Un secolo di ingerenza imperialista nel Medio Oriente

Palestinian refugees2di José Oliveira

O Militante”, rivista teorica del Partito Comunista Portoghese

Traduzione di Marx21.it

L’anno 2017 segna il 100° anniversario della Dichiarazione Balfour, uno dei documenti più distruttivi del Medio Oriente nel XX secolo. Da essa deriva il piano di spartizione della Palestina (1947) e la creazione di Israele, accompagnato da un corteo di violenze e dall’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi.

“Il Governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”, si legge nella lettera inviata allora dal ministro degli Affari Esteri britannico, Lord Arthur Balfour, al dirigente sionista Walter Rotschild.

Ricordiamo brevemente il contesto storico in cui la dichiarazione si inserisce. All’inizio del XX secolo il Medio Oriente arabo faceva parte dell’Impero Ottomano. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, i britannici volevano tenere aperta la rotta terrestre verso la loro colonia dell’India, proteggere l’accesso al petrolio iracheno e persiano e impedire che ad esso avessero accesso i tedeschi, alleati dei turchi. Cercarono così l’appoggio degli arabi nella guerra contro i turchi. Nel 1915-1916, l’alto commissario britannico in Egitto, Sir Henry MacMahon, avviò una corrispondenza con lo sceriffo Hussein, emiro della Mecca, promettendo alla sua famiglia (gli hascemiti) un ruolo di primo piano nel Medio Oriente. Nel 1916 gli hascemiti, con la collaborazione del famoso militare britannico T. E. Lawrence, scatenarono una guerra contro i turchi.

Ma, nello stesso tempo in cui facevano promesse agli arabi, i britannici tenevano negoziati segreti con i francesi per la spartizione del Medio Oriente dopo la sconfitta degli ottomani. L’accordo Sykes-Picot, concluso segretamente nel maggio del 1916, divideva il Medio Oriente arabo in nuove entità politiche e in sfere di influenza delle due potenze (la Palestina si sarebbe trovata sotto il dominio coloniale congiunto).

Ma la verità venne a galla ancora prima della fine della guerra. Nel novembre del 1917, i bolscevichi, dopo aver preso il potere, resero pubblico l’accordo Sykes-Picot; infatti, anche l’Impero Russo, alleato della Francia e della Gran Bretagna nella Triplice Intesa, avrebbe dovuto impossessarsi di una parte del bottino.

A sua volta, la Dichiarazione Balfour prometteva agli ebrei la creazione di un “focolare nazionale” in Palestina, contraddicendo sia le promesse fatte agli arabi che le intese con i francesi.

Bell’esempio di ipocrisia e perfidia: McMahon aveva promesso a Hussein un regno arabo-hascemita che avrebbe compreso la Palestina; l’accordo Sykes-Picot divideva il Medio Oriente tra imperialisti inglesi e francesi, con la Palestina sotto dominio congiunto; e la Dichiarazione Balfour prometteva la Palestina – che inglesi e francesi non possedevano – a un movimento di ebrei europei che non avevano alcun legame reale con essa. Con arroganza coloniale, i paesi imperialisti decidevano il destino di paesi e regioni, senza riguardo per i popoli.

I sionisti sostenevano che gli ebrei rappresentavano etnicamente un popolo e volevano “ritornare” nel paese dei loro remoti antenati: una falsità, perché gli ebrei attuali derivano dalla relativamente recente conversione di differenti persone senza legami ancestrali con la Palestina. Ed era a partire da ebrei provenienti da molti paesi, attraverso un autentico atto di colonizzazione, che i sionisti pretendevano di costituire una nazione.

Nell’assecondare le pretese sioniste, i britannici volevano deviare dall’Europa occidentale, e dal loro stesso paese, e dirigere verso la Palestina le ondate di ebrei che fuggivano dalle persecuzioni nell’Europa centrale e orientale; e anche costituire in Palestina uno Stato-cuscinetto popolato da europei, il che concordava interamente con i disegni coloniali dei sionisti, che si consideravano “un’entità occidentale nel bel mezzo del deserto arabo” (Ilan Pappé).

Terminata la guerra, furono smentite le promesse fatte allo sceriffo Hussein di un regno in tutte le antiche province arabe dell’Impero Ottomano e fu confermata la divisione della regione in mandati britannici e francesi.

Al contrario – ma sulla stessa linea di “balcanizzazione” del Medio Oriente -, la Dichiarazione Balfour è integrata nel Mandato con il quale la Società delle Nazioni, nel 1922, attribuì all’Impero Britannico il governo della Palestina. L’articolo 2° del Mandato dice espressamente che il “Mandatario sarà responsabile per la collocazione del paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche che assicurino l’instaurazione del focolare nazionale ebraico”, trasformando così la promessa unilaterale fatta ai sionisti in un obbligo garantito dal diritto internazionale. Quanto agli abitanti indigeni del paese, i palestinesi, è assente qualsiasi riferimento ai loro diritti politici e nazionali, facendosi menzione appena alla “salvaguardia dei diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina”.

In un memorandum del 1919, Balfour esprime con chiarezza la base ideologica della politica britannica in Palestina: “Le Grandi Potenze si sono impegnate con il sionismo. E il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni antiche, in necessità presenti, in speranze future, di importanza molto più profonda dei desideri e preconcetti dei settecentomila arabi che ora abitano quella terra antica”.

Nel corso dei decenni 20 e 30 andò intensificandosi l’emigrazione ebraica in Palestina e si intensificò anche la resistenza degli arabi palestinesi, musulmani e cristiani, che già nel 1918 avevano protestato contro la Dichiarazione Balfour. In ottobre 1936 iniziò uno sciopero generale, durato sei mesi, e si registrarono manifestazioni in tutto il paese.

Nel 1937, una commissione di inchiesta, guidata da Lord Peel, raccomandò la spartizione della Palestina tra ebrei e arabi. Questi respinsero il piano, chiedendo uno Stato palestinese indipendente. I sionisti accettarono, non il piano concretamente ma il principio della spartizione, vedendo in essa la base per la futura espansione.

La Grande Rivolta Araba, che si protrasse fino al 1939, assumendo forme armate, fu duramente schiacciata dai britannici. I palestinesi furono privati dei loro dirigenti, la cui mancanza si sarebbe fatta duramente sentire. Mentre i sionisti uscirono rafforzati, in particolare sul piano militare.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna decise nel febbraio del 1947 di rinunciare al Mandato e di affidare il problema della Palestina all’ONU. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’ONU approvava la risoluzione 181, che prevedeva la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, con Gerusalemme a statuto speciale. La spartizione della Palestina fu discussa e approvata in un clima condizionato dal recente genocidio degli ebrei per mano del regime nazista e dalla sorte dei sopravvissuti (il caso della nave Exodus è del luglio 1947); ma la soluzione adottata si tradusse nella penalizzazione del popolo palestinese per un crimine che non aveva commesso. Al di là della sua essenziale ingiustizia, il piano attribuiva il 45% del territorio della Palestina allo Stato arabo e il 55% allo Stato ebraico, sebbene gli ebrei fossero proprietari solo del 7% delle terre e rappresentassero il 33% della popolazione. I sionisti concordarono il piano di spartizione, che non avevano intenzione di rispettare: non potevano essere d’accordo con l’alienazione del loro territorio storico.

I sionisti iniziarono immediatamente un’operazione di pulizia etnica. Le numerose atrocità non avvennero per caso, ma facevano parte del Piano Dalet (descritto in dettaglio in Ilan Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine) che mirava a ripulire il futuro Stato ebraico dal maggior numero possibile di palestinesi nel minor tempo possibile, in modo da mettere l’ONU, gli USA e i paesi arabi di fronte al fatto compiuto.

Quando lo Stato di Israele fu proclamato, il 14 maggio 1948, era già stato espulso un terzo della popolazione palestinese. Nella primavera del 1949, quando ebbe fine la guerra israelo-araba, rimanevano nelle sue terre o nelle vicinanze solo 160.000 palestinesi; 750.000, quasi il 90% della popolazione che viveva nel territorio attribuito allo Stato ebraico, erano diventati profughi. Contrariamente a ciò che prevede la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU, approvata nel dicembre del 1948 (e riaffermata più di 110 volte!), sette decenni dopo i rifugiati e i loro discendenti non possono ancora ritornare: sono i rifugiati più antichi del Medio Oriente. Coloro che sono rimasti sono diventanti la minoranza palestinese di Israele. La metà dei villaggi è stata distrutta. E’ con ragione che i palestinesi definiscono questi tragici avvenimenti “la Catastrofe” – Al-Nakba”.

La guerra del 1948 è spesso presentata come una nuova storia di Davide e Golia, in cui il piccolo Israele ha affrontato e sconfitto tutti i potenti eserciti arabi. La realtà è ben diversa. I sionisti disponevano di truppe disciplinate e ben addestrate e con un piano ben definito. Al contrario, i politici del mondo arabo solo alla fine di aprile del 1948 prepararono un piano per salvare la Palestina (e alcuni paesi, come la Giordania, addirittura cercarono accordi segreti con i sionisti per annetterne parti); i loro eserciti avevano un’esperienza militare molto limitata, un addestramento molto sommario e mancavano di coordinamento. Durante quasi tutta la guerra rimase quasi equivalente il numero dei combattenti di entrambe le parti, compresi i due paesi arabi vicini. Ma già a partire dal giugno del 1948 i sionisti diventarono preponderanti per potenza di fuoco: Israele riuscì a comperare armi, mentre gli eserciti di Egitto, Iraq e Giordania, che utilizzavano solo munizioni britanniche, subirono l’embargo inglese, a seguito di una risoluzione dell’ONU.

L’esito della guerra parla da sé: gli israeliani occupavano ora un’area corrispondente al 78% della Palestina storica (contro il 55% che il piano di spartizione dell’ONU attribuiva a loro).

Israele terminò nel 1967 quello che non era riuscito a conseguire nel 1948, vale a dire l’occupazione della totalità della Palestina storica. In quell’anno, in conseguenza della cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, Israele occupò Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Ancora una volta si assistette all’esodo di un’ondata di rifugiati palestinesi (circa 250.000) dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.

Nel 1967 Israele occupò anche le alture del Golan (Siria) e la Penisola del Sinai (Egitto), l’unica che fino ad oggi è stata restituita. Come era già successo nel 1956, nel quadro dell’aggressione tripartita (con la Francia e il Regno Unito) all’Egitto, quando questo paese aveva nazionalizzato il Canale di Suez, Israele continuava a svolgere il ruolo di punta di lancia dell’imperialismo nella lotta contro i regimi progressisti e i popoli della regione. Di ciò sono ugualmente esempio le aggressioni al Libano nel 1978, 1982 (con l’occupazione del sud del paese fino al 2000), 1993, 1996 e 2006.

Tra gli anni 80 e 90 si è verificato un drastico cambiamento del rapporto di forze mondiale a favore dell’imperialismo, in conseguenza della sconfitta del socialismo in Unione Sovietica e nei paesi dell’Est europeo. Le sue nefaste conseguenze per i popoli non hanno tardato a farsi sentire sia in Palestina che in tutto il Medio Oriente. Negli Accordi di Oslo (1993-1995) e in successive trattative con Israele patrocinate dagli USA, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – indebolita dalla sua espulsione dal Libano, nel 1992, soffrendo la diminuzione dell’assistenza finanziaria dei paesi arabi e privata dell’appoggio dell’URSS – ha fatto successive concessioni, ragion per cui è stata criticata da alcune fazioni palestinesi. In tal modo, non sono state ancora adottate le risoluzioni 194 (1948), 242 (1967) e 338 (1973) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che chiedono il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967 e una giusta soluzione del problema dei rifugiati. Passati 50 anni, i rifugiati non possono ancora ritornare e l’occupazione continua.

Con il nuovo rapporto di forze mondiale, l’imperialismo, capeggiato dall’imperialismo statunitense, si è presto lanciato in una serie di aggressioni. La Guerra del Golfo (1990-1991), l’invasione dell’Afghanistan (a partire dal 2001), la guerra dell’Iraq (iniziata nel 2003), la distruzione della Libia (2011), le aggressioni alla Siria (dal 2011) e allo Yemen (dal 2015), sono i segni di un’offensiva che mira a creare un arco di instabilità, caos e violenza – Condoleeza Rice, ex Segretaria di Stato degli USA, l’ha definito cinicamente “caos costruttivo” – nel Medio Oriente e in Asia Centrale, per indebolire e frammentare paesi, liquidare resistenze, riordinare in base ai propri interessi questa regione strategica, ricca di risorse naturali.

Il tentativo di frammentazione secondo linee religiose ed etniche è ben evidente nel caso dell’Iraq, dove la regione curda è diventata di fatto indipendente, e più recentemente della Siria. Per inciso, si deve segnalare come fatto molto positivo che questo paese, con l’aiuto in particolare della Russia, dell’Iran e di Hezbollah, è riuscito fino ad ora a resistere ed anche a invertire il corso della furiosa guerra che le è stata mossa dalle potenze imperialiste occidentali (USA, Regno Unito, Francia), con la collaborazione delle reazionarie petromonarchie arabe, della Turchia e di Israele.

Un secolo dopo la Dichiarazione Balfour e l’accordo Sykes-Picot, non si è interrotta per un solo giorno l’ingerenza mortale dei paesi imperialisti nel Medio Oriente. La presunta superiorità morale dell’ “Occidente”, basata sulla democrazia e i diritti umani, è una sinistra mistificazione.

Riferimenti bibliografici:

Ilan Pappé, História da Palestina Moderna, Caminho, Lisboa, 2007.
Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld Publications, Oxford, 2006.
MPPM, O Essencial sobre a Questão Palestina, Lisboa, 2016.
Shlomo Sand, Como o Povo Judeu Foi Inventado, Figueirinhas, Porto, 2012.
Tanya Reinhart, Destruir a Palestina, Caminho, Lisboa, 2004.