Crisi sanitaria e crisi economica: il vero volto dell’occidente capitalistico

bandiera italiana con la copia della costituzione2Un interessante contributo di Bruno Steri

di Bruno Steri

Mentre scriviamo questo editoriale il nostro Paese sta vivendo una seconda pesante ondata pandemica, nel contesto di una più generale tragedia sanitaria che riguarda soprattutto la parte occidentale e capitalistica del pianeta. In Italia le cifre ufficiali dicono che un milione e mezzo di persone hanno contratto il coronavirus e che viaggiamo verso i 60 mila decessi. Nel mondo il totale dei contagiati ha raggiunto i 65 milioni a fronte di un milione e 500 mila morti, di cui un sesto (oltre 250 mila, secondo la Johns Hopkins University) solo negli Stati Uniti d’America. Si tratta di cifre allucinanti: mai avremmo immaginato di dover constatare un tale numero di morti in assenza di catastrofi belliche intercontinentali. Si può discutere sulla precisione dei dati, sul modello della loro raccolta e della loro composizione; non si può però arzigogolare sull’entità della tragedia. Chi la nega o minimizza, al netto di destrorse strumentalizzazioni politico-ideologiche, soffre in tutta evidenza di un preoccupante distacco dalla realtà (sulle cui cause molto avrebbero da dire l’analisi clinica individuale e, per altro verso, la psicologia delle masse). Chi peraltro la ritiene l’invenzione di un complotto planetario (non è chiaro se con Cina e Russia conniventi) finalizzato ad una “dittatura sanitaria”, non fa che resuscitare la meccanica identificazione di potere economico-politico e razionalità scientifica, scadendo in un pericoloso riduzionismo adialettico e irrazionalistico, lontano dall’approccio marxista. Ovviamente, una volta assicurata la tenuta di questi “fondamentali”, resta compito della sinistra di classe vigilare e denunciare possibili forzature autoritarie favorite dall’oggettivo “stato d’eccezione” e da un uso non equilibrato della comunicazione mediatica. 


Sin dal primo numero di Ragioni&Conflitti ci siamo diffusamente soffermati sulle gravi responsabilità del sistema capitalistico in generale e sui criminali orientamenti neoliberisti imposti dall’Europa di Maastricht: grazie ad essi in questi anni sono state strangolate spesa sociale e sanità pubblica, lasciando la convivenza civile totalmente esposta al dispiegarsi della pandemia. Per quel che riguarda specificamente l’Italia, anche oggi non può sfuggire quanto sia eclatante l’incapacità di approntare per tempo una strategia di difesa davanti al prevedibile ritorno dell’aggressività virale. Tra luglio e ottobre nulla è stato fatto di quel che si sarebbe dovuto fare, non potendosi neanche addurre a giustificazione l’effetto sorpresa che effettivamente ci fu a marzo. Negligenza, certo; ma soprattutto mancanza di pianificazione e privilegio concesso a impostazioni privatistiche e a interessi prevalentemente orientati al profitto privato. Gli stessi che hanno fortemente debilitato quello che a giusto titolo era ritenuto uno tra i migliori sistemi sanitari pubblici nel mondo. 

Ci avevano detto che sarebbe stato potenziato il sistema di tracciamento con cui individuare le catene di contagio, innanzitutto incrementando il numero dei “tracciatori”: “Il loro lavoro – spiega il professor Luigi Lopalco, epidemiologo di fama appena diventato assessore regionale alla salute in Puglia – è quello di tracciare i nuovi contagi. Ricostruiscono i contatti stretti di ogni positivo, dispongono gli isolamenti domiciliari e i tamponi, seguono ciascun paziente fino alla negativizzazione. (…) Anche qui è tutto saltato. Potremmo dire che il personale è il 50 per cento in meno di quello che dovrebbe” (La Repubblica, Speciale Il naufragio, 8 novembre 2020, p.25). L’estate è passata inutilmente, mentre si sarebbe dovuto correre ai ripari provvedendo a costruire un minimo di assistenza territoriale e domiciliare, da affiancare ai medici di famiglia. A tal scopo avrebbero dovuto essere operative le cosiddette Usca, unità per le cure domiciliari: “Squadre di due professionisti, medico e infermiere, che indossando le protezioni necessarie, vanno a casa dei malati Covid o dei casi sospetti per visitarli, somministrare terapie, fare il tampone e eventualmente disporre il ricovero in ospedale” (ibid.). Dovevano essere 1200; ne sono state attivate meno della metà. Stesso ritardo e stesso deficit per quel che concerne i cosiddetti Covid Hotel, strutture alberghiere dove avrebbero dovuto sistemarsi gli asintomatici e i positivi con pochi sintomi, così da evitare il soffocamento degli ospedali. Certo, qui è chiamata in causa anche la responsabilità delle regioni, sul cui bilancio la spesa sanitaria occupa un posto rilevantissimo; ma è evidente che un’emergenza come l’attuale non può non chiamare in causa soprattutto il governo nazionale. 

Come detto, il buco più grave riguarda il personale sanitario. Nel merito, il Ministero della Salute ha annunciato un paio di mesi fa l’assunzione a termine di 36mila operatori sanitari, tra cui 7650 medici. Sull’assunzione di questi ultimi così si è espresso Carlo Palermo, segretario dell’Anaao, il principale sindacato degli ospedalieri: “Bisogna considerare che 6.000 di quei colleghi hanno avuto contratti libero professionali che io definisco ‘usa e getta’. Del tipo: ti sfrutto durante l’emergenza e poi arrivederci e grazie. Non hanno previdenza, assicurazione, devono pagarsi la tutela legale (…). Qualcuno sicuramente ha smesso, magari si è trovato un posto migliore, cioè a tempo indeterminato, in una clinica. Comunque sia, anche se fossero tutti rimasti nel pubblico, non basterebbero”. Davanti a un simile resoconto c’è da restare attoniti: si sta parlando di un settore lavorativo la cui efficienza può significare per molti, in una fase critica come quella presente, la vita anziché la morte. Come non ricordare che, nello stesso momento in cui si riserva il suddetto trattamento a lavoratori, medici, operatori del settore sanitario, contestualmente le statistiche ci informano che i più ricchi detentori di ricchezza privata (il 10 per cento di essi detiene circa il 50 per cento del totale) hanno continuato ad aumentare in questo periodo il loro già pingue patrimonio. E’ il capitalismo bellezza! Un capitalismo clamorosamente ingiusto, oltre che ottuso e inefficiente. 

E’ incredibile che, stante la situazione appena descritta, ci si debba sorbire, provenienti dalla macchina mediatica, ricorrenti e ignobili sproloqui contro la Cina: la quale – si riconosce – non ha subìto la strage di innocenti che stiamo subendo noi, anzi ha tempestivamente contrastato il morbo; ma – così si aggiunge – solo perché è una dittatura (sic!). Eppure sarebbe semplice, ma anche assai pericoloso per la tenuta del ‘pensiero unico’, spiegare un simile epocale successo con il fatto che l’organizzazione socialista della società premia la lungimiranza e il bene pubblico a scapito della miope anarchia e del privilegio privato. E che quindi posti di lavoro, scuole e trasporti pubblici sono stati debitamente protetti, contrariamente a quanto accade da noi, dove ad esempio il presidente di Confindustria non ha cessato di spingere per un’apertura incondizionata delle aziende. 

Così come sarebbe utile dare a certe notizie il rilievo che meritano anziché nasconderle, come viene puntualmente fatto nel dare conto dei rapporti politici ed economici tra Italia e Cina. Nel merito, gli economisti hanno sottolineato per l’Italia nel terzo trimestre di quest’anno (luglio, agosto, settembre) una crescita dell’economia superiore alle previsioni (16,1%, 5 punti in più del previsto), espressasi in una ripresa della produzione industriale e una più contenuta diminuzione reale del Pil annuale. Tuttavia, su tv e giornali, in pochi hanno ricordato che a tale risultato ha contribuito in modo considerevole il salto in avanti delle esportazioni italiane in Cina (uno stupefacente +33% annuo, rilevato a settembre) nonché il nuovo flusso di investimenti e commesse provenienti sempre dal Paese asiatico. In proposito, ha opportunamente commentato Franco Bartolomei, coordinatore di Risorgimento socialista: “La stipula del Trattato bilaterale con la Cina Popolare, La Via della Seta, è stato nei fatti un atto economicamente e finanziariamente rilevantissimo, che ha messo con i piedi per terra un nuovo concreto assetto multipolare dei rapporti economici internazionali, rompendo la cappa esclusiva del sistema finanziario globale euroatlantico”. 

Purtroppo, come ha ripetutamente argomentato tra gli altri Manlio Dinucci, nonostante qualche strappo l’Italia è di fatto subordinata agli Usa: non è cioè minimamente intaccato quel Washington consensus di cui a quanto sembra l’attuale ministro della Difesa Lorenzo Guerini è per il nostro Paese garante (vedi: Lorenzo l’americano, ‘L’Espresso’ del 9 novembre 2020). Non è un caso che il 10 aprile scorso, Donald Trump abbia firmato un piano di aiuti finanziari all’Italia che l’ambasciatore Usa nel nostro Paese Lewis Eisenberg ha così definito: ”E’ il più grande aiuto finanziario che gli Stati Uniti abbiano mai dato a un Paese dell’Europa occidentale dal 1948, dai tempi del Piano Marshall”. A sostenere tale connubio vi sono interessi assai potenti: a cominciare dall’integrazione del nostro Paese (vedi Fincantieri e Leonardo) nel complesso militare industriale statunitense. E’ in tale contesto che il governo italiano ha assicurato l’appoggio all’EastMed, il corridoio energetico per il trasporto di gas naturale dal Mediterraneo orientale ai Paesi Ue, deciso l’anno scorso a Gerusalemme con un patto tra Israele, Grecia e Cipro, alla presenza del Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, dopo che nel 2014 era stata abbandonata per pressioni politiche atlantiche la realizzazione del SouthStream, gasdotto che avrebbe incentivato le esportazioni russe di gas in Italia e in Europa attraverso il mar Nero. 

Al netto di giudizi politico-ideologici, pur dirimenti, non riteniamo comunque indice di avvedutezza legarsi mani e piedi ai destini di un gigante statunitense in evidente crisi, rinunciando ad esempio a rendere più consistenti le quote del nostro export verso la Russia o evitando di valorizzare l’accordo con la Cina per la Via della Seta, proprio quando sembra che il pendolo della storia si stia inesorabilmente spostando da Occidente ad Oriente. Sono infatti le difficoltà degli Stati Uniti a spiegare la crociata contro la Cina. Già Obama aveva tentato una “strategia di contenimento” ad Est, promuovendo il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), ribattezzato da Hilary Clinton “la Nato economica”, e il Trans-Pacific Partnership (TPP), in chiara alternativa all’ “espansionismo” cinese. Il suo successore Donald Trump ha indurito il confronto, colpendo con tariffe nel 2018 i beni cinesi, per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari, e presentando a ripetizione ricorsi in sede WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio), peraltro tutti perdenti. La musica non è cambiata con Joe Biden, il quale nel corso della campagna presidenziale ha accusato Il suo rivale di essere “uno strumento di Pechino”, ritenendo “la minaccia cinese la principale priorità”.

Il fatto è che, ancor prima del disastro sanitario, sono i numeri dell’economia mondiale a certificare impietosamente la crisi capitalistica. Demostenes Floros, analista economico e geopolitico collaboratore del Centro Europa Ricerche (CER), mette in fila i dati della crisi del più grande Stato capitalistico e quelli – al contrario lusinghieri – della Cina socialista. In Cina c’è oggi il 28,5% della produzione manifatturiera mondiale (nel 1995 era il 5%), produzione che è scesa negli Usa dal 19 al 17,2%. Secondo le proiezioni globali del Fondo Monetario Internazionale (FMI), per il biennio 2020/21 la Cina contribuirà per il 51% alla crescita mondiale, gli Stati Uniti per il 3%. In particolare, evidente è la diversa capacità di ripresa economica davanti alla crisi pandemica: nel secondo trimestre del 2020 il Prodotto interno lordo (PIL) cinese era già del 3,2% sopra quello dell’anno precedente, mentre il PIL degli Stati Uniti scontava un – 9%; l’import della Cina risaliva a un -1% rispetto al 2019, quello Usa restava a -11%. In effetti, la pandemia ha esasperato quella che per gli Stati Uniti si presenta come la più grave crisi economica dopo quella del ’29: tenendo conto che per le statistiche Usa bastano poche ore di lavoro per risultare occupati, si contano comunque oggi 33 milioni e 500 mila nuovi disoccupati (14,7%). Il debito pubblico nel 2019 ha superato l’astronomica cifra di 21 trilioni (21 mila miliardi) di dollari; il rapporto tra deficit pubblico e Pil è al 18% (ben al di sopra del limite previsto ad esempio dalla Ue, che è del 3%). Una consistente quota del suddetto debito è detenuta proprio dalla Cina, la quale tuttavia si guarda bene dal cedere i relativi titoli onde evitare un crollo del dollaro, che la penalizzerebbe in quanto creditrice: la Cina preferisce mantenere questa sua posizione di grande creditore per esercitare pressione politica e per arrivare gradualmente ad affiancare lo yuan al dollaro quale valuta internazionale di riserva.

Il 15 novembre scorso un importante evento ha sancito questa progressiva trasmigrazione dell’egemonia economica mondiale da Occidente ad Oriente: dopo otto anni di trattative, in Vietnam è stato firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership, un imponente accordo di libero scambio sottoscritto da 15 Paesi asiatici, che insieme costituiscono un terzo della popolazione e del Pil mondiali. Si tratta di un passaggio storico che riconfigura il commercio mondiale e le sue rotte internazionali, depotenziando la globalizzazione neoliberista a guida Usa. La Cina è saldamente al centro di tale processo e, in accordo con partner asiatici non certo socialisti come il Giappone e la Corea del Sud, si appresta a dettare l’agenda per il dopo pandemia. Rispetto a tutto ciò, la classe politica che dirige il nostro Paese continua a galleggiare nella mediocrità: così come non ce la fa a promulgare almeno una patrimoniale sulle grandi ricchezze per finanziare un’efficace strategia anti-pandemia, allo stesso modo non ce la fa a prendere atto del fallimento capitalistico e dei nuovi possibili assetti del mondo post-pandemia. Anche in Italia, c’è urgenza di una forte presenza comunista.