Comunisti oggi contro il capitalismo

“Prima di tutti vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare…”

Con questi brevi versi Bertold Becht descriveva l’avvento del nazifascismo nel cuore dell’Europa negli anni ’30. La storia non si ripete mai nelle stesse forme, tuttavia i tristi avvenimenti che stiamo vivendo nel nostro Paese e più in generale in Occidente assomigliano molto a quegli avvenimenti che precedettero la nascita del nazifascismo e poi la seconda guerra mondiale. Siamo fra quelli che hanno sempre un po’ diffidato dei continui allarmi gridati a sinistra sulla fascistizzazione della società e sulla guerra alle porte. Tuttavia, crediamo che oggi, invece, i pericoli siano, per la prima volta, reali. Perché? Come mai dilagano fenomeni inediti di razzismo di massa nel nostro Paese? Perché queste campagne contro i lavavetri, gli immigrati, i musulmani, i romeni, i cinesi, campagne che peraltro ottengono i consensi della maggioranza stragrande della popolazione? E come mai non vengono più condotte da forze estreme e marginali, neofasciste e leghiste, ma da sindaci di centro-sinistra di importanti città o da organi di stampa della grande borghesia, come avvenuto con l’editoriale di Alberto Ronkey sul Corriere della Sera di qualche giorno fa intitolato “ L’invasione dei romeni”, che giunge a citare a sostegno della sua tesi razzista un commento sugli zingari di Indro Montanelli del 1939 in pieno fascismo delle leggi razziali? Oltre allo scopo di distogliere la popolazione dai problemi reali prodotti dal capitalismo, costruendo falsi obbiettivi contro cui prendersela, alimentando le “guerre fra poveri”, ci sembra che vi sia qualcosa di più profondo alla base degli allarmi e della reazione contro “le invasioni” (l’invasione barbarica degli immigrati così come l’invasione delle merci cinesi). Forse per la prima volta la grande borghesia occidentale ha paura, e la paura è cosa pericolosa. La paura è stata la causa principale dell’avvento del nazifascismo, la paura del bolscevismo, delle conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre, della prima rivoluzione riuscita del proletariato. Oggi la paura è un’altra. L’Occidente ha oggi, per la prima volta, paura di perdere l’egemonia mondiale, di essere sconfitto, accerchiato dall’esterno, da un mondo “strano” e diverso dal previsto, e corroso dall’interno da una decadenza economica e morale inarrestabile. Da qui gli appelli alla difesa della “civiltà occidentale”, la campagna sulle radici cristiane dell’Europa, la spirale guerra-xenofobia, il razzismo dilagante, la deriva nazionalista e sicuritaria a cui assistiamo negli ultimi anni, sia da parte del centro-destra che del centro-sinistra. Qui c’è un nuovo punto di aggiornamento nell’analisi del capitalismo e dell’imperialismo dei nostri giorni. Non c’è dubbio che permangano le contraddizioni interimperialiste, fra poli capitalisti in competizione fra di loro, come sono Usa ed Unione Europea, tuttavia è un fatto che l’Occidente capitalistico, nel suo complesso, si senta accomunato nella difesa del suo predominio e del suo tenore di vita, messi a rischio dal nuovo mondo che emerge e avanza con sempre più coraggio. Qui vi sono le basi materiali della vittoria di Sarkozy e dello spostamento della Ue verso un’ opzione euroatlantica, invece che verso l’autonomia dagli Usa e in direzione della cooperazione pacifica e democratica col resto del mondo.

LA CONTRORIVOLUZIONE DELLA FINE ANNI ’80 E’ FALLITA

Il governo americano tentò alla fine degli anni ’80, attraverso le controrivoluzioni “di velluto” nell’Est europeo e il crollo dell’Urss (che furono possibili anche per i limiti strutturali di quelle società e per l’incapacità di innovazioni rivoluzionarie), di determinare il suo dominio assoluto sul pianeta e di chiudere definitivamente la possibilità di cambiare il mondo. Ma, nonostante l’apparente successo di quella offensiva reazionaria, le cose non sono andate come nei progetti e nelle previsioni americane. Sia perché vi furono importanti paesi a guida comunista (come la Cina e Cuba) che riuscirono a respingere i tentativi controrivoluzionari che pure furono fatti, sia perché, come riconoscono i più autorevoli commentatori occidentali, la Russia di Putin non è più la Russia di Eltsin. La Russia di oggi non è ovviamente una sorta di “restaurazione” dell’Unione Sovietica né va in quella direzione, non realizzabile oltreché non desiderabile, né è una sorta di rifondazione di un nuovo sistema socialista o comunista (questa sì desiderabile). Niente di tutto ciò. Tuttavia è un fatto che la Russia di Putin, diversamente da quella postcontrorivoluzionaria di Eltsin, non sembra intenzionata a capitolare alla colonizzazione occidentale e sembra tornare a giocare un ruolo da grande potenza nel mondo o quantomeno nell’area euroasiatica, sia in termini economici che militari. La nuova guerra fredda lanciata in Europa da Bush, con la creazione dello “scudo” nucleare spaziale e con il tentativo di accerchiare la Russia con Stati ostili aderenti alla Nato oppure ospitanti basi militari americane, è la migliore dimostrazione del fallimento del progetto iniziale dell’imperialismo della fine degli anni ’80. Per non parlare della Cina. Non vogliamo parlare ora del sistema sociale esistente in Cina, delle coraggiosissime ed anche rischiose innovazioni economiche rivoluzionarie introdotte negli anni ’80 dai comunisti cinesi, anche contro l’ortodossia marxista dell’epoca; innovazioni che resero possibile la diversità della Cina dalla stagnazione burocratica e statalista sovietica e che, a differenza dell’Urss, hanno consentito al partito comunista e al governo cinese di accrescere enormemente i consensi fra le masse e di reggere così all’offensiva dell’imperialismo della fine degli anni ’80. Neppure possiamo qui affrontare una riflessione sulle gravi ingiustizie sociali e sui problemi ambientali, d’altra parte prodotti dall’espansione dell’economia di mercato, problemi su cui si stanno interrogando i comunisti cinesi. E’ del tutto ovvio che quella società, pur non essendo fondata sul liberismo capitalistico (come nei luoghi comuni ignoranti anche di sinistra) non è “il socialismo”( gli stessi comunisti cinesi non lo hanno mai sostenuto) e men che meno può essere un modello per le nostre società a capitalismo avanzato, con la nostra storia, cultura e le nostre sovrastrutture giuridiche e istituzionali (così come bisogna combattere le spinte della borghesia occidentale a considerare le nostre strutture giuridiche e istituzionali un modello da far seguire alla Cina o ad altri Stati), anche se bisogna riconoscere che la Cina di oggi rappresenta un fenomeno straordinario ed un progresso enorme, anche in termini di riduzione drastica della povertà e di aumento del benessere di massa, rispetto alla Cina precedente (sia alla Cina feudale pre-rivoluzionaria che alla Cina maoista post-rivoluzionaria) e contemporaneamente mantiene aperta, diversamente da ciò che è avvenuto in Russia dopo la fine dell’Urss, la prospettiva del socialismo e del comunismo. Ciò che ci in- teressa in questo momento sottolineare, a prescindere dal tipo di società e di economia, è che la Cina, come la Russia, non è normalizzata, né colonizzata, anzi va diventando un’altra grande potenza autonoma dagli Usa nella scacchiera internazionale. Peraltro, paradossalmente, ciò che non fu possibile prima della ventata controrivoluzionaria dell’ 89 e costituì un vantaggio per gli Usa negli anni della guerra fredda, diviene possibile oggi: l’alleanza economica e militare fra Russia e Cina, c h e rappresenta non un nuovo “campo socialista” ma una grande forza materiale di resistenza al mondo dominato unipolarmente dalla potenza americana, nella direzione di un mondo multipolare. Per non parlare della dinamica democratica e antimperialista che, con diversa intensità, ha investito l’America Latina che ha nella rivoluzione venezuelana la punta oggi più nuova e avanzata e nell’esperienza e nella saggezza cubana (dovute a quasi 40 anni di paziente resistenza all’accerchiamento Usa) il perno strategico essenziale. Anche qui è evidente che la lotta per il socialismo apertamente sostenuta da Chavez non può e non vuole essere un modello per società così diverse come le nostre a capitalismo sviluppato, tuttavia il fatto che per la prima volta in America Latina, nel “cortile di casa” degli Usa di destra di Bush, il Venezuela si affianchi a Cuba proponendosi apertamente non solo la costruzione di uno Stato indipendente dagli Usa e dalle multinazionali ma addirittura la costruzione del socialismo (e non parliamo del socialismo riformista a cui si riferiscono i socialdemocratici e i socialisti europei ma di un socialismo rivoluzionario e alternativo al capitalismo), è qualcosa di straordinario, che ci dice delle contraddizioni del mondo nonostante l’89. E il mondo si muove anche in Africa e in Medio Oriente, come dimostrano le guerre promosse e minacciate dagli Usa per fermare il movimento di questi popoli (Iraq, Iran, Libano, Palestina, Somalia, Darfur…). Insomma, ciò che voglio mettere in evidenza è che il pianeta non va nella direzione che avevano progettato gli Usa, quando produssero l’ondata di controrivoluzioni dall’ 89 al ‘91. L’egemonia americana e il capitalismo non sono la fine della storia. C’è un mondo che non accetta i dicktat né della Casa Bianca né del Pentagono. C’è un mondo che non accetta di continuare a morire di fame e di malattie bevendosi le ricette del Fondo Monetario Internazionale o dei banchieri della UE. C’è un mondo che vuole partecipare al benessere, che non può essere esclusivo patrimonio di un ristrettissimo gruppo di paesi capitalistici. Da qui l’emergere dignitoso di nuove potenze regionali, oppure l’inevitabile flusso migratorio di masse di diseredati dai paesi poveri, resi poveri da secoli di rapine colonialistiche e imperiastiche, verso le aree più ricche del mondo, come il nostro Paese.

LA SPIRALE GUERRA-RAZZISMO

Di qui la reazione dell’Occidente capitalistico che si può sintetizzare nella spirale guerra-razzismo. Guerra e minacce di guerra contro quegli Stati che non si omologano e che rappresentano un’insidia per il mondo unipolare, a guida americana. Razzismo contro gli “stranieri” poveri, i nuovi “barbari” che invadono l’Italia e inquinano la cultura, gli usi e costumi occidentali, con ciò che ne consegue anche per le libertà democratiche che l’Occidente si vanta di possedere (vedi il Patriot Act assunto dagli Usa dopo l’11 settembre). Questa è la linea dell’imperialismo adottata dall’amministrazione americana con il governo di estrema destra guidato da Bush e con il pretesto dell’attentato dell’11 settembre. Guerra permanente e involuzione autoritaria delle società occidentali. Se si dimostrasse vera la tesi dell’autoattentato, sostenuta dalla precisa e corposa documentazione rac- colta e pubblicizzata da Giulietto Chiesa nel libro e nel film “Zero”, cadrebbero completamente tutti i pretesti che hanno motivato la guerra in Afghanistan, come è crollata miseramente ogni motivazione per la guerra di aggressione all’Iraq, dopo l’inesistenza di armi di distruzione di massa in mano a Saddam. Crollerebbe come un castello di carta tutta la sceneggiata sulla guerra al terrorismo e la cosiddetta spirale guerra-terrorismo, entrambi (guerra e terrorismo) provenienti dalla stessa fonte, e sarebbe un atto di accusa formidabile per il gruppo dirigente del capitalismo mondiale. La guerra in Afghanistan si mostrerebbe all’opinione pubblica mondiale solo per quella che è: una guerra per il controllo militare permanente di un’area geografica strategica, per tentare di modificare i rapporti di forza in Eurasia, continente in cui si gioca l’egemonia mondiale nei prossimi anni, secondo le stesse analisi del governo americano. E si mostrerebbe al mondo tutto il cinismo di cui è capace il potere capitalistico: lasciarsi distruggere le torri gemelle, nel cuore di New York, con migliaia di vittime innocenti, per dotarsi del pretesto per scatenare la guerra all’Afghanistan e poi all’Iraq, con altre decine di migliaia di morti. Come si possa, in questo contesto, per una forza comunista, o anche solo di sinistra o democratica, votare a favore della missione militare italiana in Afghanistan, a fianco di questi criminali di guerra americani, non riusciamo proprio a sopportarlo. Così come non riusciamo a capire l’indifferenza, la passività delle forze di sinistra europee (con le dovute eccezioni), di fronte alla minaccia – sempre più pressante – di una nuova devastante guerra di aggressione all’Iran, dopo il fallimento della guerra all’Iraq e dopo il crollo della montatura per scatenarla. E’ incredibile che nessuno sostenga che, se l’Amministrazione americana ha costruito una marea di bugie per scatenare la guerra all’Iraq (come è oggi evidente a tutti), la stessa cosa può essere avvenuta per l’attacco alla Serbia del 1998, per l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 o per la minacciata guerra all’Iran. Il problema vero è che nei paesi dell’Unione Europea buona parte delle sinistre e delle forze democratiche hanno ceduto all’attacco da destra e all’involuzione moderata dopo il contrasto che vi fu fra Francia e Germania, da un lato, e gli Usa, dall’altro, sulla guerra all’Iraq. Non parliamo del Labour Party di Tony Blair, fedelissimo alleato del governo di destra americano nel guidare la guerra e la distruzione dell’Iraq (come si fa a non interrogarsi su che fine ha fatto un partito che continua a chiamarsi “partito del lavoro” e che continua ad essere riferimento essenziale di quel “socialismo europeo” e dell’Internazionale Socialista a cui si richiamano in casa nostra la Sinistra Democratica di Mussi e Salvi, con cui la maggioranza di Rifondazione Comunista vorrebbe farci la “Cosa rosa”). Il Labour Party è la punta dell’iceberg, poi c’è la Spd al governo di una grande coalizione centrista con i democristiani tedeschi; il partito socialista francese, abbacinato dal sarkozismo, il Pds italiano che si scioglie nel nuovo moderatissimo Partito democratico. L’Unione Europea in sostanza non va a sinistra ma a destra, dove sempre di più centro-destra e centro-sinistra si somigliano in quasi tutto e potrebbero costruire non delle alternanze ma partiti unici, con all’interno le diverse correnti della borghesia. Se non lo fanno è perché non ingannerebbero più l’elettorato di sinistra e di classe attraverso l’alternanza, che sembra cambiare tutto senza cambiare nulla. In questa parte del mondo vi sono le condizioni, i rapporti di forza per la partecipazione al governo di forze comuniste e di sinistra alternativa al capitalismo? Questa è la domanda giusta che avremmo dovuto porci in Italia prima dell’ingresso devastante nel governo Prodi. L’esperienza di questo anno e mezzo di partecipazione al governo, se proprio ce n’era bisogno, aiuta a rispondere di no e a trarne qualche insegnamento più generale. Le forze comuniste e alternative, di fronte all’assenza dei rapporti di forza nella società e di fronte quindi alla prosecuzione di politiche liberiste e di sacrifici antipopolari, escono distrutte da esperienze di governo, cosa che sta accadendo al Partito della Rifondazione Comunista.

UN BILANCIO DELLA PRESENZA NEL GOVERNO PRODI

Sulla presenza del Prc all’interno del governo Prodi, è necessario finalmente un discorso di verità, anche se questo significa ammettere il fallimento completo della linea governista scelta col congresso di Venezia. Il bilancio di più di un anno di partecipazione al governo è un bilancio fortemente negativo. Romano Prodi affermò a inizio legislatura, rispondendo ad una domanda preoccupata di un giornalista tedesco sulla presenza nel governo di ben due partiti comunisti, che il Prc e il Pdci non rappresentavano un pericolo ma “folclore innocuo”. Finora, se facciamo un’analisi seria dei risultati ottenuti, si può dire che Romano Prodi abbia avuto ragione. I problemi con il governo Prodi sono cominciati sin dall’inizio. Non si è riusciti a determinare un Dpef ed una Finanziaria del 2006 senza il ricatto del ripianamento del debito. Al contrario, la totale subalternità del governo a Confindustria e alle direttive liberiste dell’Unione Europea hanno portato ad una manovra di tagli sociali e di regali immensi alle imprese. Non si è riusciti ad invertire la grave tendenza alla perdita costante del potere d’acquisto di salari e pensioni, che alimenta la crescita continua di povertà e insicurezza sociale a fronte di ricchezze sempre più ostentate. Né si è riusciti a impedire un accordo truffa come quello sulle pensioni, che ha violato apertamente la richiesta del programma elettorale di abrogazione dello scalone Maroni, colpendo le parti più deboli di chi lavora. E subito dopo la sinistra di governo ha assistito impotente all’accordo sul Welfare, che sdogana la legge 30 invece di superarla. Non si è riusciti a determinare il ritiro dei militari italiani dalla guerra in Afghanistan e neppure la promessa Conferenza di Pace e si è subita la decisione del governo di collaborare con gli Usa per lo scudo nucleare spaziale e per la costruzione della nuova base americana a Vicenza, nonostante l’imponente manifestazione popolare. Non si è riusciti a fermare l’Alta Velocità, così come non si è riusciti ad approvare una legge sulle unioni civili, per la subalternità della maggioranza del governo alle pressioni del Vaticano. Anche sulla scuola, le ultime uscite del ministro Fioroni ci dicono di una linea di fondamentale continuità con quella privatistica del governo Berlusconi. Per non parlare dell’ultima campagna con venature razziste e autoritarie sui lavavetri e sulla sicurezza, promosse da autorevoli sindaci di sinistra e dal ministro Amato. E la domanda successiva è: la costituzione del Partito Democratico aiuterà a spostare a sinistra l’asse politico del governo oppure al contrario determinerà un’ulteriore torsione moderata, centrista e liberista? La risposta ci sembra semplice. E allora è ormai davvero inevitabile predisporsi ad una soluzione di uscita da questo governo e ad una ricollocazione strategica all’opposizione, soluzione resa oggi assai problematica solo dall’esigenza tattica di evitare di apparire agli occhi del popolo di sinistra come i responsabili di elezioni anticipate e di una vittoria di Berlusconi, vittoria in realtà regalata alla destra dalle incoerenti politiche del governo Prodi e dal conseguente crollo di fiducia dell’elettorato di sinistra. L’esigenza e l’obbiettivo di spostare a sinistra l’equilibrio del sistema, di conquistare riforme parziali oppure anche solo di evitare il peggio non va sottovalutata, anzi, ma può essere soddisfatta attraverso la resistenza, l’opposizione e il conflitto sociale, più che dentro governi con politiche moderate, che alla fine distruggono le forze comuniste e di sinistra anticapitalistica, come si sta vedendo anche dall’esperienza del governo Prodi. Si è dimostrata velleitaria e fallimentare, peraltro, la tesi che si possa governare e contemporaneamente costruire movimenti di lotta. I lavoratori in carne ed ossa (non il ceto politico- sindacale addetto ai lavori) se pensano che c’è un governo amico perché dovrebbero lottare, manifestare, scioperare? Chiedono a te che sei al governo di ottenere i risultati che hai promesso. Anche per questo nella situazione concreta italiana, se si vuole effettivamente ricostruire una nuova stagione di movimenti, è necessario dare un segnale chiaro con il passaggio dal governo all’opposizione, affinché almeno una parte dei lavoratori perda l’idea della delega e percepisca chiaramente che esiste un riferimento anche a sinistra (e non solo a destra o i Grillo) del malessere sociale. Il danno fatto dal governo Prodi, in questo anno e mezzo, è di dimensioni catastrofiche. Quando governava Berlusconi almeno c’erano le piazze piene di movimenti progressisti e di lavoratori, garanzia di tenuta democratica. Ora, la miscela costituita dalla crescita di insicurezza sociale, razzismo, xenofobia, qualunquismo, disgusto per la politica, voglie securitarie e autoritarie, è una miscela esplosiva, prodotta dalle politiche deludenti del governo Prodi e contemporaneamente dalla cancellazione di qualunque riferimento credibile di sinistra (il “siete tutti uguali” degli operai di Mirafiori). In questo modo la crescita della rabbia per le ingiustizie sociali, invece che essere canalizzata e catapultata contro il sistema capitalistico, viene rovesciata contro la sinistra, nelle “guerre fra poveri” e persino contro la stessa democrazia rappresentativa borghese, anche solo per promuovere nuove leggi elettorali maggioritarie, la cui finalità reale è quella di cancellare le forze contrarie all’alternanza e al sistema.

UN PDS BONSAI: DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA

E’ evidente che la nascita del Partito Democratico e della Sinistra Democratica di Fabio Mussi, determinano una nuova situazione, nella quale è necessario costruire le forme possibili di convergenza, di unità, di coordinamento su contenuti comuni di tutto ciò che si muove sul piano politico e sociale a sinistra del partito democratico. Questa è un’esigenza reale. Ma così come con lo Sdi di Boselli e col nuovo Psi, pur essendoci alcune importanti convergenze sui temi della laicità dello Stato e dei diritti civili, vi sono divergenze strategiche sulla politica internazionale e sulla politica economica e sociale, che non consentono di andare oltre un’unità d’azione sui contenuti comuni, cosa simile vale per Sinistra Democratica. Con la Sd non è stato possibile manifestare, neanche in una moderatissima piazza tematica e musicale, contro Bush, capo della destra mondiale e responsabile della guerra all’Iraq, promotore della teoria della guerra permanente anche con l’uso delle armi nucleari. E’ divergenza da poco? Con la Sd si è manifestata una divergenza radicale sul giudizio sull’accordo truffa di luglio e poi sul voto della Fiom per il NO. E’ cosa da poco? Con la Sd si è manifestata una divergenza perfino sulla manifestazione del 20 luglio. E cosa da poco? La Sd ha aderito al Partito Socialista europeo e all’Internazionale Socialista. E’ cosa da poco? Sarebbe interessante fare uno studio attento su tutte le posizioni dei massimi dirigenti di Sinistra Democratica dalla nascita del Pds in avanti. Ne vedremmo delle belle: dalla adesione convinta alla Bolognina di Occhetto, al Sì agli accordi concertativi di luglio ’92-93, che cancellarono la scala mobile e introdussero per la prima volta in Italia il lavoro in affitto, al Sì nel referendum elettorale del ’93, che cancellò il proporzionale, al giudizio positivo sulla controriforma Dini delle pensioni, fino all’assenso ai bombardamenti della Nato su Belgrado. Con la Sd, dopo l’euforia della novità rappresentata dal distacco dal Partito democratico, si stanno manifestando tutte le stesse divergenze strategiche che hanno diviso dal 1991 Rifondazione Comunista dal Pds di Occhetto e D’Alema. E’ assolutamente impensabile con queste divergenze strategiche e politiche, fare un partito unico o qualcosa di simile, come ha proposto di recente la nuova corrente migliorista del Prc, costituita da Alfonso Gianni, Gennaro Migliore, Niki Vendola, Piero Sansonetti, e capeggiata dal Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, a meno di una capitolazione completa del Prc, dopo la sua autodistruzione nell’esperienza di governo. Ma altrettanto e forse ancora più pericolose sarebbero forme di unità che mantenessero formalmente simbolo e nome comunista (come specchietto per le allodole per militanti ed elettori) e determinassero una limitazione di sovranità e di autonomia dei comunisti, come primo passo transitorio per un superamento anche formale, e non solo fattuale, del Prc. Questo è il caso dell’opzione “federativa” che è cosa ben diversa dall’opzione “confederativa” per l’unità delle sinistre. Chi fa confusione fra le due forme sbaglia di grosso oppure, in mala fede, già accetta una forte limitazione di sovranità. Se poi a ciò si aggiungono le ambigue e confuse proclamazioni sulla “federazione come nuovo soggetto politico”, o come “tappa intermedia del processo di una nuova forza politica” di sinistra, si capisce facilmente che l’obbiettivo è un nuovo partito unico di sinistra, un Pds bonsai, attraverso una Bolognina bonsai. Dalla tragedia alla farsa. Dalla Cosa uno alla Cosa due, a volte ritornano! E la differenza fra Bertinotti e Giordano appare solo sui tempi e le modalità dell’operazione di liquidazione, non sull’obbiettivo finale. A questa ipotesi, comunque mascherata, bisogna dire un No chiaro e tondo, grande come una casa.

UN PATTO FRA BERTINOTTI E MUSSI

Il tentativo del nuovo partito di Mussi di frenare e ostacolare l’autonoma iniziativa del Prc e del Pdci è stato negli ultimi tempi palese e pesante, ed ha purtroppo ottenuto alcuni risultati negativi. Il Pd di Mussi sta frenando la richiesta di ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan, sta ostacolando la riuscita della manifestazione del 20 ottobre, sta alimentando assieme al Partito democratico la campagna per il SI nel referendum sindacale sull’accordo di luglio. Sembra una corrente esterna del Partito democratico. Purtroppo questi tentativi stanno sortendo gravi effetti. Hanno modificato la posizione del segretario del Prc Giordano che non chiede più il ritiro dall’Afghanistan, hanno spinto alcuni promotori della manifestazione del 20 ottobre a ridurre le critiche al governo, hanno determinato il rifiuto della segreteria nazionale del Prc di fare apertamente campagna per il No nel referendum sindacale, tradendo 16 anni di autonomia del partito rispetto al sindacato (per esempio il Prc fece aperta campagna per il NO nel referendum sulla controriforma Dini delle pensioni). Questi sono i primi chiari segnali di come a parole o nei documenti si possa proclamare l’autonomia politica ed organizzativa del partito, mantendendo formalmente nome e simbolo (come si disse e si scrisse nella conferenza di organizzazione di Carrara) e nei fatti si possa già limitare fortemente l’autonomia del partito, a scopo propedeutico per la formazione del nuovo soggetto unico con Mussi. E’ del tutto evidente che tutto ciò è frutto di un patto fra Bertinotti e Mussi, a cui il gruppo dirigente del Prc non vuole o non è in grado di opporsi, mimetizzandosi dietro confuse ipotesi federative, soggetti unici e pericolosissime liste uniche alle prossime elezioni amministrative. E’ la cosa peggiore che ci sia. Meglio sarebbe nell’imminente congresso, ora finché siamo in tempo, far emergere chiaramente tutte le opzioni in campo e far esprimere apertamente e democraticamente gli iscritti del partito sulla proposta di Bertinotti di superamento del Prc. La confusione e i pasticci, come il patto fatto prima delle ferie estive nel convegno di Segni della maggioranza congressuale, giocano a favore della liquidazione del partito, perché non consentono al corpo largo degli iscritti, ben al di là degli addetti ai lavori, di capire la posta in gioco e di partecipare in massa alla salvezza del partito e dell’autonomia comunista. Servirebbe invece una modalità congressuale in grado superare le mozioni del Congresso di Venezia, di unire tutte le forze contrarie alla omologazione e alla liquidazione del Prc, che, nel malessere profondissimo che si è aperto nel corpo del partito di fronte al fallimento della linea governista, alla pesante sconfitta elettorale alle scorse amministrative (persi due terzi degli elettori), al clamoroso sbaglio del 9 giugno di Piazza del Popolo, al fallimento di della Sinistra Europea, hanno la possibilità di raccogliere la maggioranza degli iscritti.

UN’ALTRA UNITA’ A SINISTRA E’ POSSIBILE

Non è vero che non si può far niente di diverso dalla Cosa due o dalla federazione della sinistra. A sinistra del PD vi sono tre famiglie diverse: la famiglia socialista e riformista (Sdi e Sd), quella comunista e anticapitalista (Prc e Pdci) e quella ecologista (i Verdi). Fra queste tre famiglie è necessario ricercare forme di coordinamento e mobilitazioni unitarie su contenuti comuni, senza alcuna cessione di sovranità o limitazioni di autonomia per nessuno. E’ del tutto evidente che tanto più si chiarisce che non si vogliono fare partiti unici, cose simili o processi che portano gradualmente verso un nuovo soggetto politico unico, più facile sarà vincere settarismi e diffidenze reciproche che ostacolano l’unità d’azione. Per esempio alle prossime elezioni amministrative, poiché la legge elettorale lo consente anzi lo favorisce, bisognerebbe costruire larghe coalizioni di liste di sinistra attorno a comuni programmi e candidati Sindaci o Presidenti di Provincia, nelle quali ogni forza politica si presenti col proprio simbolo e con la propria lista. Questo è il modo migliore per fare il pieno dei voti di tutto l’elettorato di sinistra e tentare di contendere l’egemonia ai candidati del partito democratico. Invece sarebbe una follia controproducente (come si è visto in tutti i precedenti esperimenti fatti nel passato) presentare liste uniche di tutte le forze di sinistra, che farebbe perdere consistenti voti a tutti, follia che si spiega solo con la voglia di alcuni di pagare anche un prezzo elettorale pur di far sparire il simbolo comunista dalle elezioni, per abituare anche l’elettorato ad un nuovo simbolo di sinistra, in preparazione del futuro nuovo partito della sinistra.

COMUNISTI IN MOVIMENTO

Basta l’unità d’azione delle sinistre? No, non basta. Si può fare di più rafforzando l’unità fra le forze di sinistra più vicine, sempre a partire dai contenuti. Prc e Pdci fanno parte della stessa famiglia comunista e anticapitalista e, pur permanendo differenze rilevanti, negli ultimi tempi hanno visto un positivo riavvicinamento di posizioni. Significativa è la stessa identica posizione, diversamente da SD e i Verdi, manifestata sull’accordo sulle pensioni, sulla precarietà del lavoro, sul No nel referendum sindacale sull’accordo di luglio e sulla manifestazione del 20 ottobre. Non è cosa da poco: sono le stesse posizioni che caratterizzarono Rifondazione Comunista nella diversità strategica sulle questioni sociali dal Pds degli anni ’90. E’ necessario proseguire su questa strada del riavvicinamento fra i due partiti comunisti, non per un’unità statica e testimoniale dei comunisti, ma per l’unità nella ripresa del processo della rifondazione comunista e nel fuoco delle lotte, finalizzata alla costruzione di lotte e movimenti, a partire dalla manifestazione del 20 ottobre, dove possono mescolarsi e fraternizzare per la prima volta, dopo anni, compagne e compagni del Prc, del Pdci, della Fiom, dei movimenti contro la globalizazione capitalistica. Il 20 ottobre può essere l’inizio della costruzione di una nuova forza comunista e di classe più ampia, più radicata socialmente, più capace di essere avanguardia reale di tutte le lotte anticapitalistiche o che abbiano una potenzialità anticapitalistica, superando gli errori e i moderatismi del passato nei rapporti con i movimenti più radicali (vedi Genova). Anche in tal senso è indispensabile che i due partiti comunisti stabiliscano un rapporto di lotte comuni anche con l’arcipelago della sinistra di opposizione, con le forze che seppero promuovere, nonostante le difficoltà, con grandi sacrifici e coraggio, la manifestazione e il corteo dei 100.000 contro Bush del 9 giugno. Oggi, la collocazione dei comunisti al governo e alcuni eccessi “gruppettari” della sinistra di opposizione rende difficile e problematica questa collaborazione, domani e forse (speriamo) molto presto, la collocazione dei comunisti all’opposizione necessiterà e aiuterà l’unità di tutte le forze comuniste e antagoniste al capitalismo. Questa unità nella lotta e dall’opposizione serve anche per affermare un’identità comunista fatta non semplicemente di una storia, di un nome e di un simbolo, ma anche e soprattutto di una pratica politica coerente con l’esigenza di combattere il capitalismo e tutti i suoi effetti e devastazioni dirette o indirette, in tutti i campi, dalla pace al lavoro, all’immigrazione, alla libertà, alla democrazia, all’ambiente, alla cultura, alla laicità, tematiche da non considerare più come aspetti tattici, secondari ed ornamentali, ma, come le questioni di fondo, strategiche, su cui i comunisti e i rivoluzionari dovranno cimentarsi per rifondare una nuova identità ed organizzazione comunista con consensi di massa in un paese a capitalismo complesso e sviluppato come l’Italia. Per dimostrare a Prodi e soprattutto alla società italiana che i comunisti non sono “folclore innocuo”. Se non ora quando?