Debito: il convento è povero ma i frati (alcuni) sono ricchi

Il crollo delle Borse, nonostante il raggiungimento dell’accordo sull’innalzamento del tetto del debito Usa, si è incaricato di confermare quanto avevamo scritto nei giorni scorsi sulla “bancarotta tecnica”, che per molti sembrava fosse il vero pericolo per l’economia Usa e mondiale. Il vero problema è invece, come si è visto, la mancata crescita. Anzi, ormai, si sta diffondendo la percezione che l’economia mondiale è sull’orlo di quello che si chiama in gergo economico “double deep”, un secondo crollo recessivo. Di certo, per ora, siamo alla stagnazione in tutti o quasi i paesi del centro economico mondiale, dagli Usa, alla Ue, al Giappone. Eppure, erano tutti ottimisti, da Obama a Berlusconi, sulla conclusione della crisi. Però, la crisi iniziata nel 2007 non è una crisi congiunturale, né una crisi puramente finanziaria. In realtà, questa è una crisi che coinvolge in profondità il modo di produzione attuale, la divisione del lavoro e gli equilibri economici mondiali, i rapporti di lavoro e sindacali, addirittura le forme dello Stato “sociale” e della democrazia formale, per come le abbiamo conosciute dal secondo dopoguerra. Il debito pubblico è cresciuto prima come conseguenza dell’aumento del debito commerciale con l’estero dei Paesi “avanzati” e, in definitiva, come conseguenza del rallentamento della crescita e del saggio di profitto e, poi, come effetto del tentativo di puntellare un sistema finanziario messo al tappeto dalla girandola dell’economia a credito, portata all’estremo nel tentativo di alimentare artificialmente economie che non vanno. Dagli Usa al Regno Unito, al Giappone, all’Italia, alla Spagna, alla Francia, sebbene con accenti diversi da paese a paese su questo o quell’altro aspetto del debito, è l’indebitamento a farla da padrone. Il punto è che il titolo del debito è un pagherò fondato sulla previsione di ricavi futuri. Ebbene, i ricavi sperati non ci sono stati e, a quanto sembra, non ci saranno chissà per quanto tempo. Di conseguenza, la solvibilità degli stati è in forte dubbio. Per questo i rendimenti sui titoli di stato si impennano. Ma il bello (si fa per dire) della faccenda è che “il convento è povero ma i frati sono ricchi”. Se i singoli Stati-nazione sono alla frutta, i big aziendali, a partire dagli Usa, vanno benissimo. Mentre le prime pagine erano occupate da titoli delusi per il mancato impatto positivo dell’accordo spuntato da Obama, nelle pagine interne si trovava la notizia che le grandi aziende Usa hanno un liquidità 1.907 miliardi di dollari, una cifra che toglierebbe dalle pesti il bilancio pubblico annuale Usa, ma che si guardano bene dall’investire produttivamente. Ben il 73% delle prime 500 società quotate a Wall street è andato anche meglio di quanto gli analisti prevedevano (proprio come il Pil, vero?) ed i profitti aziendali hanno raggiunto il 13% del Pil, la quota più alta dal 1950. Altrove non è che vada in modo molto diverso, se pensiamo, ad esempio, agli alti profitti realizzati da molte grandi imprese italiane, a partire da Fiat, passata da 230 a 251 milioni di utile operativo tra primo trimestre 2010 e 2011. Sarà un caso che, mentre i grandi gruppi monopolisti (non le piccole aziende) prosperano, gli Stati affondano? No, perché i profitti sono stati realizzati grazie al dirottamento degli investimenti nei Paesi periferici, dove il costo del lavoro è ridicolo e gli stati finanziano chi investe, riducendo così la base produttiva e la creazione di ricchezza domestiche. I profitti sono cresciuti anche grazie alla riduzione delle tasse per le imprese e soprattutto grazie ai massicci tagli al personale e al salario diretto e indiretto, che negli ultimi anni si sono accentuati, “giustificati” dalla crisi, e, infine, grazie alle rendite di monopolio gentilmente concesse dallo Stato con le privatizzazioni (un esempio: i profitti di Autogrill in aumento del 66% nel primo semestre 2011). Ma l’aspetto più paradossale è che, dinanzi alle minacce della “speculazione internazionale”, si invochi l’unità nazionale. Come se le responsabilità e i vantaggi fossero stati di tutti. Una “union sacrée” magari declinata attraverso una riedizione dei disastrosi governi “istituzionali” o “tecnici” degli anni ’90, come il governo Amato, durante il quale il salario reale italiano cominciò a ridursi per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo, da parte della Confindustria ma con l’appoggio un po’ di tutti, si sbandierano come “impegni per la crescita” le stesse vecchie misure che o non hanno mai risolto nulla o la crescita hanno contribuito ad affossarla: la riduzione delle tasse per le aziende, l’aumento dell’Iva per i lavoratori, l’innalzamento dell’età di pensionamento, le privatizzazioni, l’innalzamento delle tasse universitarie. Senza contare, “fuori busta”, l’abolizione dei contratti collettivi nazionali. Come accade da venti anni a questa parte, invece di investire, innovare e ammodernare, si taglia il salario. La “crisi del debito”, così come la “crisi finanziaria”, è diventata la scusa per introdurre misure punitive verso i lavoratori, questa volta sotto il mantello del supremo interesse nazionale. L’unico interesse veramente nazionale è, invece, quello della maggioranza lavoratrice, che produce la ricchezza nazionale. Una sola cosa è certa: la soluzione di questa crisi non può che passare per la revisione profonda dei fondamentali su cui si è basata e si basa ancora la creazione e la distribuzione della ricchezza sociale.