La battaglia attorno al PCI

lavoro cccp manifestoRiceviamo da Lamberto Lombardi

di Lamberto Lombardi CC del PCI

Trent’anni fa, poco prima del suo settantesimo compleanno, finiva il PCI, per scelta quasi unanime dei suoi dirigenti e con plauso unanime e spesso ironico dei suoi avversari. Fu seguito, in pochi anni, dalla scomparsa di tutti gli altri Partiti della Prima Repubblica. 


Trent’anni è un lasso di tempo ampio che ha consentito di sistemare, magari immeritatamente, i La Malfa, gli Zanone, i De Martino, Nenni, e perfino Andreotti, nell’indisturbato album dei ricordi, quello da riaprire solo nelle ricorrenze comandate. Non così è per il PCI.

Sorprendentemente gli sforzi imponenti di collocarlo su di un binario morto della Storia sembrano fallire ripetutamente e lo riscontriamo nell’opinionistica borghese, e non solo in quella espressasi intorno al centenario della sua nascita, lo ritroviamo in quel suo atteggiamento di attenzione non placata, tra il livoroso e lo sprezzante, ma anche in una sua curiosità mai attenuata, volta ad indagare una storia che in nessun modo si è riusciti a ridurre a inerte stereotipo.

Sarà per l’insostenibile leggerezza della politica italiana di oggi, sarà per la dimenticabile teoria dei suoi personaggi e delle sue vicende dimenticate in poche settimane, sarà per l’inveterata abitudine e necessità degli opinionisti nostrani a fare settimanalmente professione di anticomunismo, sarà per un oscuro e non confessabile rimorso, sarà che di quella storia siano in pochi ad averci davvero capito qualcosa, sarà, infine, che quel vuoto non è mai più stato davvero politicamente riempito, ma ci pare che attorno al PCI sia ancora in atto un’aspra battaglia nonostante nulla sembra esistere che la imponga all’ordine del giorno.

Comunque sia queste analisi, anche quelle intraprese da studiosi eminenti e seri, ci lasciano spesso una sensazione di incompiutezza. Comprese quelle portate da studiosi teoricamente ‘schierati’, quelli che una volta si sarebbe definiti ‘organici’. Principalmente perchè analizzare i travagli ed i passaggi politici di quel Partito solo attraverso le diverse posizioni assunte nel tempo dai suoi gruppi dirigenti e attraverso le svolte adottate ufficialmente, come essi fanno, è operazione sicuramente necessaria ma non sufficiente a darci l’idea di quale fosse nella realtà il significato di quella presenza politica ed il suo ruolo nella società italiana.

I filoni di analisi si sviluppano, generalmente, su due direttive, manco a dirlo, contrapposte e che attivano contrapposti spazi di polemica: quella volta a dimostrare la natura del PCI eversiva e incompatibile con la democrazia e l’altra volta a confermarne invece l’anima essenzialmente e/o perfidamente social-democratica. 

Del primo filone poco ci sentiamo di dire perchè più che al reale portato del PCI in Italia ha a che fare con la ossessiva reiterazione di una scomunica politica in riferimento alla sua appartenenza al campo del comunismo internazionale, quindi URSS, quindi, orrore, Stalin. E’ un filone utile, oggi come ieri, solo alle momentanee fasi della propaganda elettorale per poter additare questo o quello degli avversari ad una scomunica col linguaggio tipico dell’eversione nera.

Diverso è l’interesse nostro per il secondo approccio di studio, quello sulla vera o supposta natura socialdemocratica del PCI, che però attiva da subito diversi paradossi.

Il primo di questi è di riportare agli onori della cronaca una socialdemocrazia di cui si sono perse le tracce in Italia e in Europa da decenni, forse proprio in conseguenza di un tramonto politico, quello dell’opzione comunista, che a rigor di logica avrebbe dovuto spianarle la strada. 

Il secondo paradosso segue a ruota, quello rappresentato dal sostanziale, inglorioso e lungo declino, prima politico poi elettorale, di quel PDS, ma anche del PRC finalmente mondatosi dagli oscuri ceppi del centralismo democratico, che nascevano dalle ceneri del PCI per assumere finalmente quell’agognata ‘fisionomia’ democratica che avrebbe dovuto legittimarne il ruolo politico liberandolo dai veti atlantici. 

Quello verso la sponda cosiddetta democratica è stato dunque un passo falso; ma lo è stato perchè avvenuto troppo tardi (Canfora) o perchè, viceversa, non doveva essere compiuto?

Al più le risposte al quesito vengono ricercate nella approfondita e certosina disamina di tanti documenti congressuali, di tanti interventi dirigenziali e certo ci dice che alcune ‘mutazioni’ erano in corso da tempo in seno al gruppo dirigente, anche quello ampiamente inteso sino a comprendere le strutture territoriali, ma queste mutazioni però sembrano non avevano scalfito l’anima di quella parte della società italiana che era stata protagonista di una stagione politica che aveva illuminato lo scenario in Europa e nel mondo. 

Lo scarto tra la percezione derivata dallo studio del PCI per il tramite esclusivo della documentaristica politica e il reale vissuto e portato di quel popolo nel contesto complessivo del popolo italiano ci appare evidente se pensiamo a eventi come i funerali di Berlinguer e di Togliatti. Eventi che sono stati sostanzialmente derubricati dagli addetti quasi a evenienza folkloristica, evenienza non degna di analisi, non attinente alla dialettica interna al PCI, politicamente insignificante. Eppure sono fatti che non hanno eguali nella storia repubblicana o europea. Cosa avranno voluto significare? Accontentarsi della vulgata predominante che spiegava quelle partecipazioni oceaniche con il fatto che i due segretari venissero ritenuti ‘brave e stimate persone’ non fa onore alla nostra intelligenza ed è di fatto inutilizzabile. Così come considerarli l’epitaffio funebre per qualcosa di grande che scompariva.

Eppure solo Pier Paolo Pasolini si accorse, tra gli intellettuali, della profonda e umana politicità di quegli eventi esprimendo filmicamente quello che consideriamo un stupito e rispettoso interrogativo, tanto simile alla nostra vertigine nel vedere ancora quelle immagini che parlano di politica senza che noi si sia stati ancora in grado di decifrarla adeguatamente. (Uccellacci e uccellini)

La nascita del ‘Partito Nuovo’, quello che si chiamerà definitivamente PCI, prese le mosse dalla togliattiana svolta di Salerno nel’43, e la sua formulazione viene ritenuto il passaggio dal Partito rivoluzionario a quello ‘socialdemocratico’, tanto dagli esegeti del moderatismo ‘intrinseco’ in quel passaggio, quanto dai critici di tale supposta deriva. Eppure quel Partito era davvero profondamente cambiato già durante le prove degli anni della dittatura e della guerra, e l’apertura alla lotta nella democrazia comprendeva in sé anche una struttura militante che si era sviluppata e radicata sino a divenire formidabile elemento di rilievo militare e politico. Giudicare quel passaggio fondamentale senza tenere conto della struttura politica del partito che lo adottava, senza annoverare tra i protagonisti le decine di migliaia di quadri formati e disciplinati, limitandosi quindi alla cronaca documentale, questo è, a parer nostro, difetto imputabile ad entrambi i contrapposti filoni della critica ‘amica’. Difetto che pregiudica assai ogni successiva comprensione.

Perchè, ad esempio, è cosa diversa dire che si agisce in ambito democratico e invece dirlo potendo, e volendo, contare su di una struttura in grado di dare autonomamente conto dei risultati elettorali, sezione per sezione, in tempo reale, in concorrenza temporale con i dati trasmessi dal Viminale, in un periodo in cui certi fino in fondo non si poteva essere che tutto sarebbe filato liscio. Non si agiva solo nella democrazia, ma la si garantiva, a tutti.

Tale ruolo di garanzia non solo non è venuto meno negli anni, scontando magari la mutazione strutturale derivante dall’allontanarsi dell’esperienza bellica e dal relativo rinnovo dei quadri, ma è andato crescendo, soprattutto nella percezione delle classi lavoratrici. Sino a metà degli anni settanta continuarono ad aumentare le sezioni territoriali e di fabbrica e possiamo dire, con buona approssimazione, che ce ne fosse una in ogni paese o paesino della penisola.

Il rafforzamento costante di questa struttura e del suo ruolo garante per la vita sociale dei lavoratori ha costituitoin  l’elemento politico fondamentale di identificazione. Così come le svolte progressivamente adottate dai suoi dirigenti, il Partito Nuovo, l’amnistia per i fascisti, il compromesso storico, l’assunzione dell’orizzonte europeo, venivano magari aspramente discusse ma collettivamente assunte, o, per i critici, digerite, perchè quei dirigenti erano in grado di mostrarsi parte integrante di quella garanzia, perchè erano ‘organici’ alla classe operaia, chiarendo ad ogni passo la loro scelta di campo ed il loro ruolo. Perchè quei dirigenti erano, e mostravano di dover essere, innovatori, cosa ben diversa dall’essere liquidatori.

Non vi è passaggio, piccolo o grande, nella storia repubblicana sino alla Bolognina, dai referendum sulla legge truffa agli eccidi nelle manifestazioni, dai tanti tentativi di golpe alle feste di Partito, dai contratti nazionali ai referendum sul divorzio e sull’aborto, in cui non si sia dimostrata la capacità mobilitante di quel Partito Comunista, in cui non se ne sia accertato il rilievo politico, il peso determinante che diveniva tutela essenziale.

PCI voleva dire che quando era il momento “fiumane di lavoratori scendevano per le strade”.

Quella tutela aveva trasformato il vivere in fabbrica, il dibattito culturale, la vita sociale.

Tutto questo, e valga per ogni tenore di considerazione in merito, era qualcosa di infinitamente diverso ed infinitamente di più della ‘socialdemocrazia’. E’ una distinzione, ci sentiamo di affermare, che accomuna tutti i Paesi comunisti, paesi dove il Partito è riuscito a essere riconosciuto come garanzia e tutela contro le sempiterne angherie del padronato, altrove incontrastate.

Prova indiretta ne sia la stagione di ‘Mani Pulite’, stagione in cui di fronte allo scempio del Paese, scempio acclarato e perpetrato dalle forze moderate, le piazze e le strade sono restate per la prima volta in cinquant’anni desolantemente vuote. E sarebbero finalmente arrivati la Seconda Repubblica, il maggioritario, Maastricht a definire, quest’ultimo trattato, un orizzonte politico europeo assai distante e opposto da quello verso cui si mosse Berlinguer .

Non avere avuto la lungimiranza o l’umiltà di comprendere la natura e il rilievo di quel ruolo di garanzia ha trascinato interi gruppi dirigenti nell’insignificanza e nel ridicolo, della serie ‘ho avuto per vent’anni la tessera del Pci ma non sono mai stato comunista’. Come se si pensasse così di dare prova di profonda cultura democratica, mentre si dimostra solo di non aver capito nulla del PCI, della democrazia in Italia e di quella in generale. Costoro non avrebbero mai più tutelato nessun lavoratore.

Così come l’attribuire a quel Partito la cecità di ‘non aver fatto la rivoluzione quando poteva farla’ predisponendosi così, fatalmente, per accidia e tradimento, alla giusta ed inevitabile sconfitta ha avuto il significato indiretto di inserire milioni di lavoratori nella categoria dei babbei che si erano fatti abbindolare, ridicolizzandone il ruolo e l’intelligenza. Errore metodologico che un comunista non dovrebbe fare mai, non foss’altro che per un minimo rispetto per la ‘classe guida’, o magari perchè è comunque più indicato sbagliare con umiltà e in buona compagnia e, soprattutto, per non correre nel pericolo di essere conseguente e finire con lo sparare nella schiena, come accadde, ai suddetti babbei che magari gli avevano coperto le spalle sino a quel momento. Anche da questi nessuna tutela reale è mai giunta ai lavoratori.

Le coordinate di analisi che stiamo esprimendo, che individuano filoni opposti e convergenti di critica al PCI, ci sembrano essere state condivise, non nel merito ma negli obiettivi, soprattutto e non casualmente dalla destra nazionale e internazionale la quale dopo le sue magre figure sino al golpe Borghese, ha penato le proverbiali sette camicie non per ‘fare cambiare nome al PCI’, ma per fargli smantellare la sua organizzazione, per minarne la credibilità, per azzerarne tanto lo spazio di manovra quanto l’ascendente politico. L’operazione politico-militare che prese il nome di Strategia della Tensione ebbe successo e ne andrebbe studiata la strategia complessiva che, per inciso, portò Aldo Moro ad essere obiettivo tanto dello stragismo nero (Italicus) quanto delle Brigate Rosse. Unico esempio e non crediamo sia stato un caso.

Se parte della crisi in cui incorse il Pci potrebbe essere legata alla parabola discendente percorsa e fatta percorrere alla figura di Pietro Secchia al proprio interno, parte viene dalla mutazione in senso borghese di generazioni che ostentavano la non comprensione verso ‘i grigi funzionari di Partito’, disprezzo per l’ortodossia intesa come camicia di forza, il rifiuto verso la condizione operaia intesa come degradante. A ogni angolo di strada suonavano le sirene della liberazione individuale, magari espresse tramite l’amore per la ‘bella frase rivoluzionaria’ (Losurdo), dimentiche della grande contraddizione coloniale che ancora attanaglia il mondo e del concetto stesso di Partito. Di questo clima molti a sinistra furono compartecipi.

Se un vuoto esiste, e quello lasciato dal PCI è fragoroso, lo si potrà riempire ora che forse qualcosa in più abbiamo potuto capire, ora che le liberazioni individuali si sposano con la miseria collettiva e dimostrandosi pronti a onorare nella pratica certi esempi passati. Perchè l’impressione è che tra gli esegeti di Secchia ben pochi sarebbero da lui accolti nell’ambito di confronto fraterno.