Le sfide del VI Congresso del PdCI

Fosco Giannini intervista Oliviero Diliberto | nel numero in corso di distribuzione della rivista MarxVentuno

 

LA RIAPERTURA DI UN ORIZZONTE SOCIALISTA PASSA ANCHE – IN MODO DETERMINANTE – ATTRAVERSO LA RIMESSA IN CAMPO DEL SOGGETTO POLITICO E SOCIALE CHE PIÙ DI OGNI ALTRO VUOLE RIAPRIRE TALE ORIZZONTE: IL PARTITO COMUNISTA, UN PARTITO CON LEGAMI E LINEA DI MASSA

 

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F.G. Siamo di fronte ad una delle crisi più profonde della storia del capitalismo. Rispetto ad altre crisi rilevanti non si colgono, in questa fase, i segni di una risposta, in grado di riaprire i mercati interni e rilanciare offerta e domanda. Aumentano piuttosto, e su scala planetaria, i processi di spoliazione dei popoli, mentre prende sempre più consistenza il pericolo di una guerra su vasta scala (o la moltiplicazione di guerre “territoriali”) come uniche e storicamente non nuove risposte alla crisi di sistema. L’Italia non sfugge certo a tale tendenza di fase: l’attacco contro il lavoro, contro lo stato sociale, contro la democrazia, la stessa pulsione alla guerra e al riarmo segnano profondamente le politiche del governo Berlusconi, ampliando sempre più il disagio e la stessa “inquietudine” sociale. Siamo, cioè, di fronte a un livello così alto della crisi, che la risposta tattica e di fase – benché necessaria e imprescindibile – non può dividersi da un progetto, da un disegno strategico dei comunisti e della sinistra di classe e di alternativa. Concordi? Ed eventualmente: qual è la risposta tattica, di fase, del “qui e ora”, in Italia, delle forze comuniste e di sinistra? E qual è il progetto strategico che occorre definire in questa fase, a cui dare corpo, di fronte alla crisi del modello capitalistico?

 

O.D. – L’impressione è che siamo davvero, con ogni probabilità, di fronte alla più grave crisi nella storia del capitalismo, anche perché, rispetto alle altre crisi tradizionali, che erano sostanzialmente crisi di sovrapproduzione, qui siamo di fronte ad una crisi sistemica dal punto di vista del capitale finanziario. Il paradosso di fronte al quale siamo è che le grandi banche hanno creato artificialmente un mercato parallelo a quello tradizionale, che è il mercato dei cosiddetti titoli tossici, scambiandoseli tra loro e facendoli acquistare agli stati e ai privati cittadini. Questi titoli tossici non esigibili hanno creato la crisi del sistema bancario mondiale. Molti stati, tra cui l’Italia (anche se in misura minore), ma sicuramente gli Stati Uniti d’America, per salvare le banche dalla crisi che esse stesse avevano creato, hanno investito ingenti risorse pubbliche nel sistema bancario. Nel momento in cui questi soldi venivano investiti, da qualche altra parte andavano tolti e sono stati tolti: sono stati sottratti allo stato sociale che, come tutti sappiamo, è salario indiretto dei lavoratori, così come sono stati tolti al sistema pensionistico, che, come è altrettanto noto, è salario differito. Le misure che sono state prese, largamente imposte dalla BCE e dal FMI, dimostrano una cosa agghiacciante, di cui si parla secondo me poco, almeno non a sufficienza, rispetto al pericolo: il fatto è che il sistema economico capitalistico ha sostituito le democrazie rappresentative, anche le forme di democrazia borghese, e questo rappresenta un vulnus, una ferita gravissima a tutti i principi fondativi, da Montesquieu in avanti. Quindi, come vedi, non sto parlando di comunismo, ma del sistema liberale tradizionale, che è saltato. E questo in Italia ha un’accentuazione, perché il nostro sistema politico istituzionale è saltato ancor pri- ma della crisi economica. Molto schematicamente: il parlamento ha iniziato ad essere sotto attacco sin dai primi anni ‘90, perché non è vero che la crisi del sistema rappresentativo deriva dal porcellum. La crisi del sistema rappresentativo italiano e della centralità del parlamento nasce con la fine del sistema elettorale proporzionale. La teoria della centralità del parlamento si fonda sulla circostanza che esso rappresenta la società e la rappresenta nella misura in cui proporzionalmente tutte le forze politiche, sociali, culturali, le religioni, nella proporzione esatta in cui sono nella società, si riproducono nel parlamento. In questo modo esso è contemporaneamente luogo di mediazione politica, ma anche luogo di conflitto. Nel momento in cui si è passati al maggioritario, si è abbastanza rapida – mente tornati a un sistema notabilare. Non è vero che i collegi elettorali diano al popolo la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, perché il popolo viene messo di fronte alla scelta, operata da coalizioni, di personaggi anch’essi scelti dall’alto, inevitabilmente spesso lontani dal rappresentare gli interessi popolari. La crisi dei partiti di massa ha poi determinato una crisi ancora più grave, che è quella della costruzione dei gruppi dirigenti e delle rappresentanze istituzionali. Se ci facciamo caso – a me è capitato di fare questa indagine qualche anno addietro – la composizione sociale del parlamento è profondamente mutata rispetto agli anni della cosiddetta “prima repubblica”. Sono completamente spariti i lavoratori dipendenti, il lavoro salariato, perché, nel momento in cui bisogna fare uomo contro uomo, o donna contro donna, nella rappresentatività evocativa, non reale, chi viene scelto? Viene scelto il notaio, l’attore, il cantante, il professionista di grido, cioè persone che già fanno parte della classe dirigente, espungendo totalmente le persone “normali”, tanto più il lavoro dipendente salariato tradizionale. Quindi in Italia c’è un’aggravante pregressa. Col porcellum si è arrivati infine al parlamento dei nominati e quindi allo stravolgimento della democrazia. A questo bisogna aggiungere che il parlamento non svolge più una funzione legislativa tradizionale, che è stata sostituita dal governo. Il 97% dei provvedimenti approvati nei primi tre anni di questa legislatura sono di provenienza governativa, cioè non sono leggi che nascono in parlamento, in quello che dovrebbe essere il potere legislativo. Quindi l’esecutivo ha sostituito il legislativo. Il terzo potere dello stato, la magistratura, stando sempre alla visione tradizionale di Montesquieu, è sotto attacco continuo, sotto delegittimazione continua di uno dei medesimi poteri dello stato, cioè l’esecutivo. Tutto questo ha minato alla radice gli equilibri costituzionali costruiti faticosamente nei primi quarant’anni di vita repubblicana e l’impatto della crisi economica ha creato una miscela esplosiva di debolezza delle istituzioni e contemporaneamente di grave crisi economica. La debolezza delle istituzioni nasce anche da una sorta di cortocircuito con il sistema informativo in Italia. Mentre tutti i paesi del mondo, anche quelli governati dalla destra, si pongono il problema di quali misure adottare per uscire dalla crisi, il sistema informativo italiano nel suo complesso è passato da Noemi Letizia a Ruby rubacuori e alle intercettazioni odierne. Non è un giudizio moralistico, non me ne può importare di meno. Dico che mentre in Germania, amministrata dalla destra, con delle politiche economiche peraltro anche concertate con il sindacato, e anche con il sindacato di classe come la IG-Metall, sono usciti o stanno uscendo dalla crisi rafforzati, qui in Italia non c’è il barlume di una manovra in grado se non altro di salvare il salvabile. Faccio degli esempi. La manovra economica odierna è stata descritta dalla stessa Confindustria come depressiva. Lo è, ma è una depressione che colpisce innanzitutto le fasce deboli. E tutte le misure, a iniziare dall’aumento dell’IVA, sono devastanti, proprio perché da un lato impoveriscono e dall’altro, nell’impoverimento, indeboliscono la do manda interna: il risultato è la restrizione dei mercati interni, un disastro al quale si aggiunge – per il capitalismo italiano – l’estrema difficoltà nella competizione internazionale, in virtù della natura “nanocapitalistica” del capitalismo nostrano e per il fatto che esso non sceglie la strada dell’innovazione tecnologica e degli investimenti per la produzione d’avanguardia, ma solo la strada della ricerca del saggio di profitto attraverso un sempre maggiore sfruttamento sul lavoro. Sul fronte delle esportazioni, ad esempio, noi in Italia non abbiamo più un brevetto innovativo e dunque anche per questo non siamo competitivi sul fronte internazionale. In Germania la grande operazione che è stata fatta è un gigantesco investimento nel settore della cultura, della scuola, dell’università, perché è l’unico modo di essere competitivi a livello planetario. La risposta che c’è stata in Italia alla manovra economica – ripeto ingiusta e contemporaneamente inadeguata – è stata per fortuna quella della CGIL. Ma la CGIL non ha più una sponda politica. È dunque venuta meno l’opposizione sociale e politica. I continui appelli all’unità nazionale per varare rapidamente la manovra economica li ho trovati sconcertanti. Il nostro ruolo – per rispondere anche ad una delle due domande – secondo me ha, dovrebbe avere, diverse facce. La prima è un’opposizione sociale radicale. Uso volutamente questo termine, perché viene spesso abusato nei nostri confronti: “la sinistra radicale”. Noi non siamo “sinistra radicale”, noi siamo comunisti, è una cosa diversa. Ma la risposta di opposizione non può che essere radicale; intelligentemente, perché è ovvio che c’è un profilo di difesa delle istituzioni che va costruito in un sistema di alleanze con tutte le forze democratiche. Ma dobbiamo lavorare per essere all’altezza di questo compito, essere catalizzatori o comunque parte fondamentale del movimento di massa contro questa manovra, contro l’attacco governativo, padronale e dell’Unione europea. Secondo. Costruire intorno ai comunisti proprio quel punto di riferimento sociale, politico e istituzionale che è completamente mancato per la CGIL. La CGIL fa il suo mestiere, con alti e bassi, per carità, fa il sindacato, che è un’altra cosa, e quindi il sindacato deve anche trattare col governo, qualunque esso sia, come tratta coi padroni. Ma se il sindacato non ha in parlamento un punto di riferimento chiaro, che ne sostenga le lotte sul piano istituzionale, è destinato ad essere perdente nel medio periodo. E se non ha un punto di riferimento sociale, anche la sua battaglia nelle piazze è destinata a indebolirsi. Per cui costruire una sinistra che sia in grado di fornire una sponda politica e sociale al sindacato – in questo caso il sindacato CGIL ovviamente, visto che CISL e UIL hanno scelto una linea collaborativa con Berlusconi – è uno degli obiettivi di medio periodo che noi ci dobbiamo dare. Sulle questioni principali la Federazione della sinistra – cioè noi, Rifondazione e gli altri -, Sel, ma persino Di Pietro, che si è schierato con la FIOM contro Marchionne, possono essere un punto di riferimento più largo, e dunque più forte – perché i rapporti di forza contano, eccome! – per provare a costruire quel blocco di sponda verso la CGIL. Questo sistema di alleanze di sinistra poi deve dialogare con tutti, nel tentativo di sconfiggere la destra e riportare ad un equilibrio istituzionalmente accettabile questo nostro disgraziato paese. Senza pasticci! aggiungo io. Dentro il Pd c’è un dibattito, un dibattito vero, tra linee e anime diverse. C’è chi vuole un’alleanza con la parte conservatrice, cioè con l’UDC, che non è moderata, è conservatrice, e chi vuole l’alleanza a sinistra. Non possiamo essere inerti di fronte a questo dibattito; non possiamo rimanere indifferenti rispetto alla discussione che c’è dentro il Pd. Per costruire le condizioni per fare un accordo col Pd dobbiamo metterci del nostro, nel senso che, sapendo che non siamo in grado di avere un accordo su tutti i punti programmatici – ne cito uno, enorme: sulla guerra non potremmo essere d’accordo, com’è ovvio – tuttavia possiamo costruire un programma minimo su alcuni punti fondamentali, con cui fare un accordo alla luce del sole, di fronte agli elettori e alle elettrici. Ciò è indispensabile. Ci sono le condizioni perché – per lo meno con la segreteria Bersani, che ha un’impostazione diciamo di tipo socialdemocratico – si stringa un accordo sul tema delle condizioni materiali di vita dei lavoratori – penso al precariato -, sulla scuola pubblica, su una politica fiscale seria, equa, che faccia pagare le tasse agli evasori. Credo che questi due sistemi di alleanze, a sinistra e nel centro-sinistra, siano indispensabili anche per porre le basi per costruire un partito comunista. Dunque, per non eludere le tue domande: sul piano della fase contingente è del tutto evidente che il nostro compito è quello di essere protagonisti della lotta di liberazione contro questo marcio regime berlusconiano, che dopo vent’anni ha intossicato il Paese e ha corrotto una parte importante del senso comune di massa; si è ramificato come un tumore all’interno delle istituzioni e in ogni ganglio del complessivo sistema di potere italiano, prendendo pieno possesso – tra l’altro – del maggior terreno, oggi, dell’organizzazione del consenso di massa: i media. Di questo regime dobbiamo liberarci, riconsegnando un respiro al Paese e al nostro popolo. Il livello di corruzione e di avvelenamento dell’intero sistema democratico, sociale e istituzionale operato dal regime berlusconiano è probabilmente sottovalutato anche a sinistra. Essere protagonisti della lotta contro questa destra per molti versi inquietante è – per i comunisti – non solo cosa giusta in sé, ma – dialetticamente – essa è funzionale, decisiva, per l’accumulazione di forze comuniste, per la ricostruzione dei suoi legami di massa, per la riconquista di un ruolo nazionale, per la ricostruzione – dunque – dello stesso Partito comunista, obiettivo che è il cuore della nostra discussione congressuale. Ed è del tutto evidente che tra questo obiettivo di fase e la questione strategica che ponevi vi è un legame: la riproposizione, infatti, di un progetto di trasformazione sociale che getti le basi per la riapertura di un orizzonte socialista passa anche – in modo determinante – attraver- so la rimessa in campo del soggetto politico e sociale che più di ogni altro vuole riaprire tale orizzonte: il partito comunista, un partito con legami e linea di massa, obiettivi tutti da conquistare.

 

Tra il quattro e il cinque dello scorso agosto il presidente della Banca centrale europea Trichet, assieme al futuro presidente, Draghi, invia una “lettera di intenti” al governo italiano, imponendo, di fatto, quella politica, quella manovra di lacrime e sangue firmata poi dal ministro Tremonti. La “lettera d’intenti” si è rivelata in verità un vero e proprio diktat e l’azione della Bce un’azione sempre più chiaramente volta ad esautorare il governo e il Parlamento italiani. Stessa sorte, peraltro, è toccata a gran parte degli altri governi e stati europei. Mai come in questa fase – insomma – l’Unione europea ha dimostrato il proprio carattere di potere antipopolare e iperliberista sovranazionale, tendente a sovraordinare le politiche dei governi europei, a sovraordinare le scelte contingenti degli stati e a decidere il futuro dei popoli. Quale dev’essere, alla luce della dura realtà delle cose, la posizione dei comunisti rispetto a questa Unione europea?

 

È del tutto evidente che la scomparsa dell’Urss e l’unificazione della Germania hanno imposto un’accelerazione decisiva nel processo di integrazione europea e insieme a tale accelerazione hanno imposto una natura politica liberista e conservatrice alla Ue. L’asse francotedesco ha dettato i principi monetaristi della Bundesbank, poi tutti assunti nel Trattato di Maastricht. L’Unione europea che ne deriva si sposta sempre più a destra e offre al grande capitale gli strumenti per un attacco di vaste proporzioni contro l’intero mondo del lavoro europeo. Questa Ue che vuol pensarsi come un nuovo polo economico per la conquista dei mercati internazionali, crede di aver bisogno – per svolgere tale ruolo, per essere competitiva – di abbattere il costo delle merci attraverso la via iperliberista classica: abbattimento dei salari, dei diritti e dello stato sociale. Va notato come, a mano a mano che si acutizza la crisi capitalistica mondiale, l’Ue acceleri e acutizzi i propri processi e progetti liberisti: la Bce tende a costituirsi sempre più come potere sovranazionale in grado di sovraordinare le politiche e le scelte dei governi europei (è ciò che è accaduto al governo e al parlamento italiani, espropriati dalla lettera di Trichet e Draghi, della loro autonomia e dei loro poteri), sino al punto di dettare la qualità e l’entità di una manovra economica. Questa Ue distrugge il welfare che proprio in Europa si era storicamente costituito; individua nel lavoro il soggetto che massimamente deve sacrificarsi per far sì che essa possa presentarsi sul piano della concorrenza internazionale come un sog getto vincente. Non è questa la Ue che serve ai la voratori e ai popoli d’Europa. Contro questa Ue serve il massimo di mobilitazione e di lotta, che deve vedere i comunisti in prima fila.

 

L’Unione europea delinea e fa mettere in campo una politica di spoliazione dei popoli che produce le stesse sofferenze di massa da Atene a Lisbona, passando – per così dire – da Roma, Parigi e Londra. Siamo di fronte ad un attacco antipolare scientemente condotto dall’unità del capitale transnazionale europeo, che trova il proprio braccio politico ed economico nello spirito di Maastricht e nelle linee della Bce. Rispetto a ciò, non è forse ora che a questo disegno antipopolare di carattere unitario e sovranazionale, i popoli, il movimento operaio complessivo europeo rispondano con un lotta dallo stesso carattere sovranazionale? Non è ora che i comunisti e le forze della sinistra inizino a pensare a un progetto di lotta in grado di unire i lavoratori greci con quelli italiani, francesi, portoghesi? Non è ora che si apra una riflessione su una loro unità d’azione su scala continentale?

 

L’internazionalismo deve essere, come è sempre stato nella cultura e nella prassi dei comunisti, un nostro cardine. È del tutto evidente che siamo di fronte ad uno scarto vistoso tra i processi di unificazione transnazionale del capitale europeo, tra i suoi progetti di lotta su scala continentale e la capacità del movimento operaio dell’Ue di rispondere a tale livello. Il problema dell’unità del mondo del lavoro, delle sue lotte su scala europea, per rispondere in modo unitario e più incisivo agli attacchi della BCE e di Maatricht, si pone come uno dei problemi fondamentali per l’oggi e per il domani, e sempre più a mano a mano che si consoliderà l’Ue e rimarranno tali le sue politiche antisociali. Maggiore sarà la forza nazionale delle organizzazioni comuniste e di sinistra, maggiore sarà la loro possibilità di estendere, in modo unitario, la loro lotta su scala continentale. Anche per questo motivo, decisivo è il rilancio, la ricostruzione del Partito comunista in Italia. Questa Ue va profondamente, radicalmente cambiata e senza un lungo ciclo di lotte sociali non sarà possibile. Ed è chiaro che questa esigenza, questo progetto di lotta che parte dalle aree nazionali per estendersi in modo unitario sul più vasto terreno europeo, chiama in campo non solo i comunisti e la sinistra, ma lo stesso movimento sindacale. Anch’esso deve porsi il problema della Ue, della sua intera area, come nuovo terreno di lotta.

 

L’aggressione imperialista contro la Libia è stata condotta dalla Nato, dai paesi ad essa subordinati – compresa l’Italia – con una ferocia, con una platealità di intenti, con una determinazione che sembrano segnare persino una nuova fase dell’aggressività imperialista, nel senso che gli obiettivi reali non vengono più nemmeno mascherati o nascosti. Rispetto a tanta chiara determinazione della Nato, della Francia, dell’Inghilterra, degli Usa; rispetto ai massacri perpetrati a Tripoli e in tanta parte dei territori libici; rispetto al fatto che anche la stampa borghese italiana sempre più chiaramente ha parlato di “guerra per il petrolio”, non si è sollevato nel nostro Paese un minimo movimento di massa contro la guerra. Come spieghi questa drammatica carenza, questo silenzio? E cosa occorre fare per invertite la rotta?

 

Il poderoso tentativo di rimozione della categoria dell’imperialismo – portato avanti in tanta parte della sinistra italiana e che ha avuto come prodotto la dismissione di una prassi antimperialista – non aiuta certamente a decodificare la natura aggressiva, spoliatrice, delle guerre degli Usa, della NATO e dei paesi capitalisti. Il caso della guerra contro la Libia è significativo, persino paradigmatico: l’orrore di questa guerra, la determinazione e la ferocia neocolonialista del governo francese, inglese e dell’intera Alleanza non è stata colta e percepita. Ho sentito, anche a sinistra, ragionamenti fuorvianti, secondo i quali schierarsi contro la guerra avrebbe significato “essere dalla parte del dittatore Gheddafi”. È chiaro che questa argomentazione è il segnale probante di quanto il senso ultimo dell’attacco contro la Libia (la riconquista del petrolio) non sia stato compreso. È vero: vi è stato uno scarto drammatico tra la guerra e il fondamentale silenzio del movimento contro la guerra. E certo occorre mettere a fuoco anche le responsabilità, in questo, dei comunisti e delle forze di sinistra, non più in campo come un tempo. Non c’è dubbio, da questo punto di vista, che, anche in relazione al progetto di ricostruzione del Partito comunista, l’obiettivo di rimettere in campo un vasto movimento contro le guerre, contro le spese militari, contro la Nato, deve divenire uno dei nostri compiti prioritari.

 

A fine ottobre si svolgerà a Rimini il VI Congresso del PdCI, il Partito di cui sei il segretario. La parola d’ordine sarà “Ricostruire il partito comunista”. Cosa vuol dire, oggi, tale parola d’ordine? Attraverso quali percorsi pensi si debba giungere ad un obiettivo politicamente e socialmente ambizioso come questo? Quali sono i nodi politici centrali che occorre affrontare per dar vita al progetto? Quali nodi teorici vanno sciolti affinché “la ricostruzione” possa giungere a mettere in campo un partito comunista all’altezza dei compiti attuali e dell’attuale scontro di classe? Come accumulare le forze comuniste attorno alla parola d’ordine congressuale? Come convincere il PRC al progetto unitario? Come attrarre al progetto la diaspora comunista italiana, quella stessa che dopo lo scioglimento del PCI e il fallimento del progetto della “rifondazione comunista”, non trova più la propria organizzazione, il proprio partito comunista?

 

Noi siamo alla vigilia del congresso. La nostra linea è ormai nota. È la stessa da tre anni a questa parte. Grazie anche a questa linea il partito si è rafforzato, e tante compagne e tanti compagni sono tornati e sono venuti con noi. È la linea della ricostruzione di un unico partito comunista, diciamo il meno piccolo possibile, per non dire grande. È un’offerta che noi facciamo com’è ovvio innanzitutto al PRC, che va a congresso anch’esso. Quindi, quale occasione migliore se ci fosse una comune volontà? Ad oggi le risposte non sono state soddisfacenti. Siamo riusciti a costruire con molte contraddizioni un’alleanza federativa che si chiama Federazione della sinistra. Per noi è un passaggio, non è un punto di arrivo. Noi continuiamo a pensare che, pur con differenze di cultura politica, che ci sono, si possa stare tutti quanti dentro un unico partito comunista. Perché ricostruire il Partito comunista? Semplicemente perché quelli che ci sono non hanno ancora la forza sufficiente e perché è la stessa oggettività delle cose (l’attacco durissimo del capitale contro il mondo del lavoro e la democrazia, la crisi sistemica degli assetti capitalistici) a richiederlo. È la stessa solitudine dei lavoratori a richiederlo. Con quali passaggi si arriva ad un unico Partito comunista? Il primo, naturalmente, è che il PRC si convinca che non vi sono alternative all’unità. Ed è per questo che continua e si innalza – anche nel nostro Documento congressuale – la nostra offensiva unitaria. Ma l’unità si co – stru isce anche dal basso, nell’unità dei comunisti, nelle lotte, contro le guerre, a fianco dei lavoratori, contro la manovra economica. E si costruisce abbandonando le diffidenze reciproche, mettendo al primo posto l’esigenza di accumulare forze, a partire da quelle che abbiamo, per essere credibili nella lotta, per essere credibili agli occhi dei lavoratori. Ricostruire il partito comunista vuol dire anche ripensare ai tanti errori commessi, dall’una e dall’altra parte: i momenti di subordinazione istituzionale, le assenze nei movimenti di lotta, l’eclettismo culturale, il mancato radicamento nei luoghi di lavoro e nei territori. Vuol dire recuperare il meglio della cultura e della prassi del movimento comunista del ‘900 (le lotte di massa, lo spirito rivoluzionario, la capacità di esprimere una linea di massa ed un ruolo nazionale, il rapporto con i movimenti di lotta, il legame col movimento comunista e antimperialista mondiale, l’internazionalismo) e non ripetere gli errori (a cominciare dalla fascinazione di continue nuove vie, quasi sempre cavalli di troia per il superamento, in varie direzioni, dei partiti comunisti). Noi lo scriviamo chiaramente nel nostro Documento congressuale: “Siamo ancora qui perché abbiamo scelto l’unità come cifra della nostra resistenza e sconfitto liquidazionismi, settarismi ed estremismi. Abbiamo dimostrato che il nostro Partito non si può annettere o disgregare. Con questo Congresso scegliamo autonomamente di essere “su perabili” e, pertanto, ci mettiamo a disposizione della ricostruzione di un nuovo e più forte partito comunista, a partire dall’unificazione con il Partito della Rifondazione Comunista. E proponiamo alla Federazione della Sinistra di mettersi essa stessa a disposizione della costruzione di un più ampio processo unitario di tutta la sinistra. Perché, sconfitto Berlusconi, il modello Marchionne rimane. C’è bisogno dei comunisti e della sinistra per ridare centralità al lavoro, sconfiggere la precarietà e restituire valore a salari, stipendi e pensioni. E solo una sinistra unita sulle cose da fare potrà proporre con successo un modello di società più giusta e conseguire dei risultati concreti. È così, è molto chiaro e lo ripeto.