DL 50/2017: un taglio dei salari poco visibile..

salario imprenditori lentedi Luca Scacchi, Cd CGIL
da sindacatounaltracosa.org

Pochi se ne sono accorti, quasi nessuno ne ha parlato. Con la manovra correttiva dello scorso aprile, il governo Gentiloni ha aperto la possibilità di tagliare i salari di più di 160 euro netti annui (quello che molti contratti hanno conquistato per l’anno in corso, in alcuni settori come i metalmeccanici persino di più). Un taglio che non colpisce indistintamente tutti i lavoratori e le lavoratrici, ma paradossalmente proprio quelli che potremmo definire “classe centrale”: quelli che lavorano nelle aziende più grandi, più sindacalizzate, dove c’è una contrattazione di secondo livello ed un’organizzazione del lavoro più sofisticata. In pratica, ci si propone di tagliare i salari dove il capitale investe di più e dove c’è una classe lavoratrice più organizzata. Lo si fa, però, con un meccanismo particolare che rende questo taglio poco percepibile, in primo luogo agli stessi lavoratori che lo subiscono. Vediamo come.

La manovra correttiva (decreto Legge n. 50/2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2017 ed entrato immediatamente in vigore), ripristina un sostegno pubblico a quella parte della retribuzione che è erogata nei contratti aziendali, correlata a incrementi di produttività. Dal 2007 (secondo governo Prodi, legge 247 del 2007 poi confermata dai successivi governi Berlusconi, Monti e Renzi in forme diverse), lo Stato ha introdotto degli sgravi per una parte dei premi di risultato aziendali (Pdr). Tali sgravi hanno avuto diverse forme, ma in genere prevedevano un’imposta agevolata (Irpef ridotta a carico del lavoratore) e decontribuzioni pensionistiche (riduzione dei contributi), sino ad un tetto massimo dei premi (dai 2mila ai 6mila euro a seconda degli anni) e solo per stipendi entro una certa soglia (dai 30 ai 50mila euro a seconda degli anni). Tale azione del governo, che ha investito allo scopo rilevanti risorse (per coprire le minori entrate fiscali e i contributi INPS, che erano comunque versati utilizzando fondi pubblici), aveva lo scopo di facilitare un aumento sia della produttività (stagnante a livello nazionale dai primi anni duemila) sia dello stipendio variabile (per modificare la contrattazione, accrescendo il peso del secondo livello).

Il governo Gentiloni, con il DL 50/2017, ha rinnovato questo intervento, introducendo però un cambiamento rilevante. La nuova norma prevede infatti, oltre alla conferma dello sgravio fiscale (imponibile IRPEF agevolata del 10%, sino ad un massimo di 3mila euro annui), una riduzione dell’aliquota contributiva INPS (20 punti percentuali a carico del datore di lavoro e totale a favore del lavoratore), sino ad un massimo imponibile di 800€. In genere, i contributi INPS (IVS Indennità, vecchiaia, superstiti) sono pari al 33% della retribuzione lorda, con una quota di 1/3 a carico del lavoratore (circa il 9,5% della retribuzione) ed una di 2/3 a carico dell’azienda (23,5% circa della retribuzione). In pratica, quindi, sui primi 800 euro del premio di risultato non solo si paga un IRPEF del 10% (invece che, in genere, del 27%), ma il lavoratore non versa per nulla i propri contributi pensionistici (vedendoseli, quindi, direttamente in stipendio) ed il padrone (il datore di lavoro) ne paga solo per il 3,5% circa (invece che il 23,5%). Come nota l’Ordine dei consulenti del lavoro, la differenza è sostanziale: “la precedente versione dello sgravio contributivo dei premi di produttività non comportava alcun decremento della posizione pensionistica del dipendente, che si vedeva comunque accreditare contribuzione piena anche sulle somme in seguito ‘decontribuite’. In un’ottica di bilanciamento della spesa pubblica, l’art. 55 specifica invece che, per i premi oggetto del beneficio contributivo dei lavoratori coinvolti pariteticamente, ‘è corrispondentemente ridotta l’aliquota contributiva di computo ai fini pensionistici’, con conseguente riduzione dell’accantonamento contributivo ad essi riferiti.”

“Con conseguente riduzione dell’accantonamento contributivo”: cioè, i contributi pensionistici semplicemente .. spariscono. Vediamo cosa vuole dire in termini concreti, secondo quanto calcolato dallo stesso Ordine dei Consulenti del lavoro:

accantonamentocontributivo

La tabella è molto chiara. Il singolo lavoratore ha la percezione che il suo premio di risultato aumenti, perché si troverà subito in tasca 720 euro invece che 651 e rotti (cioè vedrà “un aumento” di circa 70 euro). In realtà, però, se prima il suo stipendio complessivo era pari a 964,16 euro (stipendio netto + contributi INPS aziendali e individuali), dopo il DL 50/2017 è pari a 796,64 (stipendio netto + contributi INPS aziendali). Cioè, mentre l’azienda guadagna 160 euro (differenza del costo lavoro per azienda), il lavoratore perde ben 167,52 euro (differenza nello stipendio complessivo). Un taglio che dire significativo è dire poco.

Tale decontribuzione, come detto, non è generalizzata. Avviene solo in quelle aziende che prevedono “un coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro: cioè che abbiano un piano che preveda gruppi di lavoro finalizzati al miglioramento delle aree produttive (Agenzia Entrate n. 28/E/2016: “intervengano, operino ed esprimano opinioni che, in quello specifico contesto, siano considerate di pari livello, importanza e dignità di quelle espresse dai responsabili aziendali che vi partecipano con lo scopo di favorire un impegno “dal basso” che consenta di migliorare le prestazioni produttive e la qualità del prodotto e del lavoro”). Non lasciamoci ingannare dalle parole: “coinvolgere il lavoratore in modo attivo nei processi di innovazione” (e quindi ben oltre la semplice consultazione, l’addestramento o la formazione), non comporta comunque un organizzazione del lavoro meno dispotica o autoritaria. Non vuol dire minor sfruttamento della persone. La partecipazione attiva è limitata solo all’espressione delle proprie opinioni sui processi e la qualità della produzione. Serve solo ad un miglior sfruttamento dei lavoratori stessi. Ad esempio FCA-FIAT, da Pomigliano a Mirafiori, con il suo modello WCM rientra perfettamente in questi parametri!

In ogni caso, come ricorda l’Ordine dei consulenti del lavoro, lo scorso anno solo il 9,9% dei contratti (cioè solo 1351 accordi) aveva previsto le “formeparitetichedi engagement” sopra richiamate. Inoltre, si ricorda che: “Essenziale, per ottenere il beneficio premesso, è sempre un contratto collettivo aziendale o territoriale, stipulato da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle loro rappresentanze aziendali, che preveda premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione misurabili e verificabili e siano coinvolti pariteticamente i lavoratori. Per espressa previsione normativa la decontribuzione opererà solo su premi e somme erogate in esecuzione di contratti collettivi sottoscritti successivamente al 24 aprile 2017”.

Solo gli accordi aziendali che saranno sottoscritti da qui in poi potranno prevedere questo taglio del salario. Quindi questo taglio si può evitare, non prevedendolo negli accordi che si sottoscrivono. Ecco, allora cerchiamo di evitarlo!

In ogni caso, nonostante il suo limitato impatto applicativo, è interessante notare come per la prima volta sia passato (nel quasi totale silenzio della politica ed, ahimè, anche del sindacato) un provvedimento che prevede un taglio del salario, sic et simpliciter, attraverso la sostanziale cancellazione della sua componente indiretta (i contributi INPS). In questi mesi c’è un gran parlare di riduzione del “cuneo fiscale” (la differenza che i registra tra lo stipendio netto mensile ed il relativo costo complessivo del datore di lavoro). In questo cuneo, in realtà, di fiscale c’è poco o nulla: la differenza è infatti sostanzialmente data dall’IRPEF del lavoratore (circa il 27% della retribuzione, su cui però non si prevede nessun intervento) e soprattutto dal salario differito (appunto i contributi INPS, pari come detto al 33% della retribuzione, oltre che ad altre componenti come TFR e tredicesima, che pesano insieme per un ulteriore 15% circa).

Ci pare allora significativo e pericoloso questo provvedimento, in quanto introduce un metodo ed un obbiettivo: il taglio del salario globale, facendo risultare un piccolo aumento dello stipendio netto che in realtà nasconde una riduzione molto più grande di quello differito! Ancor più significativo, e grave, che sul fronte sindacale e del lavoro nulla si sia detto su questo decreto e sul suo significato. Speriamo allora che questo silenzio sia rotto al più presto!