La Cina nell’economia mondo (2)

2. Autarchia, autonomia, integrazione*

LA CINA NELL’ECONOMIA MONDO
Samir Amin

5.Dopo le riforme del 1980 `apertura’ e `mercato’ sono diventati due termini molto usati. Ma la questione dell’apertura, cioè della partecipazione di un paese (in questo caso la Cina) alla divisione internazionale del lavoro e a tutti gli altri aspetti della globalizzazione economica (il ricorso al capitale straniero, l’importazione di tecnologie, l’adesione alle istituzioni che gestiscono l’economia mondiale), ideologica e culturale, non può essere risolta solo ricorrendo alla semplice distinzione tra apertura e chiusura.
Il problema non riguarda neppure il `grado di apertura’ misurabile quantitativamente, ad esempio in termini di rapporto tra volume del commercio estero e Pil. Da questo punto di vista la partecipazione della Cina agli scambi mondiali era, fino al 1980, quasi insignificante. Ciò si spiega non solo con l’ostilità del resto del mondo – leggi embargo – ma anche con una scelta interna non priva di una sua coerenza. Infatti un certo ripiegamento su se stessi, nel momento in cui il paese si concentra completamente sulle imponenti (e positive) riforme politiche e sociali che la rivoluzione comporta, non è insensato, soprattutto quando si conoscono le difficoltà con le quali ci si deve misurare nei rapporti con un sistema mondiale che è stato – ed è – dominato dagli imperialisti e quindi ostile.
Bisogna però saper gestire queste relazioni e, allo stesso tempo, essere in grado di trarne profitto. Per accelerare lo sviluppo e per recuperare parte del tempo perduto bisogna utilizzare le tecnologie più avanzate (non si può certo reinventare la ruota!) e importare i beni strumentali corrispettivi, ma tutto ciò potrà essere pagato solo con delle esportazioni. In questa fase di sviluppo quello che si può offrire sul mercato mondiale sono prodotti che beneficiano del `vantaggio comparato’ del loro lavoro intensivo. In questo commercio ineguale si è sfruttati e questa situazione va accettata provvisoriamente in mancanza di valide alternative. Si tratta quindi di pianificare prima di tutto le importazioni minime essenziali in grado di massimizzare la crescita economica, poi di stabilire il tipo e il volume di esportazioni necessarie per coprire questi bisogni. Questo minimo di esportazioni necessarie – e non il massimo possibile – non è irrilevante, ed è aumentato molto rispetto al suo volume del 1980. La riforma cinese ha deciso di seguire questa strada e ha dato la priorità alle potenziali industrie esportatrici in grado di rispondere il più rapidamente possibile a tale necessità.
Ma la scelta diventa pericolosa quando il suo successo provoca un rovesciamento dell’ordine che comanda la logica della strategia dello sviluppo. Questa strategia, infatti, implica la subordinazione degli obiettivi quantitativi del commercio estero alle esigenze di sviluppo che assicurano all’interno il rafforzamento della solidarietà sociale e si impongono all’esterno con il massimo dell’autonomia. Il dogmatismo liberale propone invece l’esatto contrario, cioè il massimo inserimento in una divisione internazionale del lavoro fondata sulla priorità data all’espansione di quelle attività nelle quali il paese `beneficia’ del vantaggio comparato rappresentato dalla sua abbondante manodopera. La prima soluzione è quella che ho definito di `sconnessione’, cioè non l’autarchia ma il rifiuto della subordinazione alla logica dominante del sistema capitalistico mondiale; la seconda è quella dell’adattamento, in realtà sempre passivo (anche se definito `inserimento attivo’), alle esigenze di integrazione nel sistema mondiale.
La maggior parte degli economisti attuali ha proposto, e continua a proporre, la seconda soluzione. I suoi argomenti sono sempre gli stessi e non si differenziano da quelli proposti dai liberali cinesi (Justin Yifu Lin, Fang Cai, Zhou Li, Zhang Liqing e altri). Nessuno di questi argomenti ha una base scientifica, poiché tutti sono viziati da un errore di fondo (che i prezzi determinati sui mercati deregolamentati producono una crescita ottimale). Questa `teoria’ non è quindi nient’altro che una dichiarazione di principio, che ripete nelle sue conclusioni ciò che ha dichiarato nelle sue premesse. Il discorso sui vantaggi di tale scelta (lasciarsi guidare dagli indicatori del mercato mondiale) diventa rapidamente fine a se stesso e non affronta il vero problema. Si afferma che la globalizzazione nella quale ci si inserisce e che si contribuisce a produrre è un simbolo di pace. Tuttavia l’egemonia dei centri capitalistici che dominano il sistema, e in particolare quella degli Stati Uniti, sono in stretto rapporto con la logica dello sviluppo capitalistico mondiale polarizzato, al quale questa scelta è associata. Ci si trova quindi di fronte a un doppio vicolo cieco, sia sul contenuto sociale interno di classe dei rapporti economici dominanti sia sul carattere imperialista del sistema mondiale nel quale questi rapporti si inseriscono. Inoltre nulla nella storia del capitalismo conferma le conclusioni di questa `teoria’: la storia della globalizzazione capitalistica non è quella del successo delle politiche di `recupero’ fondate sull’aggiustamento del mercato e sui vantaggi comparati, bensì quella della polarizzazione centri imperialistici-periferie sfruttate prodotta da questa forma di inserimento.
Un ulteriore passo in direzione della dinamica liberale è proposto dai sostenitori della `liberalizzazione’ dei flussi di capitali (`l’apertura del conto capitale’ per riprendere il termine tecnico) e dell’abbandono della gestione pubblica del tasso di cambio. Anche in questo caso le teorie dei liberali cinesi (Xie Ping, Gao Hailong) non fanno altro che ripetere le dichiarazioni di principio del liberismo (la moneta è una merce come le altre; la massima deregolamentazione del mercato produce una soluzione ottimale per tutti, poiché gli interessi di tutti sono convergenti e non conflittuali). Questi discorsi – sostenuti dall’Fmi all’inizio degli anni Novanta in risposta alle esigenze del capitale finanziario globalizzato – hanno prodotto in breve tempo la cosiddetta crisi finanziaria del sud-est asiatico e della Corea nel 1997. Tuttavia questa crisi non ha spinto i liberali cinesi a rivedere le loro scelte fondamentali: si continua a dare la priorità alle industrie `export-oriented’, si riprende il discorso dell’Fmi attribuendo la crisi a cause secondarie (come gli eccessi dei sistemi bancari locali, ecc.) e si propone come rimedio la semplice riforma del sistema bancario (che si dovrebbe `risanare’).
Nonostante le loro debolezze intrinseche, le proposte neoliberali si basano soprattutto su due argomenti. Il primo è `l’esempio coreano’ e di Taiwan. Si tratta di due paesi che i cinesi conoscono bene e che sembrano bene avviati sulla strada dell’inserimento economico (al contrario di quello che accade nel resto del Sud-est asiatico). Entrambi i paesi hanno scelto una strategia di `apertura’ e hanno saputo progredire sulla strada della divisione internazionale del lavoro. Le ragioni particolari (comprese quelle geostrategiche) di questi `successi’ non possono essere approfondite in questa sede, così come non possiamo dilungarci sulla vulnerabilità dell’economia coreana, che la `crisi finanziaria’ ha reso sempre più dipendente dagli Stati Uniti. In ogni modo quello che è possibile in situazioni eccezionali (e peraltro dubito che siano tali) non può essere considerato una regola universalmente valida, soprattutto per un paese immenso ed eterogeneo come la Cina.
Prendiamo ad esempio la questione dell’adesione del governo cinese all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). L’applicazione delle regole imposte al commercio internazionale dal trattato costitutivo di questa istituzione provocherà un disastro dell’agricoltura cinese, obbligando la Cina a rinunciare a quell’autonomia alimentare che aveva conquistato a prezzo di tanti sforzi, causerà lo smantellamento delle sue industrie di base con il pretesto dei loro `costi esorbitanti’, obbligherà il paese a rinunciare a ogni prospettiva di affermazione sul piano tecnologico e così via. Probabilmente si ritiene che il paese riuscirà a evitare in un modo o nell’altro tali conseguenze. Ma finora non ho visto prove convincenti in questo senso. Del resto dopo Seattle, lo stesso Wto è in crisi. Ma allora perché precipitarsi ad aderire a un’istituzione che forse è morta ancor prima di nascere? Un paese come la Cina non disporrebbe di un margine di negoziazione considerevolmente più ampio se rimanesse fuori da questa istituzione? Tutti interrogativi che non sono stati chiariti o ai quali si è risposto con motivazioni semplicistiche, affermando ad esempio che il sistema di regolazione amministrativa del commercio estero non ha dato prova di efficienza (al contrario è uno strumento di corruzione) e non è sostenibile sul lungo periodo (Zhang Liqing). La forza di questi argomenti deriva in gran parte dal fatto che gli avversari del liberalismo non propongono una vera riforma della pianificazione del commercio estero, ma difendono i resti di un sistema ormai in sfacelo.
È lo stesso tipo di situazione che si osserva nel dibattito sulle scelte in materia di gestione del cambio. I difensori del passato propongono il mantenimento del cambio fisso gestito amministrativamente dalla Banca centrale. In tal modo facilitano tuttavia il compito dei liberali, che possono sviluppare le solite discussioni sui pregi e sui difetti `dell’ancoraggio’ (`pegging’) a una o a più valute di riferimento, sui meriti della `flessibilità’ assoluta (considerata giustamente irrealizzabile) e sulla necessità di un empirismo senza prospettive chiare (migliorare la flessibilità attraverso le politiche di regolamentazione e non con gli strumenti amministrativi, come se i principi ispiratori di queste politiche non dovessero essere chiaramente espressi e la loro applicazione non comportasse una definizione dei mezzi amministrativi!).
6.La riforma del sistema economico e sociale cinese, sebbene avanzata, è tutt’altro che terminata e lascia ancora aperta la scelta tra un’opzione capitalistica senza vincoli (o solo marginali) e un `socialismo di mercato’ considerato come una tappa nella lunga transizione verso il comunismo.
Per ora due gruppi di riforme istituzionali complementari ma altrettanto importanti sono stati già presi in considerazione. La prima serie di riforme riguarda il sistema bancario e mette fine alla confusione fra Tesoro pubblico e Banca unica, sostituita da una varietà di istituzioni finanziarie e bancarie specializzate. Il mercato, anche quello sottoposto al Piano, provoca un aumento dei mezzi monetari in circolazione molto più rapido di quello, di segno contrario, che caratterizzava il sistema di pianificazione centralizzata di tipo sovietico. Il rapporto moneta-Pil, che si aggirava intorno a 0,067 nel 1979, era passato a 0,186 nel 1993 e continua ad aumentare. La gestione razionale ed efficiente (liberale, diretta o controllata) di queste masse di capitali liquidi e semiliquidi comporta la creazione di istituzioni e di regolamentazioni, ancora inesistenti nel 1978.
Il secondo gruppo di riforme riguarda il regime fiscale. La riforma dell’economia ha comportato l’istituzione di un’imposta sui profitti dell’impresa a tassi uguali per tutti, settore pubblico e privato, in sostituzione del sistema dei prelevamenti e delle sovvenzioni decise unilateralmente dal Piano (peraltro non necessarie in un sistema di pianificazione centrale). In un paese-continente come la Cina le modalità della riforma fiscale sono strettamente collegate alla struttura politica dell’organizzazione dei poteri e alla loro divisione tra le autorità centrali e locali (provinciali, comunali e rurali). L’opzione scelta (Fan Gang) è quella di un sistema relativamente centralizzato, nel senso che le autorità locali non hanno diritto a mantenere un’economia locale in deficit e che il tipo di fiscalità che possono imporre è determinato dalle autorità centrali. Questa scelta mi sembra molto ragionevole. Tuttavia non risolve da sola il problema delle ineguaglianze regionali, al contrario vi si adatta e le riproduce. Così le entrate locali oscillano tra il 30% (per le regioni più povere) e il 120% (per le regioni più ricche) di contributi versati al bilancio dello Stato. Un sistema di pianificazione centrale potrebbe prevedere una redistribuzione (fondi di investimenti destinati alle province povere, ecc.) simile a quella sperimentata altrove (ad esempio in Italia, in Germania o su scala europea). Al contrario il discorso neoliberale `all’americana’, che critica le restrizioni alle libertà dei contribuenti locali imposte dalla legge nazionale, si inserisce in una strategia imperialista che mira a smembrare la Cina sotto la pressione degli interessi regionali.
In ogni caso il risultato delle politiche fiscali e finanziarie adottate dallo Stato non è negativo. La Cina ha evitato i deficit disastrosi ai quali la terapia d’urto ha sottoposto i paesi dell’est, l’inflazione a due cifre e l’indebitamento estero su vasta scala.
Per quanto riguarda invece il futuro del settore industriale di Stato, non si è ancora trovata una risposta soddisfacente al problema. La stessa riforma istituzionale, che ne costituisce la base, non è stata realizzata. Questa riforma, fondata sul principio della soppressione dell’identificazione Stato-imprese di Stato (la gestione del sistema `come impresa unica’), implica l’autonomia delle unità di produzione (non solo contabile ma anche decisionale, sebbene limitata dalla legge e corretta dal Piano), la divisione di alcuni gruppi industriali (ad esempio dipendenti da un solo ministero), il raggruppamento di altri per creare delle holding private. Le motivazioni antimonopolistiche avanzate dalla propaganda liberale contro quest’ultimo tipo di riorganizzazione sono, nella concretezza del caso cinese, del tutto assurde.
Al contrario queste riforme istituzionali generali, una volta stabilizzate, hanno il compito di restituire alla grande industria il ruolo di orientare e di accelerare lo sviluppo collettivo, di far saltare i colli di bottiglia, di promuovere l’innovazione tecnologica, cioè il compito di rispondere alle esigenze di una maggiore efficienza.
Non ci sono risposte astratte e generali a questi problemi. La condanna unilaterale della proprietà pubblica da parte della teoria neoliberale è solo propaganda senza alcun fondamento scientifico; si basa sull’idea – aprioristica e falsa – che il settore privato è naturalmente più `efficiente’. La proposta di trasformare le imprese di Stato in società per azioni (non importa se la quota di maggioranza sarà dello Stato o se il resto delle azioni sarà controllato dai lavoratori o da altri) non fornisce alcuna risposta ai problemi concreti, che possono essere di natura molto diversa. Questa proposta presuppone implicitamente che l’interesse degli azionisti (e quindi la logica del capitale) sia l’unico interesse degno di essere preso in considerazione.
Il settore statale soffre di un `malessere generalizzato’ solo se lo si considera in modo molto semplicistico. Da un punto di vista contabile lo Stato non è deficitario (Yifu Lin) e il disavanzo o le eccedenze hanno senso solo se messi in riferimento con la struttura dei costi in vigore, con la retribuzione del lavoro (salari inferiori rispetto ad alcuni settori privati in cambio di servizi sociali), con le condizioni di occupazione (assenza di precarietà) e di lavoro (disciplina rilassata), con i prestiti (tassi di interesse preferenziali) o con i fattori produttivi importati (tasso di cambio sotto o sopravvalutato). In molti casi i beni strumentali sono rappresentati da tecnologie superate; ciò non implica però che la soluzione migliore sia quella di chiudere queste fabbriche o di rinnovarle integralmente. Confondere efficienza e competitività, ridurre il primo concetto al secondo, non ha alcun valore scientifico di carattere generale ed è solo il prodotto dell’alienazione commerciale propria del capitalismo. Si dovrebbero quindi esaminare i problemi posti in questo settore concretamente, caso per caso, e risolverli partendo da queste soluzioni per arrivare a principi coerenti con le esigenze della fase di lunga transizione, nella quale il paese si è avviato dopo aver superato lo stadio dell’accumulazione estensiva e della pianificazione centralizzata. Probabilmente non si può dire di più su questo punto. In ogni caso i cinesi hanno ragione di non affrettarsi.
Del resto sono appena cominciati i dibattiti sul futuro del settore privato, sulla sua portata, sulla natura dell’eventuale controllo dell’espansione attraverso politiche macroeconomiche statali, sulle eventuali forme della pianificazione scelta e sul grado dell’apertura verso l’esterno.
Molto pragmaticamente le autorità cinesi si sono limitate ad ammettere che nel paese vi era posto per un’apertura all’iniziativa privata – un atteggiamento che appare sensato nell’attuale stadio di sviluppo del paese. Quello che si è avviato con questa apertura assume un carattere diverso e riveste un aspetto ideologico e sociale composito. Inoltre presenta rischi più o meno gravi a lungo termine, come ad esempio le incerte relazioni con i poteri dei notabili locali, i progetti del capitale dei cinesi all’estero (compresa Taiwan) il cui potere politico è finora limitato o le proposte del capitale estero sotto forma di joint-venture. Ma non c’è ancora una filosofia politico-economica che prenda in considerazione a più lungo termine i rapporti fra il potere, la nazione cinese, le classi popolari e gli interessi privati. Il dibattito in questo campo deve uscire gradualmente dai limiti del pragmatismo. La questione dell’organizzazione del potere politico dello Stato, dell’autonomia delle classi popolari, dell’istituzione di un contropotere non può essere separata da quella sull’organizzazione della vita economica.
Di recente il principio della proprietà privata è stato introdotto in un settore nuovo, dove ha ricevuto un’applicazione su vasta scala: quello degli alloggi. Finora integralmente gestito dai poteri pubblici (Stato, autorità locali, imprese pubbliche), il settore degli alloggi è ormai al centro di un importante mercato.
7.Il bilancio che possiamo fare delle riforme è ancora provvisorio: l’evoluzione è iniziata, ma non si è ancora conclusa.
Le riforme erano necessarie. D’altra parte la pianificazione centralizzata non rappresenta la forma realizzata del socialismo, ma solo la prima fase di un lungo processo di transizione. Una fase positiva e necessaria, che deve però essere superata una volta ottenuti i risultati che ci si aspettava. I difensori del maoismo non lo hanno capito (la stessa Rivoluzione culturale, all’avanguardia sotto molti punti di vista, non ha considerato utile rivedere le forme del modello di gestione centralizzata del Piano) e di conseguenza hanno fatto il gioco dei `riformatori’, per lo più confusi o semplicemente desiderosi di restaurare il capitalismo.
A mio parere si dovrebbero prendere le distanze sia dai detrattori sistematici delle riforme (He Quinglian), che partono dal presupposto di cancellare definitivamente il sistema cinese – in altre parole restaurare il capitalismo – sia dai suoi difensori di sinistra (Ajit Singh), che ritengono che la riforma abbia già creato quel famoso `socialismo di mercato’ che è lo slogan ufficiale del potere.
Non è certo necessario ricordare gli aspetti `positivi’ delle riforme realizzate, la sola accelerazione della crescita ne sintetizza bene i diversi aspetti. Inoltre questa crescita è stata sufficientemente controllata fino a oggi (e sottolineo questo limite temporale) per limitarne gli aspetti negativi.
Questi risultati sono stati ottenuti attraverso scelte pragmatiche, che hanno subito correzioni lungo la strada. Abbiamo quindi assistito a una successione di anni di `riscaldamento’ dell’economia, caratterizzati da un’espansione accelerata del settore commerciale, seguiti da momenti di `raffreddamento’ (ottenuti attraverso il rialzo dei tassi di interesse e l’aumento del prezzo dei fattori produttivi fondamentali – in primo luogo l’energia). Ma questo pragmatismo non può sostituirsi alla pianificazione o alla sua eventuale riforma. Inoltre moltiplica, anziché ridurre, le possibilità di `contrattazioni’ opache per la ricerca di posizioni di rendita, associate – in Cina come altrove – alla corruzione dei funzionari (Yifu Lin).
Si corre il rischio quindi di vedere il sistema evolvere progressivamente, attraverso questo pragmatismo senza principi, verso una forma pura e semplice di capitalismo. Di fatto questa possibilità rappresenta attualmente il pericolo più grave. Senza una reale organizzazione delle classi popolari, private dei mezzi per intraprendere le lotte necessarie a ogni progresso sociale, l’evoluzione in questa direzione è inevitabile. Le correnti liberali all’interno della Cina e le pressioni dall’esterno spingono decisamente su questa strada. In tal caso il concetto di `socialismo di mercato’ non avrebbe più senso e il sistema diventerebbe semplicemente capitalista, anche se la presenza di una proprietà pubblica (peraltro in declino) potrebbe far pensare a una fase di `capitalismo parzialmente di Stato’. Ma se la logica della pianificazione centralizzata era fondata su alcune distorsioni sistematiche (bassi tassi di interesse, sottovalutazione del cambio, bassi salari nominali, prezzi sovvenzionati per l’energia, per le materie prime e per i prodotti alimentari di base), l’adozione delle leggi di mercato (tassi di interesse reali positivi, deregolamentazione diffusa dei mercati e apertura di nuovi settori attraverso la commercializzazione delle terre, ecc.) non corregge queste distorsioni, anzi ne crea di nuove, negative. Infatti le nuove leggi di mercato non producono automaticamente `l’optimum’, come affermano i discorsi ufficiali dei liberali; al contrario, sono responsabili di inefficienze che sarebbero deleterie per la Cina e distruggerebbero ogni speranza di progresso sociale e di indipendenza nazionale (i due termini sono inseparabili). La `competitività’ acquisita in questo modo, attraverso settori isolati di economia moderna soffocati da un intero sistema in recessione (o tutt’al più stagnante) non è certo sinonimo di efficienza.
Del resto queste inefficienze sono già all’opera. Come ha fatto notare W. Hinton, una parte della crescita accelerata della produzione agricola è stata ottenuta senza tener conto delle esigenze di lungo periodo (che comportano una cura minuziosa del capitale fondiario) e attraverso interventi di mercato – sempre ispirati da una razionalità di breve periodo – che non permettono di migliorare la situazione.
La Cina aveva ottenuto buoni risultati negli indicatori sociali e umani dello sviluppo (i criteri del Pnud). Oggi sappiamo però che la `privatizzazione’ – o anche la sola `razionalizzazione commerciale’ – dei servizi sociali come la sanità o l’istruzione è sinonimo di degrado. La sanità privata costa negli Stati Uniti il doppio che in Europa e ha dato risultati deludenti (se misurati in termini di mortalità infantile o di speranza di vita). La solidarietà nazionale esige una scuola pubblica di qualità, che formi realmente i cittadini. La capacità di innovazione non è la conseguenza spontanea della `concorrenza’ sui mercati (che è al contrario la semplice utilizzatrice di quella capacità, di cui deforma gli usi e moltiplica le inefficienze), ma il prodotto dell’istruzione e del sostegno pubblico. Negli Stati Uniti invece questa capacità dipende completamente dalle spese militari, che non rispondono certo ai criteri del mercato.
Le tre prospettive di sviluppo della Cina all’alba del XXI secolo sono (Samir Amin, Le projet de la Chine post maoiste, 1996): 1) un progetto imperialista di smembramento del paese e di sfruttamento delle regioni costiere da parte del capitale straniero; 2) un piano di sviluppo capitalistico `nazionale’; 3) un progetto di sviluppo nazionale e popolare, che associ in modo complementare e conflittuale al tempo stesso le logiche capitalistiche di mercato e le logiche sociali inserite in una prospettiva socialista di lungo termine, di cui questo progetto rappresenterebbe la fase più immediata.
La scelta in favore di un mercato estremamente deregolamentato e di una grande apertura – cioè quella dei liberali cinesi e stranieri – fa gli interessi della strategia imperialista, accentuando la spoliticizzazione e l’opposizione delle classi popolari e aggravando la vulnerabilità dello Stato cinese nei confronti dei mercati esteri. Questa scelta non è portatrice di una qualche forma di democratizzazione, al contrario è l’affermazione autocratica del potere delle classi dirigenti, caratteristica del cosiddetto modello `asiatico’: si pensi al regime al potere a Singapore, al Kuo-min-tang e agli altri partiti – tutte oligarchie dello stesso genere.
Per quanto riguarda il secondo e il terzo modello, l’elemento che li differenzia va ricercato nel controllo delle relazioni estere e dei sistemi di redistribuzione in grado di mantenere un livello accettabile di solidarietà sociale e regionale. In realtà la differenza riguarda la natura e non il grado di applicazione dei mezzi politici statali utilizzati. È questo il punto centrale del dibattito. La scelta progressista deve infatti basarsi sulla priorità data all’espansione del mercato interno, sulla base di rapporti sociali regolati in modo da ridurre al minimo le ineguaglianze sociali e regionali e da limitare la dipendenza dei rapporti esterni alle esigenze di questa dinamica. L’altra scelta, quella di un `capitalismo nazionale’, considera invece l’inserimento crescente nel sistema capitalistico mondiale come il motore principale dello sviluppo economico. Essa è inevitabilmente associata all’aggravamento delle ineguaglianze regionali e, soprattutto, sociali. Anche in un lungo periodo è del tutto incredibile che una tale scelta possa via via accorciare la distanza rispetto al mondo capitalistico sviluppato per fare della Cina una nuova grande potenza o addirittura per concorrere all’egemonia mondiale. Il potere politico avrà difficoltà a mantenere la giusta rotta: cioè a non scivolare a destra (sottomissione al piano imperialista) o a sinistra (evoluzione verso il terzo modello).
Sono tra coloro che credono che l’unica scelta a disposizione dell’umanità si restringa ormai all’alternativa `socialismo o barbarie’, che il capitalismo non possa più offrire prospettive accettabili avendo esaurito il suo ruolo storico progressista e che il livello di sviluppo delle forze produttive possa portare al comunismo su scala mondiale, anche se per arrivarci ci vorrà del tempo. Non cercherò di fare previsioni sui tempi che ci separano da questo orizzonte, ma qualunque strategia politica ed economica umanista, che si tratti della Cina, del Burkina Faso o degli Stati Uniti, non può essere pensata al di fuori di una prospettiva di lungo periodo di socialismo mondiale. E per socialismo mi riferisco a una società in cui gli uomini, divenuti padroni (relativi) del loro destino, cioè liberi dall’alienazione economica propria del capitalismo, saranno in grado di innovare e di inventare forme adeguate di gestione sociale a tutti i livelli, integrando le dimensioni politiche ed economiche. L’idea di questa utopia creatrice sostituirà alla regola dominante del nostro sistema (il capitale impiega – cioè sfrutta – il lavoro alienato) il suo opposto (gli uomini – non più ridotti allo status di venditori di forza lavoro – utilizzano il capitale, concepito come un mezzo e non come fine a sé stante). In caso contrario l’accumulazione capitalistica affermerà sempre di più le sue dimensioni distruttive attraverso l’alienazione (e le barbarie che produce), la distruzione della natura e la polarizzazione (rendendo impossibile qualunque progetto nazionale di `recupero’).
Mi riferisco a questa prospettiva quando valuto l’eventuale capacità di un progetto di `socialismo di mercato’ nel costituire una fase positiva nel lungo processo di transizione a cui abbiamo accennato.
Il progetto `nazionale’ delle borghesie storiche – che si tratti di quelle che hanno effettivamente costruito le nazioni capitalistiche sviluppate della triade o di quelle che aspirano a `raggiungerle’ – è sempre stato concepito come un progetto autocentrico (anche se aggressivamente aperto verso l’esterno), fondato su alcuni grandi principi che hanno permesso il controllo combinato del mercato del lavoro (attraverso l’autonomia alimentare che favorisce la valorizzazione del capitale), delle risorse naturali, del mercato interno, dei settori competitivi del mercato mondiale, dei flussi di finanziamento (e della gestione monetaria) e dell’accesso alla tecnologia. Il controllo di questi elementi è stato reso possibile dai rapporti istituiti dal capitalismo storico nei paesi diventati i centri del sistema mondiale. Di conseguenza tale controllo non può più essere riprodotto allo stesso modo nelle periferie. La storia non permette di imitare, ma impone di combinare i mezzi di recupero relativi con lo sviluppo di logiche innovative. Non si tratta perciò di `fare la stessa cosa, ma più rapidamente’, bensì di `fare diversamente’, come diceva Mao.
In questa prospettiva la pianificazione centrale acquista un ruolo importante come espressione di quella forte regolamentazione dei mercati che richiede lo stadio in cui si trova la Cina all’inizio del XXI secolo. Questa pianificazione, che non rientra nell’elenco delle macropolitiche economiche borghesi convenzionali, è in grado di distinguere l’efficienza sociale e nazionale dalla semplice competitività, sa utilizzare vari mezzi tra cui la redistribuzione sociale dei redditi regionali e settoriali, gli strumenti di finanziamento e quelli di intervento, se non di controllo, delle relazioni con il mondo esterno.
Il problema non è il nome – che questa scelta si chiami `socialismo di mercato’ o in un altro modo non ha importanza. Tuttavia questa pianificazione centrale sarà efficace solo se si baserà realmente sulle aspirazioni delle classi popolari. Ciò implica quindi una vera e propria democratizzazione, l’affermazione del principio dell’autonomia organizzativa dei diversi segmenti costitutivi di queste classi (i sindacati operai, le cooperative rurali), il riconoscimento della possibile divergenza dei loro interessi e l’istituzionalizzazione politica della contrattazione collettiva per arrivare a un compromesso di base tra i partner. Tutto ciò va ben oltre la `democrazia a bassa intensità’ proposta dall’ideologia occidentale dominante (il pluripartitismo politico reso impotente dalla dittatura di mercato) o l’elogio delle libertà esercitate nel quadro della cosiddetta società civile, diventato di moda con i postmoderni e ripreso dai populisti del Terzo mondo e della Cina (Zhou Huayou, Liu Chenghui, Zhiqu Lin e altri). Questi aspetti essenziali, anche se poco visibili nel dibattito politico cinese, sono affrontati dai migliori eredi del maoismo (Lin Chun).

NOTE: Fonti bibliografiche
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