “Memoriale di Jalta” indica anche la possibilità dello sviluppo di vie nazionali all’interno di un coordinamento internazionale. E tale riflessione di Togliatti acquisisce un carattere non contingente, ma profondo, strategico, dai caratteri persino teorici, evocando il passaggio, per il movimento comunista mondiale, dalla concezione e l’esigenza del “ faro” internazionale ( in quella fase l’URSS) ad una fase di solidarietà internazionalista più matura, che, all’interno di una concezione dell’unità del campo socialista, potesse prevedere anche una discussione libera e franca tra partiti comunisti e la diversità delle strategie nazionali, la diversità delle vie nazionali alla transizione al socialismo.
 

Siamo negli anni della vittoriosa rivoluzione cubana, dell’avanzata della decolonizzazione e del movimento antimperialista, della resistenza in Indocina, che viene attaccata dagli USA dopo essersi liberata del colonialismo francese. La lotta di liberazione vietnamita, la straordinaria resistenza di un popolo alle bombe al napalm sganciate dagli USA, indicano con chiarezza qual è il nemico principale: l’imperialismo nord americano. E attorno al Vietnam si può ricostituire una unità del movimento comunista e antimperialista. Il PCI negli anni 60 è schierato nettamente contro la NATO, gli USA, con il movimento anticoloniale, con Cuba, col Vietnam. Non approva invece la rivoluzione culturale in Cina e vede tutti i pericoli di uno scontro tra i due grandi paesi ( che nel 1969 diviene, sul fiume Ussuri, scontro militare…).

Va certo rimarcato, di questa fase, il “nuovo internazionalismo” degli anni di Longo, che si sviluppa sulla base della riflessione di Togliatti. Gli interlocutori – e i protagonisti dello schieramento progressivo mondiale – per il PCI ora sono tre: paesi socialisti, movimenti di liberazione e paesi di nuova indipendenza ( tra cui i non allineati), movimento operaio europeo (occidentale). Non a caso, in questi anni il PCI è molto attivo sul piano internazionale e sviluppa una sorta di sua “politica estera”, dialogando coi paesi socialisti e i partiti comunisti, ma anche con le forze antimperialiste e i movimenti di liberazione, coi partiti comunisti ma anche con altri settori della sinistra europea, tra cui la stessa SPD, anche se ancora in modo riservato.

Nel 1968 vi è la cosiddetta ‘Primavera di Praga’; vi è la rimozione, quale segretario generale del Partito Comunista cecoslovacco, di Antonin Novotny e l’elezione, al suo posto, di Alexander Dubcek. Vi è l’intervento, in Cecoslovacchia, del patto di Varsavia. Un intervento che il PCI di Luigi Longo ( unico tra i grandi partiti comunisti) valuta come ‘tragico errore’, ritenendo che le riforme proposte in Cecoslovacchia non fossero contro il socialismo, ma volte ad una sua democratizzazione. Ma anche il caso cecoslovacco presenta, tuttora, ombre, controversie, contraddizioni e ciò che si sa – e ciò che ancora non si sa – deve consigliarci a considerare problematica la questione cecoslovacca, il problema della “primavera di Praga”. Problematica rispetto alla non facile comprensione del carattere strategico di quella “ Primavera”. L’obiettivo era il rilancio, il rafforzamento del socialismo e del campo socialista? In quella strategia sedimentavano altri scenari, si nascondevano altre prospettive? Il nuovo corso di Dubcek si legava allo spirito positivo dei moti che nel ’68 attraversavano l’intero occidente o celava in sé il pericolo di una fuoriuscita dal sistema socialista ? Era un’occasione di rilancio della stessa immagine del socialismo e dell’immagine sovietica nel mondo o un pericolo per il campo socialista? La questione storica rimane aperta, ad esempio, alla luce dello spirito e della lettera del famosissimo “Manifesto delle duemila parole”, lanciato dallo scrittore Ludvik Vaculik, sottoscritto da decine di intellettuali praghesi e pubblicato da tutti i giornali cecoslovacchi il 27 giugno del 1968 e subito dopo dall’intera stampa occidentale. Il manifesto chiedeva a Dubcek di continuare la strada delle riforme e di non cedere alle pressioni di Mosca, chiedeva di sostenere il nuovo corso anche con l’arma dello sciopero, invitando il Partito a far fuori tutti i quadri vicini al’ex segretario Novotny. Il tono del manifesto era duro ed evocava qualcosa che andava ben al di là della democratizzazione del socialismo, tant’è che “l’Unità” e “Rinascita” non lo pubblicheranno e, anzi, lo criticheranno. Tre settimane dopo la sua uscita pubblica, “Rinascita” interloquisce col manifesto attraverso un articolo non firmato e dal titolo “ Il punto attuale del dibattito in Cecoslovacchia. Mille parole in risposta alle duemila” ( 19 luglio 1968). Nell’articolo si afferma: “ Il manifesto non costituisce tanto un tentativo di analisi politica originale o di manifesto programmatico, quanto piuttosto un intervento diretto nelle questioni di partito e di governo più urgenti…Il limite del documento, che è stato oggetto di aspre critiche, risiede anzitutto nella sommarietà dell’analisi storica che sta alle sue spalle…sembra mettere in secondo piano o addirittura ignorare il valore della scelta storica per il socialismo fatta vent’anni fa dalla Cecoslovacchia: scelta storica che, nonostante la gravità degli errori compiuti nella gestione del potere, deve essere alla base anche dell’attuale, coraggioso processo di rinnovamento…

I sottoscrittori insistono invece per una rottura irreversibile con il passato…In altre parole, i firmatari appaiono rivolti piuttosto alla liquidazione del passato che alla elaborazione, a fianco e insieme coi nuovi dirigenti comunisti, di nuovi progetti per il futuro, ossia della costruzione di una vera democrazia socialista”.

Ma, “da sinistra”, da un versante indubitabilmente comunista e non antisovietico, la “ primavera di Praga” è sostenuta dal grande filosofo cecoslovacco, marxista, Karel Kosik, che per tale sostegno verrà poi privato della cattedra universitaria. Scrive, dunque, Kosik su “Rinascita” (che, significativamente, non pubblica il manifesto di Vakulic ma divulga Kosik) il 28 giugno 1968: “ La Cecoslovacchia non sta vivendo una crisi del socialismo come strumento di potere, di un sistema di relazioni politiche e di modelli economici artificiali. Niente di tutto ciò. L’inquietudine cecoslovacca è crisi della convivenza umana in generale, crisi della missione della politica e del potere nel mondo moderno. La crisi cecoslovacca, quindi, deve essere compresa correttamente: nella crisi di un paese e di una società si mostra e disvela in certo modo la crisi dell’uomo moderno e la crisi di quei fondamenti su cui poggia la moderna società europea. In questo senso gli avvenimenti di Praga possono riguardare tanto gli uomini di Belgrado, quanto quelli di Zurigo o Francoforte o Parigi».

La questione cecoslovacca rimane aperta anche alla luce della lunghissima intervista ( 50 cartelle) che Renzo Foa inoltra a Dubcek, che “ L’Unità” pubblica il 10 gennaio del 1989 e nella quale Dubcek esprime giudizi estremamente positivi su Gorbaciov; innanzitutto ( e logicamente) sul Gorbaciov che a Bratislava, nel 1988, condanna duramente l’intervento sovietico a Praga, ma anche sul Gorbaciov – è il 1989 – che è quasi all’apice della propria fase involutiva, nella fase più ambigua della perestrojka ( della quale Dubcek, in questa intervista a Foa evidenzia le affinità col proprio corso, il cosiddetto “socialismo dal volto umano”), in quella fase in cui si abbandona di fatto il rilancio del socialismo e che avrebbe portato al disastro e alla fine dell’URSS. E la questione della “ Primavera di Praga” – con tutta la sua contraddittoria vicenda segnata dalla giusta ricerca della democrazia socialista e, nel contempo, dal pericolo di fuoriuscita dall’esperienza socialista – non può considerarsi chiusa anche alla luce della debole e contraddittoria lettera che Dubcek rende pubblica il 21 novembre del 1985 su “L’Unità” ( Natta segretario del PCI), lettera con la quale risponde all’accusa di controrivoluzione che gli erano state lanciate già nell’agosto del 1968 dal dirigente del Partito comunista cecoslovacco Vasil Bilak (la cui demonizzazione, in Occidente è inferiore solo a quella di Dracula; tanto demonizzato, comunque, Bilak, quanto beatificato è stato, tanto per fare un esempio, Vaclav Havel, di cui tutto si può dire meno che avesse a cuore gli interessi della classe operaia e del popolo ceco) e altri quattro alti dirigenti comunisti cecoslovacchi. Debole, la risposta di Dubcek su “L’Unità” a Bilak poiché su di un punto non riesce a convincere: se il socialismo dal volto umano poteva rivelarsi troppo umano, a Praga, anche per i capitalisti di ritorno. Anche per le forze della NATO.

Poiché la storia la si vede nel lungo periodo, dobbiamo aggiungere oggi, rispetto alla questioni che si ponevano negli anni ’60 e si sono poste più avanti, l’analisi relativa al quadro sociale iperliberista, antisociale, antioperaio, autoritario e dai caratteri fascisti che si è determinato nei paesi dell’ est europeo ( pensiamo, oggi, alla Polonia, all’Ungheria, alla stessa, durissima repressione anticomunista – la “Lustrace” – portata avanti nella repubblica ceco-morava) dopo la caduta delle strutture socialiste, il passaggio di quei paesi nel campo imperialista e la loro, attuale, subordinazione all’ Unione europea, agli USA e alla NATO. Le due questioni di fondo che, comunque, segnano l’esperienza della primavera praghese ( era un grande occasione per rilanciare – proprio durante i moti del ’68 – l’immagine del socialismo e dell’URSS in Europa e nel mondo, oppure era un pericolo serio di disgregazione del socialismo cecoslovacco e dello stesso blocco socialista?) rimangono ancora in vita, ognuna con le proprie verità.

Dopo Praga anche il giudizio del PCI sull’URSS si fa severo: non si mette in discussione la struttura economico-sociale sovietica (il Pci aveva salutato con favore le riforme economiche del 1965), ma la scarsa democrazia interna. Il sistema ha bisogno – per il PCI- di una democratizzazione profonda. La rimozione di Chrusciov, nonostante i suoi plateali errori (crisi di Berlino 1961 e soprattutto crisi dei missili a Cuba) non era stata vista favorevolmente. Ora, con Praga 1968, si aprono ferite profonde. Ma sulle questioni di schieramento di campo non vi sono dubbi: il PCI è a fianco del Vietnam e dei popoli in lotta. Siamo nel periodo di massima espansione del movimento operaio e popolare italiano del secondo dopoguerra: il decennio 1968-77. Il Pci raccoglie, anche sul piano elettorale, i frutti delle lotte studentesche e operaie, rilancia la politica delle riforme, governa insieme con il PSI diverse regioni centrali.

Il 1973, l’11 settembre, vi è il colpo di stato in Cile, che segna una svolta profonda nella riflessione politica: Berlinguer ritiene che le forze di sinistra da sole non abbiano la possibilità, quand’anche raggiungessero il fatidico 51%, di governare: lo impedirebbero fattori internazionali (gli USA e la CIA erano potentemente all’opera e nel 1969 vi era stata la strage di Piazza Fontana).

Nasce da questa riflessione di Berlinguer la proposta di compromesso storico, di alleanza strategica con la DC per una politica di riforme nel Paese.

Seppure la proposta avanzata dal PCI di compromesso storico non porti fuori, di per sé e in prima istanza, il PCI dalla cultura comunista e cioè da una concezione di difesa e costruzione della democrazia che era già stata concepita e praticata da Togliatti attraverso la svolta di Salerno, tuttavia il prezzo che il PCI deve pagare nella degenerazione del compromesso storico – e cioè nella pratica subordinata della politica dell’unità nazionale – è altissimo, anche – e soprattutto – rispetto alla politica internazionale del PCI.

Sarà lo stesso Aldo Moro a presentare preventivamente il conto a Berlinguer, chiarendogli che per trasformare il progetto teorico di compromesso storico in pratica e azione politica, il PCI avrebbe dovuto, “quantomeno”, lavorare su tre punti fondamentali, cambiando, su questi tre punti, la linea politica. E i tre punti che metteva a fuoco Aldo Moro erano: la NATO e cioè un’accettazione della NATO da parte del PCI; l’Unione Sovietica e cioè la rottura del PCI con l’Unione Sovietica; la Socialdemocrazia europea e mondiale e cioè la rottura del PCI col movimento comunista europeo e mondiale e la sua interazione con le forze socialdemocratiche.

Dobbiamo notare, sul piano storico, come quelle tre richieste di Aldo Moro al PCI, sebbene il compromesso storico non si sia mai compiutamente realizzato sul piano politico ( anche se la politica di unità nazionale, senza il PCI al governo nazionale, abbia comunque preso forma), dobbiamo notare come quelle tre richieste, in verità e col tempo, siano state tutte e pienamente accolte, o meglio assunte di fatto, dal PCI.
 

Il processo involutivo che attraversa il PCI, la sua caduta di tensione internazionalista, l’affievolirsi della sua tensione antimperialista e il forte appannamento del suo progetto anticapitalista e rivoluzionario si assommano alla a crisi dei paesi del ‘socialismo reale’ (dopo Praga ‘68 è la volta degli scioperi ai cantieri navali di Danzica nel 1970, con la nascita, lautamente foraggiata dal Vaticano, di Solidarnosc). E ciò avviene mentre si acuisce lo scontro tra Cina e Unione Sovietica, considerata dal Partito Comunista Cinese una potenza imperialista più pericolosa degli USA (è la fase della strategia del ping pong, del viaggio di Nixon in Cina).

In questo quadro in mutazione il segretario del PCI Enrico Berlinguer, invece di rilanciare, come una parte del PCI chiedeva, un nuovo progetto comunista, all’altezza dei tempi e dello scontro di classe, inizia a cercare altri punti di riferimento ( come in tantissimi chiedevano, dall’interno e dall’esterno del PCI); inizia a guardare, cioè, assieme a tanta parte del gruppo dirigente del PCI, alle democrazie dell’ Europa centrale e settentrionale, che (Olof Palme, Willy Brandt, Mitterand ecc.) perseguono una politica di fuoriuscita dalla guerra fredda e collaborazione tra i due blocchi, aspirando a dare all’Europa un ruolo autonomo nella dinamica mondiale, “spezzando” il bipolarismo.

La conferenza di Helsinki del 1975, col riconoscimento delle frontiere emerse dopo la seconda guerra mondiale (e quindi anche della DDR) segna indubbiamente una svolta, anche se essa apre alla campagna per ‘i diritti umani’ e al sostegno al dissenso ( quasi sempre di natura pregiudizialmente anticomunista) in URSS. Alla fine degli anni 70, però, il quadro torna ad essere molto oscuro: gli USA, in contrasto con la politica europea che potrebbe volgersi verso lo smantellamento dei blocchi, rilanciano una formidabile campagna antisovietica,
con la collocazione di nuovi missili in Europa e lo scudo stellare.

Il 24 dicembre del 1979 vi è l’intervento sovietico in Afganistan, che il PCI condanna immediatamente, con Amendola che invece si esprime a favore dell’intervento. E’, questa, sul piano politico e teorico, una fase importante della storia, finale, del PCI. Un fase densa di implicazioni ( e di involuzioni, specie sul piano dell’ internazionalismo) politiche e teoriche In Afghanistan, sulle ali di un vasto processo insurrezionale e rivoluzionario, assume il potere il Partito democratico e popolare afgano, filocomunista e guidato da Nur Mohammad Taraki. Il PDPA mette in atto una riforma agraria che ridistribuisce le terre a 200 mila famiglie contadine e abroga l’ushur, ovvero la decima dovuta ai latifondisti dai braccianti. Abroga l’usura, i prezzi dei beni primari vengono calmierati, i servizi sociali statalizzati e garantiti a tutti, viene riconosciuto il diritto di voto alle donne e i sindacati vengono legalizzati. Si cambia tutta la legislazione afghana, si vietano i matrimoni forzati, si sostituiscono le leggi tradizionali e religiose con altre laiche e si bandiscono i tribunali tribali. Gli uomini sono invitati – anche con la forza – a tagliarsi la barba, le donne a non indossare più il burqa, le bambine possono andare finalmente a scuola e non possono più essere oggetto di scambio economico nei matrimoni combinati. Si avvia anche una campagna di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa e nelle aree rurali vengono costruite scuole e cliniche mediche. E’ questa laicizzazione – forzata – che evoca la lotta delle autorità religiose afgane, le quali cominciano ad incitare la jihad dei mujaheddin contro il regime dei comunisti atei, senza Dio”. Gli USA, in un’area così geopoliticamente strategica come l’Afghanistan, ricca peraltro di minerali rari e giacimenti di gas naturale, sostengono la lotta, armata, dei mujaheddin contro il governo rivoluzionario. E’ in questo contesto che, a difesa della rivoluzione, interviene l’Unione Sovietica. E il PCI, dimentico del fatto che la jihad controrivoluzionaria e sostenuta dagli USA uccide centinaia di quadri afgani comunisti e rivoluzionari, alza, senza nutrire dubbio alcuno, l’indice accusatore contro Mosca.

Nel PCI e fuori di esso colpisce l’atteggiamento di Amendola, che non condanna, a differenza del gruppo dirigente del PCI, l’URSS.

La scelta di Amendola è degna di nota. Il grande dirigente comunista napoletano, nell’essenza, esprime un pensiero di questo tipo: la vittoria della Jihad e degli USA in Afghanistan indebolirebbe l’Unione Sovietica. I rapporti di forza internazionali diverrebbero ancor più favorevoli agli USA e, conseguentemente, la stessa politica del PCI in Italia uscirebbe indebolita. All’interno di questa riflessione si potrebbe decodificare l’apparente mistero dato dal fatto che Amendola, il capo riconosciuto dell’ala “socialdemocratica” del PCI (naturalmente, diciamo socialdemocratica nel senso più alto e nobile del termine, riferendoci a quella socialdemocrazia europea volta alla costruzione di un solido stato sociale, alla redistribuzione della ricchezza e al rapporto forte con la classe operaia e il movimento sindacale operaio) si rivela, nel caso afgano, l’ultimo filosovietico. In verità la questione potrebbe essere la seguente: dice Amendola che solo attraverso il mantenimento della forza sovietica si potrà avviare in Italia una seria politica di riforme; l’URSS, su cui, pure, Amendola non nutre illusioni, costituisce un baluardo essenziale sul piano geopolitico, anche per la stessa tenuta dei partiti comunisti occidentali ( tesi, questa di Amendola, contraria a quella insita nella frase di Berlinguer sull’ombrello della Nato…). Certo è che, nel quadro amendoliano, la prospettiva di una politica di serie riforme, in Italia, non contempla più la prospettiva della rottura rivoluzionaria, anticapitalista, comunista.

Il 13 dicembre del 1981 Enrico Berlinguer è ospite, in Rai, di Tribuna Politica. Si discute, tra l’ altro, dei provvedimenti decisi in Polonia dal generale Jaruzelskij, che di fronte alla forte conflittualità interna ( e forse anche per prevenire un intervento sovietico) ha da poco varato lo stato d’emergenza. D’improvviso, nel suo intervento, lascia cadere una frase che si sarebbe poi rivelata essere un vero e proprio spartiacque nella storia del PCI. La frase è quella, famosa : “ Si è esaurita la forza propulsiva della rivoluzione d’ottobre”. E’ lo “ strappo”, al quale, sin da subito, si oppone l’area di ispirazione leninista legata alla rivista “Interstampa” e guidata da compagni che erano stati vicini a Pietro Secchia, come Alessandro Vaia, Arnaldo Bera, Giuseppe Sacchi, che si unirà poi, nella lotta contro lo strappo e contro il processo di social democratizzazione del PCI all’area di Armando Cossutta e Guido Cappelloni, alla rivista Orizzonti.

La frase di Berlinguer sull’ esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si aggiunge ( sul piano politico e teorico) a quella, pronunciata dallo stesso segretario del PCI alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, secondo la quale sarebbe stato preferibile che l’Italia restasse sotto l’ombrello della NATO, non solo per non sconvolgere gli equilibri internazionali, ma anche perché ciò avrebbe meglio tutelato l’autonomia del PCI e il tentativo di costruire una “via italiana al socialismo”.

La proposta dell’eurocomunismo, progetto che intanto andava prendendo corpo – si tinge così di un forte carattere antisovietico, adornandosi della scelta del campo occidentale. Nel contempo, la posizione di duro attacco, di critica serrata che sempre aveva condotto il PCI alla comunità europea dei monopoli, viene, mano a mano, mutata nell’accettazione del terreno europeo. Un’accettazione subordinata ai monopoli europei che influenzerà negativamente non solo il PCI e i suoi partiti eredi ( PDS- DS-PD), ma l’intera sinistra italiana, che giungerà nel tempo a genuflettersi ai voleri e ai diktat dell’ Europa di Maastricht e di Lisbona e alla Banca centrale europea.

E ben diverse, certo, erano le precedenti posizioni del PCI sul Mercato comune europeo. In un intervento alla Camera dei Deputati svolto il 25 luglio del 1957 Giancarlo Pajetta affermava: “ La nostra ferma opposizione al Patto atlantico, alla CED, alla UEO, oggi ci fa domandare: i trattati che ci stanno di fronte quali prospettiva favoriscono per l’Europa? Ciò che dobbiamo infatti ricordare è che l’estensione dei mercati non può certo considerarsi un fatto di per sé, a priori, positivo, se non teniamo conto di quali forze sociali determinano questa estensione e di quale sarà la politica seguita da coloro che dirigono questo blocco”.

Non un’ intervento, questo di Pajetta ma, alla luce di Maastricht e dell’attuale, feroce politica liberista che la BCE impone ai popoli e ai governi europei, che ha imposto a Berlusconi cosi come al governo Monti, non un semplice intervento, questo di Pajetta, ma una vera e propria profezia.

Sia l’affermazione di Berlinguer sull’ esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre che il progetto dell’eurocomunismo destano, nel PCI e nell’intero movimento comunista mondiale, molte inquietudini.

Rispetto allo “strappo” in molti notano una questione: con esso non si esce da sinistra dalla crisi dell’URSS e del campo socialista, ma si entra dritti nelle braccia della socialdemocrazia. E ciò attraverso un’azione concettuale e tattica tipica dei partiti operai in fase involutiva. Attraverso l’affermazione di Berlinguer sull’esaurimento della forza propulsiva, infatti, non si avanza una critica alle deficienze dell’esperienza sovietica ( critiche che dovevano essere invece avanzate, sia sul piano del mancato, pieno, sviluppo delle forze produttive che sul piano del mancato, pieno, sviluppo, della democrazia comunista), ma si abbandona il campo comunista e rivoluzionario. Si costruisce, cioè, e ci si avvale, di un vero e proprio “cavallo di Troia”, un falso pertugio per far passare, in modo inavvertito e indolore, il proprio cambiamento di natura, culturale, ideologica e politica. Un atto ambiguo funzionale ad una mutazione genetica: una vera e propria, machiavellica, funzione politica. La stessa che aveva utilizzato la socialdemocrazia tedesca di fine ottocento quando, attraverso libri, posizioni espresse dai propri dirigenti, congressi e pamphlet aveva affermato che “ si era esaurita la spinta propulsiva della Comune di Parigi”. Un’affermazione usata come un Cavallo di Troia per far passare la socialdemocrazia tedesca dalle posizioni di classe che ancora aveva a quelle posizioni compatibili con gli assetti capitalistici che l’avrebbero poi caratterizzata storicamente.

E anche sulla questione dell’eurocomunismo si registrava un’alta ambiguità : in verità, attraverso questo assunto, si metteva ai margini, quasi rimuovendola dalla storia del movimento operaio, l’intera esperienza rivoluzionaria (compresa quella sovietica, dell’Ottobre) esterna all’Europa, esterna, cioè, ai primi processi di accumulazione capitalistica originaria, ai primi processi storici di industrializzazione. Perché ciò? Perché attraverso quest’altra funzione politica, quest’altro cavallo di Troia, si poteva recuperare la concezione meccanicistica e positivista delle forze socialiste della Seconda Internazionale, le quali – attraverso una lettura dogmatica, scolastica, sbagliata di Marx – affermavano che le rivoluzioni potevano avvenire solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

I partiti dell’eurocomunismo ( con il PCI di Berlinguer in testa) ,recuperando questo assunto, rompono con il leninismo, con la possibilità della rivoluzione nell’anello debole della catena e rompono anche con il Gramsci che descrive la Rivoluzione d’Ottobre come “ la Rivoluzione contro il Capitale”, quel Capitale inteso, come è noto, come il libro mal letto dai riformisti meccanicisti. E’ dentro questa sofisticata operazione restauratrice che l’eurocomunismo colloca la classe operaia europea al centro della contemporaneità, affidandole la guida delle trasformazioni europee e mondiali, emarginando e svuotando di ruolo l’altro, intero e vastissimo fronte operaio internazionale.

E’ del tutto evidente che tale operazione non può che sfociare in una caduta vertiginosa della concezione e della prassi dell’internazionalismo, stessa caduta, peraltro, che prevedeva l’affermazione – l’ambigua affermazione – relativa all’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre.

Con questo tipo di analisi possiamo non ritenere inverosimile il costituirsi di una catena concettuale e politica di questa fatta: attraverso l’eurocomunismo si allentano notevolmente, sino alla rottura, i legami col movimento comunista europeo e mondiale; si costruiscono rapporti privilegiati con la socialdemocrazia interiorizzandone la natura e si accetta, di fatto, il costituendo processo liberista di costruzione dell’Unione europea sino a far propri i Trattati di Maastrich e di Lisbona. In attesa di accettare il nuovo, neoimperialista, esercito europeo.

L’eurocomunismo è stagione di breve durata. Serve a traghettare – come abbiamo visto – l’internazionalismo comunista originario del Pci verso l’approdo socialdemocratico, di piena accettazione delle compatibilità internazionali del ‘campo occidentale’. Coincide anche con un fortissimo appannamento della prospettiva strategica del Pci. Una cosa infatti era l’elaborazione del compromesso storico nel 1973, quale prosecuzione di una strategia di riforme di struttura e di una politica di alleanze ‘costituzionali’ per sviluppare i contenuti sociali della Costituzione del 1948, altra la politica di sostegno parlamentare ai governi DC come risposta all’emergenza del terrorismo, ma senza una reale prospettiva o un programma di avanzamento e democratizzazione della società.
 

Negli anni ‘80 –in una sorta di coazione a ripetere e mettendo ancora in campo il meglio della propria storia – il Pci continua a sostenere le lotte anticoloniali e antimperialiste: alle affollatissime feste dell’Unità intervengono i rappresentanti dei popoli in lotta, ma ormai senza quell’afflato e la prospettiva strategica degli anni ‘60. E ciò non solo per un mutamento del Pci: il quadro internazionale è mutato in peggio, l’Indocina vittoriosa sull’imperialismo, si squarta in guerre fratricide. Ciò che tiene è il ruolo di Cuba, che punta ad assumere l’egemonia del movimento dei non allineati spostandolo su posizioni decisamente antimperialiste.

Il segnale di uno slittamento ulteriore delle posizioni del Pci si ha nella prima grande crisi del mondo post-socialismo reale: la crisi irachena. Qui, il Pci – rifiutando esplicitamente la categoria di imperialismo, come più tardi avrebbe fatto il Bertinotti segretario del PRC, anch’egli , non casualmente, del tutto proiettato al superamento della cultura e dell’autonomia comunista– avalla  l’intervento USA e della coalizione di potenze da essi guidata a bombardare a tappeto Baghdad.

Ma ormai è in nuce il Pds di Occhetto, che segna la rottura esplicita e netta con la storia e l’idealità comunista, e colloca il partito rigorosamente all’interno dell’Occidente e della NATO. Un Pds, quello di Occhetto, che non casualmente ha modi diversi di rapportarsi con Gorbaciov.

Col primo Gorbaciov, infatti, quello della speranza, della possibilità del cambiamento positivo delle dinamiche economiche e democratiche in Unione Sovietica, il Gorbaciov sostenuto da Ligaciov e che non pare voler fuoriuscire dall’ambito socialista, con questo Gorbaciov il PCI di Occhetto è cauto e indugia ad approfondire il rapporto. Rapporto che sarà invece non casualmente pieno col secondo Gorbaciov, quello che smantella l’Unione sovietica, che si avvicina a grandi passi alla socialdemocrazia europea e che prepara il terreno alla tragica vittoria di Boris Eltsin, affossatore dell’Unione Sovietica.

Meno di dieci anni dopo il primo intervento in Iraq e il rifiuto da parte dell’ultimo PCI di definire quell’aggressione una guerra imperialista, un governo presieduto da un ex comunista (D’Alema), allineato con la NATO, andava, in aperta violazione dell’articolo 11 della Costituzione, a bombardare Belgrado.

Rimane una questione: cos’è l’internazionalismo, oggi? Come lo si pensa e – soprattutto – come lo si pratica, per non uscire dalla filosofia della prassi, non ricadere in un neo cosmopolitismo e rafforzare il fronte antimperialista e il movimento mondiale contro la guerra?

Crediamo non vi siano dubbi: oggi l’internazionalismo lo si assume nella sua forma non idealista e lo si pratica concretamente schierandosi, innanzitutto, contro le pulsioni di guerra imperialiste ( che in questa fase puntano ad attaccare la Siria e l’Iran); schierandosi sempre più nettamente a fianco dei paesi del Brics, a fianco delle forze antimperialiste dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia. Ricordandosi che all’interno dei paesi del Brics – questa nuova entità internazionale che cambia i rapporti di forza nel mondo spuntando già le unghie all’imperialismo – svolgono ruoli politici e sociali decisivi i partiti comunisti : il Partito comunista cinese, quello brasiliano, quello sudafricano, i due partiti comunisti indiani, il partito comunista russo.

Partiti comunisti di massa, con milioni di iscritti e militanti, che svolgono compiti decisivi all’interno dell’avanguardia antimperialista mondiale, che governano, da soli o in coalizione con forze di sinistra e antimperialiste, più di un terzo dell’umanità e che, dunque, sfatano, nei fatti, la (solita) leggenda capitalistica della fine del comunismo.

E molto più probabile, partendo invece dall’innegabile realtà delle cose, che siano proprio le forze comuniste a vedere, un giorno, la fine dell’imperialismo e del capitalismo a livello mondiale.