L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e da lì dobbiamo ripartire

di Stefano Barbieri, Direzione nazionale PdCI

 

fiom protesta-w300Dall’atto del suo insediamento, avvenuto circa due mesi fa, ad oggi, il Governo Monti ha attuato una serie di politiche regressive, inique e antipopolari a partire dalla controriforma pesantissima del sistema pensionistico, la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa e l’aumento dell’Iva sui consumi.

Sembra ormai del tutto evidente che anche la cosiddetta “fase 2” del Governo manterrà lo stesso impianto di prospettiva che peserà sulla schiena dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani senza lavoro e dei pensionati. Gli stessi passaggi di liberalizzazione e di riforma del mercato del lavoro che, ciclicamente, ripartono da una discussione che mira a destrutturare i diritti conquistati con lo Statuto del Lavoratori a partire dall’Art.18, vanno nella direzione che già da tempo avevamo previsto.

Il Governo Monti appare, tra le altre cose, ostinatamente miope rispetto alle vere emergenze sociali ed economiche di questo Paese, prima fra tutte proprio l’emergenza del Lavoro e della ormai insostenibile crisi industriale dell’intero sistema.

L’industria italiana sta ormai precipitando nel baratro. Non c’è giorno in cui i media nazionali, le televisioni o i giornali locali non parlino di Aziende che chiudono, imprenditori che falliscono, licenziamenti in tronco e in dimensioni di massa.

La situazione non cambia dal nord al sud, anche se il meridione d’Italia paga, se possibile, un prezzo alla crisi ancor più alto.

A causa di ciò sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno come peraltro ben evidenziato dai dati della CGIL . Nessun settore sembra salvarsi. Sono in crisi l’auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent’anni fa) e l’aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l’Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). L’elenco potrebbe ancora allungarsi con i dati delle realtà dei piccoli centri di produzione situati nelle piccole città di periferia che spesso non salgono agli onori della cronaca nazionale .

Queste crisi, tutte, sono accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell’indotto e nei servizi, dato che l’industria rappresenta il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.

Di fronte a una simile realtà, e alla pesante responsabilità di quanto sta avvenendo che porta il governo precedente, sia per inettitudine che per accondiscendenza a politiche demagogiche e distruttive dell’intero settore che hanno portato l’Italia a non avere più una vera strategia di politica industriale, sarebbe stato necessario che il governo nuovo aprisse una seria e convinta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per costruire una strategia comune che fronteggiasse la crisi, rilanciasse rapidamente le industrie in difficoltà e sviluppasse nuove prospettive industriali che assorbissero almeno una parte dei disoccupati presenti e futuri. Invece niente di tutto questo è accaduto, anzi, quasi per paradosso, il governo apre un tavolo di discussione (peraltro “veloce” nei tempi e quasi già scontato nelle proposte) per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo ancora più flessibile e, conseguentemente secondo l’esecutivo dei professori, più competitivo.

A fronte di ciò, dopo una iniziale e ritrovata unità sindacale, utile perché comunque conquistata portando CISL e UIL su posizioni più avanzate, sembra di capire che, con la sola eccezione di una parte della CGIL, i sindacati, anziché riaffermare come prioritario il problema primo e vitale della creazione di lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d’ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere ad una famiglia allo sfascio di fare festa mentre si appresta ad avere lo sfratto dalla propria casa, il pignoramento dei mobili e il blocco dei conti correnti. Lo sfratto in questo caso si chiama recessione, con la prospettiva di milioni di disoccupati di lunga durata.

 

Di fronte ad una simile incomprensione della realtà non si sa che dire. Come non capire che, come dimostrato da quanto accaduto in questi anni e confermato da una risoluzione del Parlamento Europeo, varata dopo due anni e mezzo di studi e ricerche, non esiste alcun dato comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati e che, a causa della crisi economica in atto, tale affermazione è ancora più illusoria e disonesta? Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi. In molti casi, occorre dirlo, è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d’ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse. Davvero si può pensare che se gli si facilitasse i licenziamenti individuali queste imprese assumerebbero folle di lavoratori?

E che dire della Fiat, in costante calo di vendite malgrado l’applicazione dei contratti nefasti e fascisteggianti di Pomigliano, Mirafiori, Termini Imerese e Bertone che comprimono i diritti e i salari, cancellano le libertà sindacali, aumentano l’orario di lavoro e flessibilizzano all’estremo la contrattazione?

Risultano nuove assunzioni di massa o l’unica cosa che hanno generato è stato creare una “modello campione” da estendere al resto del comparto industriale e non solo nelle trattative per il rinnovo dei contratti?

Insomma in questi tempi di categorie messe sul banco degli accusati per la crisi del Paese, quella dei lavoratori continua ad avere un posto di rilievo, soprattutto quelli garantiti dallo Statuto dei lavoratori, che con le loro tutele “antistoriche” e i loro privilegi “insostenibili” imbriglierebbero il potenziale di sviluppo del nostro tessuto produttivo e costringerebbero le giovani generazioni ad un ruolo da paria nel mondo del lavoro. Sarà certamente perché i lavoratori tedeschi sono meno garantiti, meno sindacalizzati e guadagnano molto meno dei lavoratori italiani che nel 2011 la Germania ha registrato una crescita record in tempi di cattiva congiuntura dell’intero continente: +3% (con previsioni del +1% per il 2012, anno in cui noi saremo in recessione). E sarà certamente per questi motivi che mentre in Italia il tasso di disoccupazione continua a salire, in Germania nell’ultimo anno si è registrato il record degli occupati dai tempi della riunificazione: 41 milioni, il che significa una crescita di 535 unità – più 1,3% – rispetto al 2010.

Ovviamente non è così, come risulta evidente anche solo se ci si sofferma sul semplice dato del differenziale salariale: le retribuzioni nette mensili italiane nel settore privato sono inferiori di circa il 10% di quelle tedesche (del 20% di quelle britanniche e del 25% di quelle francesi). Si dirà: sì, ma la produttività in Italia è stagnante almeno dal 2000, mentre nel resto d’Europa è cresciuta, e in Germania ancora di più che nel resto d’Europa.

Benissimo: ma da cosa dipende l’incremento della produttività? Dipende dal tasso di “impegno” dei nostri lavoratori “mediterranei e lazzaroni”? Oppure dal contesto generale in cui prestano la propria opera, dalle innovazioni di processo e di prodotto promosse all’interno delle varie aziende, da un livello dimensionale in grado di favorire e sostenere quelle stesse innovazioni (con i relativi investimenti)? E la precarietà dilagante in un segmento sempre più ampio, specialmente giovanile, del nostro mercato del lavoro – una precarietà richiesta sempre a gran voce dai nostri capitani di impresa «per competere a livello internazionale» – ha contribuito a incrementare la produttività oppure a renderla stagnante?

 

Sono tutti quesiti che forse in questi tempi di “autocritica collettiva” del sistema Paese dovrebbero essere posti per non eludere una analisi seria – e impietosa, come richiesto dalla gravità della situazione – delle difficoltà in cui ci dibattiamo. Negli scorsi anni troppi nostri capitalisti hanno preferito vivere di rendita trovando rifugio in settori protetti (come le autostrade, l’energia, le telecomunicazioni) o puntando sulla semplice compressione dei costi (del lavoro in primis). In pochissimi hanno saputo raccogliere la sfida della qualità, della ricerca di produzioni a più alto valore aggiunto, dell’investimento nel capitale umano, di una gestione di impresa fondata sulla valorizzazione delle professionalità e non sulla riproduzione castale degli “status”.

Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile. Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell’area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l’attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tale e quale nella realtà. Le imprese che in questi anni hanno fatto ricorso a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all’andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.

Crediamo necessario ribadire un concetto in maniera chiara: la destrutturazione del mercato del lavoro non è fine a se stessa, ma è portatrice di un modello chiaro e nitido di società, sia esso proposto dai governi di destra che abbiamo conosciuto in Italia e in Europa, sia che a farlo sia un apparentemente presentabilissimo governo tecnico.

Un modello che va combattuto con un drastico ed alternativo pacchetto di proposte a partire dalla indisponibilità a manomettere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per aprire la strada ai licenziamenti senza giusta causa, dal superamento della precarietà e della riunificazione dei diritti nel lavoro, dalla considerazione che il lavoro dipendente deve essere a tempo pieno e indeterminato riconducendo il lavoro atipico a poche e limitate forme. Occorre affermare con il Ccnl la parità di retribuzione oraria e di diritti nei luoghi di lavoro a equiparazione di mansione per tutte le forme di lavoro, la redistribuzione del lavoro e la tutela dell’occupazione a partire dalle aziende in crisi con i contratti di solidarietà e a fronte di un maggiore utilizzo degli impianti e per i lavori più pesanti e affermare la riduzione degli orari di lavoro anche attraverso la sua incentivazione sul piano fiscale.

Occorre ribadire con forza che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e da lì dobbiamo ripartire.