Democrazia e socialismo

Caro direttore,
purtroppo il sopravvenire di due problemi privati, non gravi ma ineludibili, mi impedisce di essere presente al vostro seminario.
Me ne scuso e me ne dispiaccio, perché mi interessava ascoltare e anche intervenire.
I tre nodi problematici che mettete in discussione sono indubbiamente connessi tra loro, ma mi parrebbe anche utile considerare distintamente questioni quali: rivoluzione e lotta armata, non violenza non come principio e testimonianza ma come obiettivo politico per cui battersi in un contesto dato.
Democrazia e socialismo hanno per decenni attraversato e tormentato la storia della mia vita, sia sul piano teorico che su quello pratico. Su di essi ho cercato e ancora credo di aver qualcosa da dire di non troppo banale. E anche diritto di parola. Anche quando fui infatti radiato dal PCI, soprattutto perché dopo Praga mi pareva che fosse già in corso una degenerazione del socialismo reale destinato alla sconfitta, non ho mai considerato tale degenerazione
un approdo già tutto iscritto nella Rivoluzione d’Ottobre, nel leninismo e tantomeno nel pensiero di Gramsci o nella politica del comunismo italiano.
Sono stato partecipe alla nuova sinistra del ‘68 e del post ‘68 e fortemente critico della politica di unità nazionale, ma ho contrastato – senza incertezze – culture e pratiche orientate alla violenza, non solo nella forma estrema del terrorismo, ma anche nella cultura e nelle pratiche che l’avevano mimato e poi giustificato, a differenza di tanti che oggi mi ritrovo nel saio francescano o nel saari gandhiano.
Oggi, dopo tutto ciò che è accaduto, trovo che sia non solo necessario, ma anche possibile, mettere ancora più in primo piano il pacifismo, la non violenza e la democrazia come strumenti, e non come ostacoli, per una rasformazione radicale della società nella quale i metodi si avvicinano meglio ai fini. E credo necessario per questo una riflessione autocritica e coraggiosamente innovativa della nostra storia di comunisti, consapevoli certo delle condizioni eccezionali che l’hanno sovrastata, ma anche di nodi teorici irrisolti o di errori politici gravi. Se
il comunismo è un movimento reale che cambia lo stato presente delle cose, esso non può che applicare anche
a se stesso l’implacabile verifica dei fatti. Ma per essere intellettualmente seria e politicamente feconda tale riflessione deve distinguersi, e anzi deve reagire, ad un liquidazionismo che oggi sta dilagando in tutta la sinistra. Al “ nuovo inizio” della Bolognina preferisco il “ricomincio da tre” di Troisi: cioè uno sforzo per distinguere il grano
dal loglio, per non spezzare il filo della memoria, per non riesumare, come modernissime, tradizioni altrettanto
antiche e ancor più ingannevoli. Perciò andiamo spregiudicatamente pure a fondo sui temi di cui oggi discutete, si ripropongano – tali temi – con nuova radicalità, ma tenendo fermi alcuni punti legati tra loro che distinguono
l’autocritica dal pentimento, un nuovo pensiero da una nuova moda, e di cui avrei voluto parlare e mi propongo di scrivere.
Solo per accennare a tali distinguo:
1) che si rifiuti, perché falsificante, una ricostruzione della storia del ‘900 e del movimento comunista che considera l’una e l’altro come un cumulo di macerie da cui liberarsi, proprio in un momento in cui siamo invece fin troppo costretti a dover difendere conquiste che proprio quella storia ha prodotto. Né si consideri Gramsci – e per certi aspetti lo stesso Togliatti – come pensatori morti, non solo fisicamente;
2) che non si attribuisca ai comunisti una responsabilità, quasi prevalente, nell’aver messo ai margini il tema della pace. Un tema sul quale, seppure con qualche deviazione momentanea, i comunisti hanno molte più ragioni di essere orgogliosi che non sul tema dell’organizzazione del potere dopo la presa del potere. I comunisti, in enerale,
sono nati contro i crediti di guerra, non hanno mai pensato ad esportare un modello sociale in altri paesi con le armate, e quelli italiani non sono vissuti in attesa di un’ora X per l’insurrezione, ma sono cresciuti nella ricerca del consenso, nella costruzione di una egemonia, nella conquista di “casematte”, e specificamente hanno dato, all’epoca dell’atomica, una centralità nuova alla questione della pace in generale (non solo come difesa dell’URSS) fino al rischio del parlamentarismo e del legalitarismo;
3) che non si astragga la questione della non violenza da un lungo processo storico che, contraddittoriamente
e lentamente, l’ha resa perseguibile, nè dai contesti in cui si colloca e che la qualificano. Penso alla nascita di stati nazionali che hanno fatto molte guerre ma anche cominciato a regolare la violenza col diritto; alla nascita delle Costituzioni che limitarono l’arbitrio dell’assolutismo; alla lenta conquista del suffragio universale, e infine all’organizzazione di partiti e sindacati che garantivano certi diritti e trasformavano la coscienza di massa oltre il ribellismo. Su queste premesse sono nati materialmente e soggettivamente il movimento operaio e quello democratico; sono cresciuti movimenti di liberazione anticolonialisti autonomi, ma non a caso, a quel tempo, immuni dal fondamentalismio etnico e religioso. In essa hanno operato per secoli anche minoranze e culture che la non violenza consideravano un valore assoluto, con radici religiose: sono state premonitrici e preziose nel contestare la violenza con cui i successivi sistemi di dominio e di classesi affermavo e tutelavano, ma sono state represse o rovesciate nel loro contrario fino a quando un processo generale ha offerto loro la possibilità di uscire dal ghetto della testimonianza.
E tuttavia, anche in tutta questa lunga storia è assurdo confondere la violenza di chi aggrediva e voleva opprimere una maggioranza e la resistenza anche armata di chi le si opponeva, oppure confondere il “putchismo” di fuochi guerriglieri che pensavano di anticipare o surrogare il popolo con lotte di popolo che si rivolgevano contro apparati repressivi che negavano ogni spazio alla lotta sociale e alla libertà. Separare il pacifismo da questo contesto, sublimarlo in un principio etico e astratto da una realtà determinata, appare più radicale e appassionante, la in realtà ne mortifica la nuova attualità e ne limita i risultati;
4) infine che non si deduca, dalla radicale critica della politica degenerata, come oggi si presenta, né dal declino del ruolo degli stati nazionali, la conseguenza che la politica come organizzazione permanente, pensiero coerente e progetto consapevole e di lunga durata, non serva più. Oppure che lo Stato non ci sia più, i suoi poteri siano marginali, il dominio di classe si regga solo sul mercato e si possa così cambiare la società solo dal basso e fidando solo sulla spontaneità di un movimento reticolare. La realtà dei fatti è del tutto diversa.
Gli Stati pesano ancora, si ordinano in una gerarchia più rigida tra loro,
non si cambia la società se in ogni fase non si incide sulle loro scelte e non vi si incide senza una forza e un progetto adeguati. La società stessa porta ancora, anzi sempre di più, con sé – nel bene e nel male – il meglio e il peggio del sistema che la costituisce. Porta in sé la spontaneità della lotta e della speranza, ma anche quella dell’egoismo individualista, della violenza introiettata, del degrado morale. La presa del potere non è più certo, se mai lo è stata, un’ora X, ma diventa sempre più un processo sociale per tappe; ma non per questo il problema del potere piò essere rimosso ed esorcizzato. Gramscianamente, l’egemonia è consenso corazzato da forze: il problema è quello di trasformare il consenso in partecipazione diffusa e permanente, addomesticare la forza entro i confini della democrazia e della non violenza.
Per tutto ciò, insomma, anche sapendo che la parola comunista costituisce oggi più un tema di ricerca che una soluzione compiuta, una voce tra le altre necessarie, io continuo a definirmi un neo comunista piuttosto che un riformista o un antagonista, anche se di antagonismo c’è bisogno e di riforme pure. Resta del tutto da discutere se e come una tale identità possa diventare azione politica concreta: ma non è giustamente questo il tema della vostra discussione di oggi, né io avrei avuto titolo per intervenirvi.

È questo l’intervento inviato dal compagno Magri al convegno organizzato da l’ernesto (“Il potere, la violenza, la resistenza”) e tenutosi a Milano il 26 ed il 27 marzo scorsi.