Baffi e la crisi di oggi

Kaiserstrasse, 10, Frankfurt. E’ questo l’indirizzo della Banca Centrale Europea, sede del vero governo comunitario, da cui si diramano le direttive per i 17 paesi dell’eurozona.
Mutuata dall’esperienza del dopoguerra della Bundesbank, la Bce ha come scopo statutario unicamente la stabilità dei prezzi, in altri termini la deflazione reale.
Del resto era questo lo scopo dell’asse franco-tedesco quando nel 1972, a seguito della svalutazione del dollaro e del conseguente distacco della divisa americana dall’oro, decisione presa da Nixon nella notte del 14 agosto del 1971, avviò il processo di unificazione monetaria con il Piano Werner.
Lo stesso “asse” franco-tedesco è comunque una boutade storica dacché tutte le decisioni successive al 1972 furono prese dalla Bundesbank, con i francesi illusi di imbrigliare la forza teutonica.
Non fu affatto entusiasta del Piano Werner e del successivo serpente monetario il futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale aveva due preoccupazioni: assorbire la disoccupazione giovanile degli anni settanta stimolando la crescita e sopire la ribellione di massa del proletariato italiano.
La deflazione monetaria insita nei piani egemonici tedeschi sarebbe stata, a detta di Baffi, deleteria per l’economia italiana per un motivo fondamentale. Da Palazzo Koch il governatore assisteva alla deflagrazione dell’apparato produttivo italiano con il progressivo smantellamento delle grandi imprese: il nano capitalismo, trionfante in quegli anni unicamente grazie alla svalutazione e all’evasione fiscale di milioni di “operatori economici”, non avrebbe resistito né alla rigidità monetaria della Bundesbank, né, tantomeno, alla solidità industriale tedesca, se non in una posizione subalterna, unicamente quale subfornitura.
Così fu. La “tempesta” del 1992 pose fine alla cinquantennale esperienza dell’economia mista, unico serio volano di crescita del dopoguerra, mentre l’adozione ultima della moneta unica del 1999 suonava come campane a morto per la subfornitura italiana, la cui implosione e’ puntualmente avvenuta dopo la crisi del 2007.
Oltre a ciò, a Paolo Baffi non sfuggì il vero motivo del Piano Werner, vale a dire la creazione di uno spazio monetario comune alternativo alla fluttuazioni del dollaro e soprattutto a guida tedesca, che ne avrebbe preso le redini prima in maniera informale poi sempre più sfacciata, come l’esperienza greca del 2010 ha avuto modo di dimostrare.
L’austromonetarismo dei tecnocrati della Bundesbank implicava un forte ridimensionamento della domanda interna europea con la deflazione salariale e una crescita basata sull’export: chi era capace, bene, gli altri sarebbero diventati contoterzisti dell’apparato industriale tedesco. La stessa deflagrazione delle nazioni dell’est – dalla Cecoslovacchia alla Jugoslavia – ristabiliva il disegno di uno “spazio vitale” dedito alla subfornitura, che rimpiazzava il pluridecennale contoterzismo italiano.
La mossa geniale di Baffi in contrasto con la deflazione monetaria tedesca fu data dall’aggancio – peg – al dollaro per tutti gli anni settanta, che garantì tassi di crescita sufficienti ad assorbire parte della disoccupazione giovanile, unita ad una ferrea disciplina finanziaria delle banche commerciali italiane, che avrebbe dato fastidio agli andreottiani e alla peggiore risma della “classe dirigente” degli ultimi trent’anni.
Questo per dire che la dirigenza cinese non ha fatto, da un punto di vista monetario, niente di nuovo, se non ripercorrere, a suo modo, le mosse di Baffi degli anni ’70.
Di nuovo c’è un dato, però, e per analizzarlo occorre dare un’occhiata al mondo post-2007.
I salvataggi delle istituzioni finanziarie dell’Occidente, uscite con le ossa rotta da quel che impropriamente ancora si definisce “crisi dei mutui subprime”, ha esacerbato la tendenza trentennale, da parte della dirigenza occidentale, di percorrere sentieri di “ asset inflation” con bolle di titoli,azioni, obbligazioni e “carta fittizia” tuttora in corso. Contraltare di tutto ciò è la deflazione salariale, sia per via diretta sia mediante la leva fiscale. In quei paesi occidentali dove per decenni si è usata la leva del plusvalore relativo, è il caso dei paesi forti dell’Ue e, in parte, degli Usa, si assiste da più di un ventennio ad un mix con plusvalore assoluto, con il secondo che soppianta il primo.
In paesi come il nostro, terra di subfornitori, è in voga da un quarantennio il più feroce, e antimoderno, plusvalore assoluto, vigendo quello relativo unicamente nelle imprese pubbliche, smantellate a partire dal 1992 con la regia di Draghi: la dirigenza italiana è convinta da anni che solo così si può contrastare l’assalto dei “paesi emergenti”, senza rendersi conto che buona parte dell’apparato produttivo italiano è diretto concorrente non già della parte più moderna, e consistente, delle produzioni di quei paesi, ma unicamente di quella più arretrata, prossima in questo decennio ad una sua significativa riduzione tramite investimenti diretti esteri nei paesi in via di sviluppo (vedi spostamenti di produzioni tradizionali verso Cambogia, Birmania, ecc.). Questo spiega da sé la miopia, se non l’idiozia, degli “industriali” italiani.
Ma cosa succede nel paese simbolo degli “emergenti”, la Cina? Qui si mutua Baffi sotto due aspetti.
Il primo è l’aggancio al dollaro, il secondo è anche qui una ferrea disciplina finanziaria delle banche commerciali ricapitalizzate nel 2007. Come si attua?
A partire dal 2008 la dirigenza cinese risponde alla reiterata, da parte occidentale, “asset inflation” con una ferrea disciplina monetaria, costituita non solo dall’aumento dei tassi di interesse, a cui si unisce il controllo del flussi in entrata dei capitali, ma da un’epocale sterilizzazione monetaria data dall’obbligo delle banche commerciali di quel paese a mettere a riserva obbligatoria il 21% degli attivi, un polmone finanziario pronto ad essere “diluito” non appena scoppierà il secondo tempo della crisi mondiale. Se pensiamo alla leva stratosferica delle banche tedesche, francesi e americane – in attesa di un nuovo Creditanstalt – ci si può rendere conto della portata di simile operazione.
Se poi si indaga sul “modo di produzione”, nel 2008 avviene un’altra svolta epocale: l’entrata in vigore della legge sul lavoro, i cui effetti sul lungo termine saranno ben più profondi della crisi mondiale. Con questa legge, che tutela alcuni diritti fondamentali dei lavoratori, la dirigenza cinese obbliga gli industriali, pubblici e privati, a passare dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo.
L’enorme impatto sul commercio mondiale è dato dal fatto che si sta parlando di almeno 400 milioni di salariati e di un paese che detiene circa ¼ della produzione industriale mondiale. La tenuta delle esportazioni cinesi in questi anni di crisi del commercio mondiale è dovuta in gran parte a questo “passaggio storico”, a fattori microeconomici quali la presenza di oligopoli e il notevole tasso di investimento sui fattori produttivi.
Oltre che all’adozione del plusvalore relativo, la dirigenza cinese risponde all’asset inflation con la reflazione salariale: il nuovo piano quinquennale si dà l’obiettivo del raddoppio dei salari entro cinque anni (si immagini la spettacolare avanzata della produttività totale dei fattori produttivi che permette tutto ciò) e l’adozione erga omnes dei servizi universali, dall’alloggio popolare all’assistenza, dalle pensioni alla sanità, con ricadute occupazionali dirompenti.
Baffi supera però i cinesi: accumulerà oro per un ventennio, nel mentre i secondi fanno ingenti scorte di dollari. Stupidi? Niente affatto: oltre che essere un’opzione militare, l’accumulo della divisa americana servirà nei prossimi anni a garantirsi la costruzione di filiere produttive complete, dalle materie prime, prezzate in dollari, alla distribuzione logistica e commerciale (integrazione verticale oligopolistica), un disegno troppo ambizioso per gli “industriali” italiani degli anni ‘70, dediti al contoterzismo, a causa del quale il governatore Baffi preferì l’oro.
Baffi aveva come obiettivo prioritario la crescita economica, al pari dei cinesi di oggi.
E’ difficile immaginare come si ritroverebbe in un paese dove una lettera, segreta, di due banchieri centrali porta una classe politica screditata a varare due manovre monstre che, sommate, portano alla cifra di 110 miliardi in tre anni con conseguente feroce recessione. A vedere un paese umiliato e commissariato, per la gioia di “intellettuali” borghesi italiani, dalla Germania, come se gli anni Trenta non avessero insegnato nulla.
Se fosse vivo bisognerebbe chiedergli cosa preferirebbe per la crescita: l’asset inflation statunitense, la deflazione salariale degli austromonetaristi di Kaiserstrasse o la sterilizzazione monetaria del governatore della People’s Bank of China, unita alla reflazione salariale e al passaggio al plusvalore relativo.
Forse sceglierebbe il paese che cresce, dunque la terza opzione.
Forse, come noi, direbbe che la prima e la seconda opzione sono simboli di un declino irreversibile.
Forse, come noi, rileggerebbe Karl Marx e Henryk Grossman per cercare di capire come si contrasta la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Forse, come noi, manderebbe a quel paese la dirigenza italiana, pubblica e privata, degli ultimi 35 anni. Che è quello che bisognerebbe fare.