Ecco la Guantanamo italiana (per migranti). Lager modello: ferro, cemento e gabbie

Il muro di cinta è alto, grigio, lungo che sembra non dover mai finire. Sulla cima, fra le sbarre piegate a rostro si intravedono telecamere puntate sulla strada.
Statale 305. A poche centinaia di metri il comune di Gradisca d’Isonzo, una cittadina piccola, in provincia di Gorizia, quieta come i tanti paesi dell’isontino. Terra bella, di vitigni e di paesaggi dolci, terra di ricordi amari, di guerre e di odi, terra di caserme e campi di internamento che parevano destinati a sgretolarsi, nelle fondamenta e nella memoria. Non è accaduto con la caserma Ugo Polonio: seimila metri quadrati compresi in una serie di edifici a forma di una grande u.

Si apre il portone vigilato per 24 ore al giorno, di fronte un viale alberato, carrabile. Alte conifere definiscono un rettilineo deserto, le chiome si piegano e creano penombra anche in una giornata come questa, illuminata da un sole inaspettato.

“Girate a sinistra – ci indica orgoglioso uno degli ingegneri che hanno ristrutturato l’area – ora vi spiego tutto”. Scortati da agenti della polizia, da carabinieri, in un silenzio irreale e inquietante siamo nel ventre del nuovo mostro, il Cpt che sta per aprire i battenti. Tutto è pronto, anzi secondo il Prefetto Roberto de Lorenzo il centro è già aperto, ma è ancora fortunatamente vuoto se si eccettuano i lavoratori della cooperativa “la Minerva”, che ne ha preso la gestione. Facce sfuggenti di uomini che spazzano o che si aggirano nei gironi infernali a testa bassa, salutando di malavoglia o che siedono ai tavoli inchiodati al pavimento, su sedie anch’esse fissate, mangiando un panino sotto la luce gelida dei neon e nel bianco abbagliante e freddo delle pareti verniciate da poco. Sanno bene che sta entrando gente che di quel posto contesta l’esistenza.

“Come potete vedere ci sono spazi riservati agli ospiti, il 60%, alle forze dell’ordine e a al personale della cooperativa (complessivamente il 40%) – prosegue la nostra guida che parla come chi debba venderci un immobile – Alla vostra destra potete vedere i locali destinati agli agenti che accompagneranno gli immigrati e che magari si dovranno fermare qui per una notte per poi tornare con i furgoni vuoti”.

Casine basse, finestre, e poi un cancello automatico con grate strette, alto e con i soliti rostri. Siamo dentro e la presenza di inferriate pesanti e strette avvolge e toglie il respiro.

Il giro continua e mano a mano si precipita in un posto opprimente e claustrofobico, ci fanno vedere la sala colloqui, con il grosso bancone per separare i parenti dai reclusi, “il luogo di culto”, una sala spoglia e ancora da allestire, la biblioteca.

In teoria colloqui e spazi di socialità dovrebbero essere interdetti al personale di polizia: «Ma – ci spiegano – cercate di capirci. Se uno deve incontrare i parenti o l’avvocato deve essere portato da chi lo sorveglia e poi deve essere riportato nella sua stanza, è solo per questo che lo spazio è accessibile agli agenti, per il resto è tutto in mano all’ente gestore».

Da questi locali si accede a due viali, uno più lungo che poi piega verso destra, l’altro più breve e rettilineo. Il primo è destinato agli uomini, l’altro alle donne. «Sarà un centro che potrà ospitare 180 uomini e 60 donne – dice l’ingegnere – ma ci sarà spazio anche per nuclei familiari che in questa maniera non saranno separati». Attimo di sconcerto? Nuclei familiari? Ma quindi potranno stare qui dentro anche minori? Risposta imbarazzata. Si.

Fra i due viali una cabina di regia da cui si potrà gestire l’intero centro: un pulsante per spegnere e accendere le luci, un altro per le televisioni che sembrano abbondare come potente anestetico senza controindicazioni.

Percorro il vialetto destinato alle donne: da una parte e dall’altra, inferriate strette e cancelli pesanti che si chiudono con lucchetti, gabbie, gabbie da zoo, ma in cui è anche impossibile far passare le noccioline. Misureranno si e no 6 metri per cinque. Difficile anche vedere il cielo. A terra cemento e solo cemento. Gabbie comunicanti in un lungo corridoio interno che porta fino alla mensa, gabbie separate l’una dall’altra da cancelli che di notte verranno chiusi.

Una stanzetta con panchine disposte ad angolo con l’immancabile tv, la camera da letto vera e propria con sei posti letto, i materassi e i cuscini ancora incellofanati, mensole color avorio a rompere il bianco imperante e la luce al centro, fastidiosa anche di giorno. Ad un lato i bagni, privi di porte, le docce, i lavelli. C’è tutto ma tutto è fisso inchiodato alle pareti e ai pavimenti, sedie, letti, panchine, uno stato di deprivazione sensoriale che ricorda le carceri speciali di lontana memoria.

Restare nella gabbia per pochi minuti porta ad un senso di soffocamento, i parlamentari nazionali presenti, Russo Spena e De Zulueta, che i centri li conoscono bene, paiono attoniti, incapaci di spiegarsi in base a quale perversa mentalità sia stata progettata una struttura del genere. Identica la reazione degli altri accompagnatori, ci si guarda intorno con l’aria perplessa e inorridita, si toccano con le mani le sbarre di freddo acciaio, si chiudono gli occhi per immaginare quale possa essere la vita, o meglio la non vita, in un posto simile.

Nella brillantezza delle cose nuove è racchiuso il peggio di ogni istituzione totale: che sia carcere, manicomio o campo di concentramento, l’architettura parla e parla il linguaggio della negazione dei corpi e delle volontà, quello del dominio sul debole attraverso la creazione di una cattedrale della punizione. Neanche nel luogo deputato alla socialità per eccellenza, la mensa, si potrà respirare aria di normalità. Le sedie sono di un blu cupo, anch’esse imbullonate e così i tavoli, in alto l’onnipresente televisione e le ancora più pervasive telecamere.

Gli internati mangeranno cibi precotti, consegnati in vassoi simili a quelli da aeroplano, con posate rigorosamente di plastica. Tutto è pensato per evitare rumori, caos, ma è assurdo pensare che questo sia possibile. Basta immaginarla la struttura a regime: 240 agenti che a turno assicureranno la vigilanza, turni di 6 ore, 60 persone in azione. Un numero imprecisato di lavoratori della Minerva che a detta del suo presidente dovranno solo garantire assistenza, in realtà si ritroveranno a fare da secondini senza divisa. Difficile pensare che un gigantismo del genere possa funzionare, difficile non immaginare cosa accadrà quando le gabbie si chiuderanno, difficile credere che non saranno come al solito i poliziotti, con i loro metodi, a garantire la “calma”.

Non a caso sono gli stessi funzionari di polizia del Silp a chiedere di intervenire, di fermare l’apertura di questa nuova Guantanamo.

I tempi però stringono: Rifondazione e Verdi chiedono almeno una moratoria fino alle prossime elezioni politiche e alla formazione del nuovo governo, altri hanno lanciato una campagna informatica per chiedere alla Minerva di rinunciare al succulento appalto. Basta collegarsi al link
www.peacelink/appello_minerva.php e inviare un messaggio.

Usciamo con un nodo alla gola, un consigliere regionale in conferenza stampa sintetizza: «Meglio prendersi una denuncia oggi che portare domani il peso di aver condiviso crimini contro l’umanità».

Riappaiono nel buio le mura esterne del centro e viene da chiedere a quanti ancora, anche nel centro sinistra, continuano a parlare di necessità e di umanizzazione: entrate, guardate, sentite l’odore del chiuso e la paura del vivere in gabbia e spiegateci cosa di questo mostro potrà mai essere umanizzato?