Massacro di Ferragosto, pericolo del “governo tecnico” e ruolo dei comunisti e della sinistra

Siamo di fronte ad un massacro sociale e ad un saccheggio sull’intera ed ormai vastissima area del proletariato italiano – che si allarga giorno dopo giorno ben al di là della classe operaia, dei salariati e degli stipendiati – senza precedenti. In questi giorni di ferragosto si sta scatenando  il più selvaggio attacco della cavalleria governativa e padronale della storia della Repubblica. Dopo la manovra economica delineata nei primi giorni d’agosto; nel fluttuare della più grande crisi economica della storia degli Stati Uniti d’America; dopo la crisi della Borsa francese e sotto l’incalzare delle ormai  quotidiane richieste di nuovi sacrifici da imporre ai lavoratori e alle masse da parte della Banca centrale europea, il governo Berlusconi delinea – solo dieci giorni dopo la presentazione della prima correzione della manovra – delle misure aggiuntive volte a portare la manovra complessiva oltre i novanta miliardi di euro;  misure che, da sole, danno il segno che ogni confine antisociale è stato superato; che da ora in poi, in senso antipopolare, tutto sarà possibile, che ogni residua barriera potrà essere travolta. Le improvvise misure di ferragosto alzano innanzitutto e di nuovo la scure sui lavoratori del pubblico impiego: slittamento del Tfr di due anni e cancellazione della tredicesima per i dipendenti delle amministrazioni “non virtuose” (e nessuna lo è, dentro i tagli sociali). Un ulteriore giro di vite sugli insegnanti della scuola pubblica. Un aumento del livello di tassazione sugli stipendi. Un nuovo colpo alle pensioni (viene anticipato dal 2020 al 2015 il progressivo innalzamento a 65 anni – entro il 2027 – dell’età pensionabile delle donne nel settore privato). Un attacco contro il lavoro autonomo ( più alti livelli di tassazione) in una visione di classe per la quale si aggrediscono prima i lavoratori, poi i commercianti e gli artigiani, poi la piccolissima e piccola impresa, nell’ottica di salvaguardare e lasciar fuori dalla crisi il capitale e le fortune economiche. Come se non bastasse – in un’ottica delirante della concezione della produttività – vengono abolite alcune giornate festive, tra le quali il Primo Maggio e il 25 Aprile. Non a caso, le feste della Lavoro e della lotta di Liberazione.
Ma facciamo qualche passo indietro.
 
Giovedì 4 agosto è il giorno nerissimo di Piazza Affari e dell’intera economia italiana: meno 5,16 – ultimo e drammatico gradino delle Borse mondiali- e lo “spread” a quota 389. Tra giovedì 4 e venerdì 5 agosto parte la lettera “di inviti” al governo italiano firmata dal Presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet e del suo erede alla Bce Mario Draghi. A benedirla vi è, naturalmente, Josè Manuel Durao Barroso, Presidente della Commissione europea.
Gli “inviti” sono un eufemismo: in verità nella lettera si materializzano veri e propri diktat volti a dar forma alla macelleria sociale italiana. Il governo Berlusconi è commissariato dal potere liberista sovranazionale, il Parlamento italiano esautorato di ogni potere e svuotato di senso. L’analisi dei comunisti ( che dalla sinistra vaga, e persino da alcune stesse aree comuniste, viene osteggiata), l’analisi che da anni individua l’Unione europea come un polo imperialista in costruzione, dal carattere fortemente reazionario, antipopolare e antioperaio; un polo formato dall’unità del capitale transnazionale che nulla ha a che vedere con un’Europa dei popoli, prende spettacolarmente forma. E il fatto che il massiccio attacco antipopolare e contro l’intero mondo del lavoro – su scala europea – sia sovraordinato da un soggetto esterno ai governi e ai paesi dell’Ue, viene chiaramente e platealmente messo in luce.
Tra gli “inviti” di Trichet e Draghi spiccano – per accanimento liberista e determinazione imperialista – il tipo di misure antisociali da adottare, gli strumenti legislativi attraverso i quali il governo Berlusconi “deve” ratificarle e i tempi strettissimi entro i quali far partire l’attacco generale. La rapidità dei decreti per le liberalizzazioni e le privatizzazioni vengono identificati, conseguentemente, come gli  strumenti “ prioritari e necessari”. Ma è l’attacco al lavoro il vero cuore  nero della lettera di Trichet e Draghi sostenuta da Barroso: la Bce chiede, senza infingimenti, di allargare ben al di là degli attuali confini l’area dei licenziamenti rapidi per i contratti a tempo indeterminato; di alzare ancor più il machete sul pubblico impiego; un’ ulteriore espulsione dal mercato del lavoro dei giovani e dei precari e nuovi regolamenti liberisti sulla contrattazione aziendale, volti “ all’aumento della produttività”.
Ma da Berlino e  Parigi  provengono altri dettagliati e duri “inviti” : anticipare di un anno ( rispetto ai tempi stabiliti nella già durissima e antipopolare manovra economica Tremonti) il pareggio di bilancio e avviare da subito ulteriori tagli alla spesa sociale.
La miserrima genuflessione del governo Berlusconi a tali diktat avviene immediatamente: se la “ lettera di inviti” della Bce e della Commissione europea parte tra la sera di giovedì 4 agosto e il venerdì 5, già nella sera dello stesso venerdì Berlusconi, Tremonti e Letta, in una conferenza stampa di fronte ai giornalisti italiani, annunciano la resa completa.
Solo due giorni prima questi stessi tre “esponenti del governo” avevano presentato al Parlamento, tra l’euforia della maggioranza – tranquillizzata anche dal ritrovato accordo con la mina vagante Bossi –  una politica economica che spalmava l’attacco al welfare e al lavoro lungo quattro anni.
Nella conferenza della sera del venerdì 5 agosto – con la minacciosa  lettera della Bce in tasca – annunciano che la manovra (80 miliardi di euro letteralmente rubati dalle tasche dei lavoratori del pubblico impiego, degli operai, dei pensionati; tratti dai ticket ignobili sulla sanità pubblica, dall’ennesima stangata sulla scuola pubblica e sull’Università e la Ricerca, dalle pensioni di invalidità, dalla riduzione degli accompagnamenti degli invalidi, dalla reversibilità pensionistica, dalla riduzione secca dei sostegni nelle scuole e da altri, variegati ed immorali saccheggi) verrà anticipata al 2013. Tre anni – da qui ad allora – di “lacrime e sangue” per soddisfare gli odierni, e acutizzati, “dettami di Maastricht”.
Ma i camerieri italiani di Barroso, Trichet e Draghi – oltre ad accorciare i tempi, come richiesto, della manovra – accolgono anche l’invito a dar forma legislativa,costituzionale, al progetto iperliberista del potere sovranzionale dell’Unione europea. E ciò che spunta dalla conferenza di Berlusconi, Tremonti e Letta è una proposta inquietante, che tocca il cuore della Costituzione e della democrazia. I tre fanno capire ( dopo aver annunciato un rinnovato attacco all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori) che gli esponenti della maggioranza parlamentare proporranno alle Commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge volti ad una riforma costituzionale e capaci di inficiarne profondamente il carattere democratico e popolare portato dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione antifascista.
Si punta, cioè, alla modifica degli articoli  41 e  81.
L’articolo 41, che delimita e regola i poteri dell’impresa, è uno dei cardini della visione democratica generale della Costituzione repubblicana.
La modifica dell’articolo 41 evocata da Berlusconi stabilirà che i cittadini ( l’impresa) saranno liberi di praticare ogni tipo di iniziativa di carattere economico-commerciale non vietata dalle leggi. E ciò appare ovvio. Se non che la trappola iperliberista ( ispirata dalla Bce) è in coda, come il veleno. In coda si dice infatti che spetterà ai cittadini interessati autocertificare la liceità dell’ iniziativa intrapresa. Come dire che tutto è legale, anche l’illegale. Nell’ideologia da far west dell’Ue, fatta facilmente propria da un padrone totalmente irregolare come Berlusconi, sarà poi la pubblica amministrazione a controllare – “ex post” – se l’impresa messa in campo avrà i caratteri della liceità. In quest’ottica salta completamente il carattere democratico-borghese dell’articolo 41, della Costituzione italiana.
La modifica dell’articolo 81 è volta invece ad introdurre nella Costituzione il  pareggio di Bilancio come principio inderogabile. E’ l’ideologia antisociale e liberista dell’Ue che prende clamorosamente corpo, collocandosi prepotentemente – come un tumore antidemocratico – nel cuore stesso della regolamentazione democratica: la Costituzione repubblicana. Un solo e drammatico esempio: se il pareggio di Bilancio fosse introdotto nella Costituzione come principio inderogabile lo stesso debito della Sanità pubblica diverrebbe illegale, con conseguenze da tsunami sociale, considerando il fatto che milioni di cittadini, di lavoratori che versano mensilmente circa un quinto del loro salario o stipendio lordo per la Sanità pubblica, diverrebbero immediatamente cittadini “americani”, totalmente privi di assistenza sanitaria pubblica.

Vi è, di fronte a ciò, di fronte alla saldatura iperliberista  perfetta tra “poteri esterni” al governo italiano e governo Berlusconi un cuneo dell’opposizione volto a far saltare tale, reazionaria e antisociale, saldatura?
E’ questo, il problema centrale.
Tale cuneo non c’è, l’opposizione non solo latita ma, per molti versi, si candida essa stessa ad essere parte, materiale ferroso, della saldatura.
E’ come se il potere extraterritoriale unificato ( l’Ue, la Bce, poteri a cui si aggiunge il Fondo Monetario Internazionale) che ormai va completamente esautorando il governo e il Parlamento italiano, proiettasse una forma di sé – in Italia – attraverso la costituzione di un potere nazionale unico costituito da governo, opposizione, sindacati, banche e Confindustria. Un potere unico segnato – nell’essenza – dalla stessa subordinazione ai dettami dell’Ue e dalla stessa strategia liberista. Un potere gestionale unico che evoca, infatti, con sempre più forza un “governo tecnico” di transizione volto ad ereditare il dopo Berlusconi con le stesse politiche di Berlusconi.
 
Sta in questo disegno, non più tanto carsico, il “mistero” della profonda critica di Marchionne alla manovra economica Tremonti, critica dell’amministratore delegato Fiat che ha tanto e amaramente sorpreso Berlusconi. In verità, Marchionne è uno dei leader nazionali che ora sta conducendo più chiaramente il gioco del gattopardo: far fuori Berlusconi per riproporre un governo altrettanto liberista e volto alla difesa degli interessi capitalistici forti attraverso sia l’osservanza ai dettami dell’Ue e del Fondo monetario internazionale che alla distruzione del welfare, accompagnata dal congelamento e dalla compressione dei salari e dall’abbattimento dei diritti residui. Un nuovo governo più credibile, rispetto alla caduta verticale di credibilità – nazionale e internazionale – del governo Berlusconi, nel gestire da destra la fase e la crisi.
 
Come si comporta l’opposizione politica e sindacale in questa congiuntura?
Il PD non si smarca, sostanzialmente, dalla politica liberista imposta dall’esterno dall’Ue e non delinea, né rende popolare – come si dovrebbe, quantomeno, in una fase preelettorale – una politica economica alternativa che metta al centro le questioni sociali. Né, tanto meno, prefigura un’alternativa reale al berlusconismo. Ed è sulla scorta di questo suo pensiero debole, di questo moderatismo liberista che tentenna, chiedendo – con oscillazioni e rare eccezioni provenienti da alcuni suoi dirigenti – un governo tecnico, rinunciando così ad una campagna forte, di massa, volta alla caduta del governo in carica e alle elezioni anticipate. Di Pietro è addirittura patetico: svolta improvvisamente a destra ( recuperando la propria, profonda, natura), definisce la manovra economica “un ‘operazione di luci ed ombre” e si rifugia nel populismo della lotta contro “la casta” e per l’abolizione delle Province.
Ma è la CGIL a svolgere,oggi, il ruolo più sbagliato, quello che non vorremmo dall’ “ultimo baluardo” democratico e di massa.
La CGIL, in verità, invece di rispondere con forza, invece di disseminare nelle piazze e nel conflitto il senso di massa per l’alternativa; invece di opporsi alla macelleria sociale insita nelle manovre economiche e nei diktat del’Ue, sembra oggi proporsi come il cuore del “patto sociale” tra governo, Confindustria e banche. Partecipando così, oggettivamente e soggettivamente, al costituirsi sul campo del governo tecnico. Un governo che finirebbe il lavoro antisociale sporco, che ridarebbe fiato alle destre e allontanerebbe l’alternativa.
I fatti, purtroppo, parlano chiaro: la possibile accumulazione di forze che poteva darsi dopo lo sciopero del 6 maggio non è avvenuta, in virtù di un rinculo, di una rinuncia alla mobilitazione di massa rispetto alla manovra economica, terreno di lotta prioritario per un’organizzazione come quella guidata dalla Camusso.
La sottoscrizione dell’accordo del 28 giugno ( solo un mese e mezzo dopo lo sciopero) e i “6 punti” concordati il 4 agosto nel cosiddetto “ patto tra le forze sociali” danno la misura dell’entità dello smottamento della CGIL verso la conciliazione sociale, verso un accordo innaturale tra Confindustria, banche e sindacato. Un accordo, ancora una volta, come base materiale del governo tecnico. Un rinculo socialmente drammatico poiché materializzatosi nella fase più alta dell’attacco dell’Ue, del governo e della borghesia italiana alle condizioni di vita reali dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e dei pensionati.
Si è passati ( accordo del 28 giugno) dall’accettazione del disegno aziendalista volto alla destrutturazione del contratto nazionale di lavoro, al congelamento del conflitto e alla mortificazione del ruolo soggettivo del mondo del lavoro ( anche attraverso un ulteriore difficoltà alla proclamazione dello sciopero), ai 6 punti del 4 agosto, nei quali si assume, tra l’altro, “ la necessità di riforme strutturali capaci di incidere sulle tendenze di fondo della spesa pubblica per modernizzare il welfare”, cavallo di Troia per ulteriori tagli alla spesa sociale, in sintonia con lo spirito e la lettera della Bce.
 
Non è certo questo che si aspetta dalla sinistra, dalle opposizioni, dalle forze sindacali avanzate, il popolo che ha portato alle vittorie dei referendum e delle ultime amministrative.
 
Teoricamente, anche l’Ue chiede all’Italia rigore e crescita. Ma è del tutto evidente che la crescita ha bisogno come il pane di un potere d’acquisto, da parte delle larghe masse, più alto. Non sottosalarizzazione di massa, dunque, ma rilancio della questione salariale, difesa e rafforzamento delle pensioni e lotta alla precarizzazione. La crescita ha bisogno che il carico si sposti significativamente dalla spalle dei più deboli a quelle dei  più forti e ricchi: lotta all’evasione, tassazione del patrimonio e delle fortune, non attraverso misure estemporanee ( richieste persino da aree della borghesia non legata a Berlusconi, da Della Valle, ad esempio) ma attraverso un nuovo, adeguato e strutturato sistema fiscale che faccia pagare a tutti, per sempre, in base al reddito. E anche di un welfare più forte e universalizzato ha bisogno la crescita, poiché un welfare di questo tipo non solo produce lavoro e dunque domanda, ma cancella una tassazione indiretta ( quella proveniente dalla destrutturazione del welfare) che mortifica ancor più la spesa e il mercato. Oltreché, naturalmente, le condizioni di vita materiali delle masse.
 
Sinora, nell’area d’opposizione parlamentare, di tutto ciò non si parla e le forze sindacali, CGIL compresa, non spingono certo tale opposizione debole a cambiare registro.
Da questa debolezza prospettica prende corpo l’obbrobrio sociale del governo tecnico, pura emanazione nazionale del governo internazionale ( BCE- Ue e FMI) che ha commissariato l’Italia.
E’ in questa palude, dunque, che cresce il compito dei comunisti, della Federazione della Sinistra e della sinistra d’alternativa tutta. Un compito difficile ma ineludibile: quello di inserirsi – con le lotte e con una progettualità alternativa a quella delle opposizioni moderate e liberiste – nel quadro politico e sociale, con l’intento primario di far cadere il governo Berlusconi e conquistare le elezioni anticipate, per affondare l’ambiguità del governo tecnico spegnendo le peggiori pulsioni concertative del PD; per uscire dalla gabbia dei sacrifici a senso unico imposti dal commissariamento internazionale, lavorando al fine di trasformare il crescente disagio sociale e l’ancora insufficiente rabbia sociale in una, più diffusa possibile, coscienza di massa, entro la quale le richieste di tassazione sul capitale, di lotta contro le privatizzazioni, di ricostruzione del welfare, del rilancio della questione salariale, della cancellazione della Legge 30, di autonomia dall’Unione europea, dagli Usa e dalla Nato, di processi di risocializzazione delle grandi aziende pubbliche smembrate e svendute in questi anni al capitale privato, di processi di nazionalizzazione delle imprese e delle banche, vengano vissuti  come obiettivi storicamente necessari e verosimili.
 
Attraversiamo una delle crisi più profonde della storia del capitalismo e in questo contesto le ragioni del socialismo acquisiscono ancor più razionalità e senso storico. Viviamo una svolta di fase ( il pericolo default nordamericano e il severissimo monito cinese al governo degli Usa sulla questione del debito sono tra i segni più chiari del cambiamento dei rapporti di forza mondiali a sfavore dell’imperialismo) che evoca persino mutamenti di tipo storico. E dunque, ora più che mai, si avverte la necessità di riproporre – anche nelle cittadelle capitalistiche – l’obiettivo del rilancio di un’opzione conseguentemente antimperialista e anticapitalista, della ricostruzione – in Italia – dell’unità dei comunisti e del partito comunista, come soggetto in grado di unire la sinistra di classe e di alternativa e ricollocare al centro le questioni essenziali che l’egemonia della cultura dominante ha per lungo tempo sotterrato e, con il concorso di una “sinistra” sempre più debole e subordinata, reso concettualmente “inverosimili”, quando esse erano sempre più giuste e necessarie.
Tra tali questioni vi è quella dell’autonomia dalla Nato e dalle politiche di guerra e di riarmo imposte al nostro Paese dall’imperialismo Usa. E’ davvero tempo (se non ora quando?)  che i comunisti ( se non loro chi?) pongano a livello di massa e con determinazione la questione del ritiro dall’Afghanistan e della fine dell’aggressione neocolonialista contro  la Libia; è ora che si pongano il problema di come far divenire coscienza di massa la questione dell’immensa spesa militare che i governi italiani  si accollano per aderire alle richieste Usa.
Come è tempo che i comunisti (se non ora quando? Se non loro chi?)  inizino a porre con maggiore coraggio e chiarezza il problema dell’Unione europea, il problema di questo potere sovranazionale che ora, costretto a smascherasi dagli eventi, mostra tutto il suo organico carattere antisociale, il suo ruolo di nemico dichiarato degli interessi dei popoli e degli Stati europei.
E’ un destino ineluttabile questa Unione europea dal carattere sempre più golpista nei confronti dei governi europei? E la spoliazione, l’impoverimento di massa dei popoli d’Europa per mano della Bce, la trasformazione di tutti i governi europei in mortificati e subordinati “ governi Quisling”, è  forse l’ undicesimo comandamento?
Su di un quotidiano di grande tiratura nazionale, venerdì12 agosto, di un cittadino del mantovano viene pubblicata una lettera, che nella sua essenzialità e nella sua concreta densità rappresenta il vivere quotidiano delle persone in carne ed ossa. Scrive questo cittadino : “ La moneta unica ha ucciso il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, grazie alla complicità delle istituzioni. L’introduzione dell’euro in Italia ha permesso al nostro Paese di evitare la bancarotta, ma purtroppo non ha potuto evitarci di passare dei guai peggiori. Prima con 500 lire ( 0,258 euro) si poteva acquistare un quotidiano, oggi servono 1936,27 lire ( un euro). Un litro di latte fresco costava poco più di mille lire ( 0,516 euro), adesso 2904 lire ( 1,5 euro). Un monolocale di 70 metri quadrati si poteva acquistare nella periferia di Mantova, spendendo cento milioni di lire ( 51.645 euro), mentre oggi dobbiamo sborsare   271.077.88 lire ( 140 milioni di euro) ”.
 
 Dunque: l’appartenere – per un Paese ed un popolo costretti a pagare prezzi sociali altissimi – a questa Unione europea è un dogma religioso? O la storia, specie quella delle grandi sofferenze dei popoli, non deve essere considerata un destino e può essere invece modificata e governata ?
Per tutte queste ragioni, per mille ragioni, per l’oggettività delle cose, benché di nuovo vogliono dipingerli come uno spettro, anzi proprio per questo, è sempre più la loro ora: l’ora dei comunisti.