Olivetti, Ivrea: c’era una volta il futuro. E il lavoro

Viaggio a Scarmagno, simbolo del suicidio industriale italiano/1

Informatica addio Del sogno del vecchio Adriano e dei 60 mila dipendenti resta ben poco: mille lavoratori, di cui la metà in cassa integrazione e qualche computer montato per conto terzi. E’ la storia della trasformazione del «capitalista funzionante» in finanziere e rentier. E del deserto del Canavese che ha rappresentato a lungo un’alternativa alla cultura industriale della Fiat

Pioviggina sul piazzale dello stabilimento di Scarmagno, un tempo fiore all’occhiello della Olivetti e luogo di culto dell’informatica italiana, quando il gruppo guidato da De Benedetti produceva il famoso computer M 24 e contendeva alla Ibm il primato sul mercato mondiale. L’impressione che provai allora fu forte. L’alto livello di automazione, la produzione organizzata a isole, i lavoratori in camice bianco che operavano con la precisione dei chirurghi: tutto l’ambiente aveva qualcosa di avveniristico che ti prendeva, e ti sentivi come proiettato nel futuro. Adesso si avverte un senso di spaesamento, e intorno un’atmosfera di declino se non proprio di abbandono. Sono passati 21 anni e questo è il futuro, oggi.

Schemi, modelli, persone

Il mio viaggio nel lavoro comincia da qui: dal nordovest industriale, scosso dalla crisi del suo modello che per oltre un secolo ha trainato il paese, e di cui la Fiat è l’esempio più noto e più emblematico ma certamente non unico. A dir la verità, i modelli e gli schemi m’interessano poco. L’intento è di lanciare una sonda dentro il paese reale, in quella parte della società profonda solitamente oscurata, spesso senza voce e senza rappresentanza, per cercare di portarne alla luce la condizione materiale, i pensieri e le parole, le aspirazioni e il disincanto. Insomma, per porre un problema.

Il mondo del lavoro, quest’enorme arcipelago sociale ignorato e talora vilipeso da una cultura d’impresa arrogante, nella realtà costituito da donne e uomini che continuano a portare sulle loro spalle l’Italia, si manifesta in una luce particolarmente cruda qui a Scarmagno. Ma, a ben vedere, Scarmagno non è altro che una metafora del capitalismo italiano all’epoca della globalizzazione.Con Federico Bellono, segretario della Fiom di Ivrea, e Lino Malerba, della Rsu Cms, m’inoltro nello stabilimento, ora frazionato e diviso tra le diverse società dello «spezzatino» ex Olivetti. Lo spettacolo è desolante. Gli uffici chiusi, le linee ferme, i locali della produzione computer irrimediabilmente vuoti: è il deserto dell’informatica italiana. Se già nel 1964, dando prova di una preveggente miopia, il presidente della Fiat Valletta parlava dell’informatica come di un «neo da estirpare», ora si può ben dire che la missione è stata compiuta, sebbene i mandanti e gli esecutori del crimine siano diversi.

La prima cosa che mi colpisce come un pugno allo stomaco, guardandomi intorno e discutendo con i lavoratori e tecnici che sono venuti a incontrarmi, è la svalorizzazione del lavoro, l’enorme dissipazione di abilità manuali, di competenze tecniche, di un ricco patrimonio culturale, che facevano della Olivetti un punto di eccellenza assoluto, riconosciuto nel mondo. Alla Olivetti sono nati i mainframes Elea e poi la «perottina», the first desk top computer of the world come dissero gli americani, e c’è chi ricorda l’operaio Natale Cappellaro, diventato ingegnere honoris causa per aver inventato la Divisumma.

Chi si assume la responsabilità per questo sperpero dissennato di ricchezza reale, di un patrimonio dell’intera società? Il paradosso è che mentre il paese avrebbe bisogno di un salto di qualità, qui ci sono ancora capacità, competenze, intelligenze che vengono disattivate ed espulse dalla logica inesorabile del capitale finanziario e da precise scelte «imprenditoriali». E non parliamo, per favore, di «capitale umano»: qui ci sono donne e uomini vivi, vulnerati nei loro diritti e nella loro dignità, senza retribuzione e senza lavoro per responsabilità del capitale che ha sprezzato le loro qualità e capacità professionali alla ricerca del business facile.

Quando la Olivetti occupava 60 mila dipendenti nel mondo, Scarmagno ne aveva 6 mila. Ora ne restano circa mille, di cui 500 in cassa integrazione a zero ore del ramo derivante da Olivetti Personal Computer, e altri 500 del ramo derivante da Olivetti Tecnost, che perlopiù si arrabattano nei sevizi Telecom 187 e nella riparazione dei telefonini. Come si vive in cassa integrazione con 800 euro? Chiara della Oliit, 40 anni, si occupava di marketing. Sposata con due figli e il marito che lavora nel settore della meccanica di precisione, anch’esso in difficoltà, ha tagliato su tutto: «Si spende solo per il mangiare e per il mutuo della casa, solo per la pura sopravvivenza». E la prospettiva è la disoccupazione senza ritorno, in un’area colpita anche dalla crisi dell’indotto Fiat: «Ho un’età che mi condiziona. Il mercato del lavoro non mi vuole più».

Tra gli operai della Cell-Tell, che riparano cellulari e sono inquadrati con il contratto originario dei metalmeccanici, prevale la frustrazione e l’insicurezza. «Avevamo professionalità e un contratto nazionale, e adesso ci hanno sbalzato qua dentro, in una condizione di sostanziale dequalificazione e precarietà, perché ciò che conta, secondo il credo dei nuovi proprietari, non è il contratto ma il mercato, cioè la richiesta del cliente. Del resto, i giovani inseriti in azienda tramite il `tirocinio formativo’ ricevono 400 euro, fanno il nostro stesso lavoro e sono non garantiti per legge. Noi ormai lo siamo di fatto». L’opinione di Raffaele e Claudio, rappresentanti Fiom, è netta. Come pure quella di Maria, dell’Innovis, esperta operaia che viene dalla Singer, e che al termine di un travagliato percorso professionale adesso è «stata venduta», come lei dice, a un’altra azienda Telecom. Lavoratori come merce senza qualità, come effetto collaterale del mercato, puri e semplici «esuberi» sbattuti qua e là secondo gli interessi dell’azionista di maggioranza e del manager che comanda e si arricchisce. La Telecom, che inizialmente aveva offerto 12.000 euro per ogni causa di lavoro, dopo la prima sentenza a suo favore – spiega Sergio D’Orsi- adesso ne offre 5.000, cioè un’elemosina.

Capitalismo mutante

Il disfacimento dell’informatica italiana come possibile asse di un nuovo sviluppo è l’effetto di una scelta consapevole rivelatasi strategicamente perdente; e della trasformazione del «capitalista funzionante» in finanziere e in rentier, che privilegiando la rendita e il corso di Borsa non innova e non investe nella produzione. Di cosa parliamo, se non di un vero e proprio fallimento di un ceto capitalistico dirigente, posto di fronte alle sfide del XXI secolo? Non hanno capito, allo stesso modo dei partiti di governo, il ruolo che l’informatica avrebbe svolto nell’economia, nella cultura, in tutta l’organizzazione della società.

Un altro dato di fatto, che a Scarmagno emerge con solare evidenza: mancata innovazione e assenza di una strategia industriale, come nel caso Fiat. Quando De Benedetti, alla metà degli anni Novanta, decise che l’informatica non era strategica e traslocò nella telefonia mobile, il destino della Olivetti era segnato. Subentrato Colaninno, la società fu trasformata in un contenitore finanziario, adatto alle magie della Borsa. E’ arrivato infine Tronchetti Provera che per accorciare la catena di controllo su Telecom ha semplicemente cancellato il marchio Olivetti dal registro delle società quotate. Per poi resuscitarlo con una dichiarazione di grande rilancio nell’high-tech, seguito dall’annuncio della delocalizzazione in Cina di una parte delle produzioni Tecnost.

Nel frattempo, sul versante dei personal computer abbiamo assistito a una serie infinita di passaggi di mano, di vendite e di acquisti, di scorpori e dimagrimenti. Alla creazione di innumerevoli sigle e scatole vuote, con l’intervento di avvocati e di manager presunti, di affaristi e di faccendieri veri che hanno fatto e disfatto fino all’esito attuale: la Oliit in stato di fallimento e la Cms (che ha una capacità produttiva di 1000 computer al giorno) ferma in amministrazione straordinaria.

Taiwan nel Canavese

Questa storia, nel racconto di Lino Malerba e di Sergio D’Orsi, sembra un financial thriller americano piuttosto che una vicenda reale, e bisognerebbe avere il tempo di raccontarla tutta per filo e per segno. C’è anche questo paradosso poco noto: che mentre dal Canavese si trasloca in Oriente alla caccia di manodopera a basso costo, la taiwanese Acer viene dall’Oriente a Scarmagno per produrre computer. Nel 2003 la Cms ne ha fabbricati 180.000 della linea Aspire, e avrebbe potuto continuare se i suoi presunti manager fossero stati in grado di garantire ciò che serve alla produzione. La presenza dell’Acer a Scarmagno dimostra comunque che il costo del lavoro non è il problema, e che qui la qualità del lavoro è tale da far gola a uno dei primi produttori mondiali. Non è proprio possibile rimettere in moto l’azienda, cercando e mobilitando risorse anche con l’intervento coordinato della regione e del governo? Ci vorrebbe una presenza della politica ma la politica è sorda e distante. E poi, l’informatica è una rogna: meglio dedicarsi, come dice qualcuno, alla costruzione dei campi da golf.

(1, continua)